L’amico di infanzia, che non vedevo da un anno e che ora pratica lo yoga e sta visibilmente bene, mi dice: «Solo ora, passati i quaranta, mi rendo conto di avere finalmente raggiunto il mio equilibrio, una sorta di benessere. Mi rendo conto di avere adesso calibrato perfettamente i miei pregi e miei limiti, di sapere quello che voglio e perché, di essere perfettamente a mio agio con me stesso e con la realtà di cui mi sono circondato. Comprendo degli errori fatti nel frattempo e quindi so con certezza quali sono, adesso, le mie priorità e la mia strada. Insomma, ho raggiunto finalmente un equilibrio stabile; e ce l’ho fatta solo dopo i quaranta: prima era stato tutto un andare a tentoni, senza capirci molto, sbagliando sempre e continuamente».
Io lo ascolto. E mentre lo ascolto, ve lo confesso, insieme alla felicità di vederlo stare bene e di saperlo amico mio da sempre, mi prende uno strano sentimento di tensione, quasi un’invidia, una specie di «mancanza»: perché per me non è affatto così. Com’è possibile che io invece no? mi chiedo, mentre lui parla.
Perché io ancora non so quello che voglio e perché lo voglio? mi domando, e resto interdetto. Penso di avere sbagliato troppe cose, di avere tradito troppe strade, di essere immaturo o superficiale. Poi la serata va avanti, si parla d’altro, si scherza, si beve, si sta bene, ci si riconosce come sempre.
E poi, alla fine di tutto, torno a casa. Ma mentre guido verso il lago, mentre mi accecano i fari delle altre auto nella notte, mi tornano alla mente quelle sue parole, quel discorso sull’«equilibrio personale» finalmente trovato; mi ripeto quelle parole tra me e me. E improvvisamente mi ricordo una cosa, accaduta dieci anni anni fa. Mi ricordo che dieci anni fa, quando avevamo da poco superato i trent’anni, il mio amico di infanzia mi fece lo stesso identico discorso: aveva finalmente trovato l’equilibrio, sapeva quello che voleva, aveva riconosciuto la sua strada. E anche dieci anni fa, mi ricordo, io rimasi così, come un pirla, pensando che io no, che io non avevo trovato niente. E forse anche venti anni fa abbiamo fatto lo stesso discorso, non è impossibile; e forse anche allora io mi sentii un po’ a disagio ad ascoltarlo.
E allora, mentre guido e sono già ai bordi del lago, mi viene da sorridere. E penso che no, io non ci credo. Io non ci credo a questa storia dell’esperienza che ci insegna a vedere e a capire meglio, e agli equilibri che a un certo punto si trovano e che prima non avevamo trovato. Io non ci credo che esistano gli equilibri: sarebbe come dire che l’esistenza è comprensibile. E invece non lo è. E so di averlo già scritto tanto tempo fa, ma forse il tono era un po’ troppo scherzoso e non mi è bastato: perché davvero io non sono mai riuscito a credere che l’esperienza serva a qualcosa. Anzi: mi diverto spesso a ripetere che l’esperienza è solo il cumulo inservibile degli errori che abbiamo fatto.
È vero: ci sono cose e aspetti della vita che vediamo a vent’anni, poi non li vediamo più. Ma non è perché impariamo a vedere meglio, niente affatto. Forse è solo che cambiamo posizione e prospettiva, tutto qui. Guardiamo alla vita da un punto diverso del nostro tempo e questo ci fa sembrare falso (e magari anche ingenuo) quello che vedevano dieci anni prima. Ma non è vero: non era falso e non era ingenuo. Era vita, come lo è adesso. Era la vita vista da quell’angolo particolare, che non è né meglio né peggio di quello da cui la vediamo oggi. È un altro, semplicemente. Forse si può fare lo stesso discorso per quando avevamo dieci anni, forse anche per quando ne avevamo cinque. Non cambia nulla di quello che abbiamo davanti, tutto resta comunque incomprensibile: cambiamo noi, cambiamo occhi e posizione, e questo ci dà l’illusione di vedere meglio, di vedere di più. Ma non è vero, non si può vedere di più.
