sabato 26 ottobre 2013

D'Orrico, per altri motivi

del Disagiato

Scusate se vi parlo ancora di Pier Paolo Pasolini ma scrivo solo poche righe per correggere il critico letterario Antonio D’Orrico, che ieri ha recensito La Nebbiosa (Il Saggiatore), una sceneggiatura di Pasolini (ora in forma di romanzo) rimasta pressoché inutilizzata e riportata alla luce. D’Orrico esordisce così: 
Dopo Ragazzi di vita e Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini non ha scritto più veri romanzi probabilmente perché girare film è più divertente e, per certi versi, meno faticoso (e poi è più mondano, tiene compagnia). 
A parte la superficialità di queste considerazioni, c’è da dire che Pier Paolo Pasolini incominciò a far cinema negli anni sessanta per motivi che non hanno a che fare con la mondanità o la facilità, ma con una serie di problematiche (moltissime di queste trattate poi in Empirismo eretico, Garzanti, 1972che stanno nel recinto della letteratura e della linguistica. Pasolini dichiarò che iniziò a stare dietro la macchina da presa per utilizzare una tecnica diversa, per abbandonare la lingua italiana, per una forma di protesta contro le lingue e la società e poi anche e soprattutto per riprodurre la realtà nella maniera più primitiva e autentica. Meglio, però, lasciar parlare lo stesso Pasolini. Vi accorgerete che la questione è ben più profonda, complessa e importante:

mercoledì 23 ottobre 2013

Lo sanno

del Disagiato

Nelle scorse ore Silvia Bencivelli, Marco Cattaneo e altri giornalisti scientifici hanno rivolto dieci domande a Giulio Golia e alla redazione delle Iene sul caso Stamina e sui servizi mandati in onda da Italia 1. I servizi, come magari già sapete, sponsorizzano Davide Vannoni e il suo Metodo con una condotta non proprio scientifica. Non sono uno scienziato, ma ritengo giusto far chiarezza sulla questione e mettere all’erta chi sta dall’altra parte dello schermo, cioè lo spettatore, che magari di strumenti intellettuali e scientifici (come me e molti altri) non ne ha. Come dice giustamente la Bencivelli: “Di certo, però, è rimasta la tv accesa a mostrarci pezzi di realtà e lacrime. E sono (ancora) convinta che chi ne detiene il telecomando abbia l’obbligo di interrogarsi, e di lasciarsi interrogare, su come ha scelto di usarlo”. Vorrei dire la mia. Secondo me le Iene e Giulio Golia sanno che Silvia Bencivelli, Marco Cattaneo e gli altri giornalisti scientifici hanno ragione. Le dieci domande, per loro, non sono che domande retoriche o domande che cadono direttamente nel vuoto. I servizi mandati in onda dalle Iene sono come il vino biodinamico, e cioè quel vino che unisce ai metodi dell’agricoltura biologia le influenze astrali: quando i pianeti si allineano il vino diventa buonissimo? ; la luna influenza l’uva così come influenza le maree? 

Scusate l’accostamento, ma era solo per dire che chi compra il vino biodinamico lo fa per credere in qualcosa di, diciamo così, “spirituale”. Giusto così, capita. Io, se devo essere sincero, tutti i giorni mi tuffo nella mia privatissima dimensione spirituale per stare un po’ meglio, per allontanarmi dalle cose fastidiose della vita. Chi però commercializza il vino biodinamico lo fa non tanto perché crede alle forze degli influssi astrali o ad altre pazze pseudoscientifiche pratiche agricole, ma perché c’è qualcuno che quel vino lo compra. Fare vino biodinamico significa cercare e trovare un pubblico capace di spendere soldi per il vino biodinamico. Chi pensa e prepara i servizi per le Iene lo fa sapendo che nell’ ampio e variegato palinsesto televisivo c’è una fetta di pubblico disposto a intrattenersi in un determinato modo. Le domande poste ai politici per dimostrare la loro ignoranza non vengono poste per dimostrare l’inadeguatezza di quelle persone alla vita politica ("il parlamentare lo potrei fare anch'io”, borbottiamo davanti all'ignoranza dei deputati) ma perché la redazione delle Iene sa che a casa c’è molta gente che ha voglia di guardare l’inadeguatezza dei politici e per poter dire, finalmente, “il parlamentare lo potrei fare anch'io”. Se ci sono telespettatori c’è pubblicità da trasmettere, e quindi, ovviamente, soldi da guadagnare. 

La battaglia da portare avanti non deve essere di tipo scientifico, o non solo. Secondo me le Iene sanno bene che i loro servizi non dicono la verità o tutta la verità, così come molti agricoltori sanno che il vino biodinamico è una bufala, una trovata commerciale. Sanno, però, che c’è un pubblico. Ed è a questo pubblico che bisognerebbe fare dieci o cento domande.

lunedì 21 ottobre 2013

Le energie mentali

del Disagiato


Nella fotografia qui sopra potete vedere ciò che vedevo io da una finestra di una pensione di Bruges, a maggio. Credetemi, la vista era stupenda e suggestiva, e lo dico con la consapevolezza che quando si viaggia con qualche soldo in tasca e il tempo per fare quello che ci pare e piace, il mondo diventa molto più facilmente stupendo e