Io oggi guardo i miei alunni diciottenni uscire dalla quinta e riconosco la loro ingenuiutà, è così; ma loro guardano me e riconoscono la mia senilità, è evidente. Chi ha ragione? Nessuno. Oppure tutti abbiamo ragione. Tutti stiamo guardando la stessa incomprensibile esistenza e pensiamo che il nostro punto di osservazione sia quello privilegiato, per la semplice ragione che è il nostro, in questo momento. Ma i momenti passano e si portano via anche i punti di vista; noi lo chiamiamo esperienza, questo inevitabile passare di tempo, e cerchiamo di usarla con chi, più giovane di noi, non sa che presto cambierà idea. Ma non vale, è scorretto, è poco più che un trucco da prestigiatori dell’età adulta. In realtà l’esperienza, se non ci serve a capire che non avremo mai ragione e che non troveremo mai un vero equilibro, è un’esperienza inutile e insensata.
Perché forse è questa l’unica forma di esperienza che vale la pena di avere, prima o poi: l’esperienza dell’incomprensibile, del fatto che nulla si può davvero capire, che tutto scivola via e ci lascia con quasi niente in mano, parole che non abbiamo compreso, estati lunghe che sono passate in un istante, gesti che troppo tardi abbiamo deciso che potevamo interpretare in quel modo e non in un altro. Non sappiamo interpretare niente, invece. Né a vent’anni, né oggi, a quaranta, né, ormai me lo posso immaginare, a sessant’anni, quando ci parrà di essere finalmente in grado di capire. Non siamo in grado di capire, tutto qui. E non c’è equilibrio che tenga, e infatti tra dieci anni il mio amico verrà a dirmi di averne trovato un altro, di equilibrio definitivo, e probabilmente io lo invidierò di nuovo.
Dovrei rassegnarmi, mi dico, dovrei rassegnarmi e sapere che andrà così, tra dieci anni e poi per sempre. Ma rassegnarsi sembra troppo comodo mentre parcheggio la macchina davanti al lago…
E allora esito immobile, solo un attimo. Poi esco, chiudo la portiera, sento il fresco strano di queste serate di luglio, e so che rassegnarsi a questa incomprensibilità, se solo imparassi a farlo, non è affatto la più comoda delle opzioni: è la più terribile e coraggiosa, invece. Ed è per quello che non ne sono capace.
E mo' ti becchi il monologo pop ma grande di un film che prima o poi vedrò ('sto monologo gira da solo).
RispondiEliminahttp://www.youtube.com/watch?v=gqQPOYZo6Fs
uqbal
Tiro a indovinare senza nemmeno guardarlo (giuro): è il finale di The Big Kahuna
RispondiEliminaIo sono molto contento quando incontro quelli che praticano lo yoga, che hanno raggiunto l'equilibrio interiore, che sanno perfettamente quello che vogliono e agiscono di conseguenza. Sono contento perchè quando li conosco poi li evito accuratamente: infatti stanno sempre lì a menartela di come stanno bene e di come si sono realizzati.Meglio per loro, epperò la loro vanteria è insopportabile e insostenibile. Non reggo più ( evidentemente a causa della non più verde età)i lagnosi sfigati che devono ancora trovare la loro strada, mi hanno rotto quelli della " pace interiore" via yoga. Quest'ultimo per me è un succo di frutta.Viva Epicuro e viva gli Stoici.
RispondiEliminaCiao!
Prudentissimo
Caro Prudentissimo, io capisco bene la tua stizza e il tuo fastidio. Non è il caso del mio amico, che è troppo intelligente (o almeno così a me pare) per fare delle sue pratiche personali una vanteria. Però è vero che mediamente, la realizzazione dell'equilibrio interiore di queste persone sembra dover necessariamente passare attraverso la vanteriea e l'esibizione. Il che rende (a me) questo equilibrio parecchio sospetto.
RispondiEliminaLoSco
RispondiEliminaè chiaro...
uqbal
Il film The big Kahuna piace anche a me.
RispondiEliminaComunque anche io penso che crescere sia accettare i propri limiti. In più, penso che sia acquisire un punto di vista più comprensivo di quello di prima: che non scordi il passato, che lo capisca di più, lo comprenda di più. Per questo sono convinta che il punto di vista dei tuoi studenti non sia certo qualitativamente inferiore al tuo, anzi: ma io voglio avere il mio senza dimenticarmi del loro (di quando io avevo la loro età). E guadagnando anche quello di mio padre, delle persone che stimo di più e mi sono davanti.
E poi e poi... le cose da dire sarebbero tante. Un giorno magari ci conosceremo di persona, magari per un aperitivo sul magnifico balcone con vista lago, e capiremo di più. Ciao!
Bello comunque che tu voglia condividere con tutti le tue domande.
Dopo aver letto il primo paragrafo già mi bruciavano i polpastrelli perchè pensavo che l'amico se la raccontava (come hai detto anche tu ricordando che ti aveva detto le stesse cose 10 anni prima), però io non penso che sia da vedere come l'odioso che ti fa sentire inadeguato o che si rende antipatico. Sono sicura che lui lo pensa veramente.
RispondiEliminaE io penso di invidiarlo, perchè sono sicura che quella sensazione di equilibrio non la proverò mai. Putroppo!
equilibrio o rassegnazione?
RispondiEliminame lo chiedo anche io, vicino ai 40
variabile.
@Monica
RispondiEliminaSì, hai ragione; ma io non credo si riesca a non dimenticare; penso che si dimentichi. E questo rende ogni età uno scarto laterale, non un passo avanti. Ma è solo la mia impressione, ovviamente...
@aliceland
RispondiEliminaL'amico è uno molto in gamba, garantisco. E il discorso non è nemmeno su di lui e le sue sensazioni, in realtà. Che magari le ho solo capite male io, in omaggio alle mie personali ossessioni. Il discorso vuoleva più genericamente essere sulla ricerca di un equilibrio che non è tale.
@variabile
RispondiEliminaGià un po' oltre i quaranta io mi sono decisamente orientato verso la rassegnazione. Se solo ci riuscissi.
"In realtà l’esperienza, se non ci serve a capire che non avremo mai ragione e che non troveremo mai un vero equilibro, è un’esperienza inutile e insensata".
RispondiElimina"cambiamo noi, cambiamo occhi e posizione, e questo ci dà l’illusione di vedere meglio, di vedere di più. Ma non è vero, non si può vedere di più".
Caro LoSco,
mi piacciono molto i discorsi filosofici ed al limite anche teologici, come potevo trattenermi dall'inserire anche qui qualche mia considerazione?
Tu accenni alla inutilità dell'esperienza, ma esperienza non è soltanto una somma di eventi esterni e di percezioni fisiche, quanto anche il PENSIERO che ogni individuo aggiunge alla sua propria percezione.
Esercizio del pensiero individuale, quanti di noi possono dire a ragione veduta di stare attenti allo sviluppo del pensiero individuale quando accadono gli eventi del mondo davanti ai nostri occhi?
Ecco un secondo pensierino, a modo di storiella zen: un padre ed un figlio bambino sono sulla sommità di una collinetta ed entrambi hanno la perfetta visuale degli accadimenti in corso giù nella valle davanti ai loro occhi.
E nella valle davanti ai loro occhi è in corso una battaglia sanguinosa fra due fazioni, con armi e violenza, bandiere al vento e colori.
Ecco allora che sia il padre che il bambino osservano la stessa scena, ma mentre il padre ne ricava un sentimento di paura e di angoscia (al punto da volersi allontanare con il figlio dal rischio di venire coinvolto nella battaglia) il bambino piccolo invece ride e batte le mani e saltella, entusiasmato dalle bandiere, dai colori, in particolare dal colore rosso sangue sulle divise dei combattenti.
Come mai le due diverse valutazioni dello stesso evento? Chi vedeva meglio dei due, il padre oppure il figlio piccolo? Cosa avevano di diverso l'uno e l'altro, nella vista oppure altrove?
"Vedere meglio e vedere di più" a mio parere è ancora possibile, quando alla vista si possa ancorare un pensiero arricchito dall'esperienza della percezione, dal pensiero che giorno dopo giorno, eone dopo eone, avanza sul cammino della conoscenza.
Per me un avanzamento è possibile, non mi sento di scoraggiarmi o rassegnarmi. Come un viaggiatore sopra una mongolfiera che si innalza lentamente ecco che la coscienza umana delle cose conosciute e conoscibili si sposta: più si conosce e più ci si rende conto dell'immensità delle cose conoscibili ed ancora sconosciute.
Proprio come la linea dell'orizzonte che si espande sempre più tutta all'intorno a mano a mano che ci si innalza su per il cielo.
Le innocenti illusioni sono cosa tenace, in noi umani e ne abbiamo un bisogno assoluto, vitale.
RispondiEliminaCosì, decidere d' aver "raggiunto" un equilibrio, è, come opportunamente hai osservato, una fase ciclica nella nostra esistenza, e ciò origina l' ossimoro: perché fosse significativa conquista dovrebbe durare, ma agli esseri in divenire -quali siamo- è al massimo consentita una temporanea aderenza a qualche forma. Per il resto, siamo obbligati ed incalzati dal perenne mutamento e alla molteplicità. Ritenere di aver raggiunto approdi esistenziali può essere confortante, certo -e ne ho spesso ascoltato dichiarazioni, in special modo di carattere religioso-, ma a me pare sempre di udire una pia bugia che nasconde il desiderio di sentirsi compiuti, di riposarsi, cercando ristoro. Credo che vivere, essere davvero presenti al mondo, l'incessante agonia rappresentata dal tentativo di comprensione completa della nostra vita, siano anche la misura della grandezza umana. E nel pacchetto-viaggio non si possono escludere né il dolore, né la perplessità.
Ma forse si tratta soltanto del mio percorso personale...
Gentile sirio,
RispondiEliminamolto bello il tuo pensiero, mi ha in qualche modo risuonato dentro il tuo scrivere:
"perché fosse significativa conquista dovrebbe durare, ma agli esseri in divenire -quali siamo- è al massimo consentita una temporanea aderenza a qualche forma".
Mi ha riportato alla mente un passaggio dal significato simile che ho trovato nel libro di Robert Pirsig "LILA", un volume a seguire del primo forse più famoso "Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta".
Ebbene in "LILA" l'autore spiega con accuratezza lo svolgersi nel tempo della civiltà umana, un sistema che alterna passi in avanti di innovazione e rivoluzione ad altri passaggi di assestamento e quasi di ripiegamento sulla nuova base acquisita.
A me viene in mente il meccanismo che asseconda l'avanzare delle rotelline di un orologio: una tacca in avanti ed il suo assestarsi sulla posizione con l'aiuto di un fermo, un dente che si incastona negli spazi della ruota dentata che gira. Assestamento nella nuova posizione per poter dare nuova spinta in avanti.
Sembra a me che la temporanea aderenza a qualche forma sia come quel dente che si fermi entro la ruota dentata fino al successivo prossimo impulso ad avanzare nello spazio dentato successivo.
Notarella di colore: in lingua greca esiste distinzione di significato tra i termini "kronos" e "kairos", entrambi riferiti al tempo.
Mentre il kronos è il tempo che scorre uguale per tutti, il kairos è il tempo giusto per fare per ognuno, diverso per ognuno. Affascinante.
ti ringrazio, davvero.
RispondiEliminaGrazie a voi, in realtà. Ci sono stati commenti bellissimi, che ho lasciato senza risposta perché meritavano di essere letti come post, a loro volta.
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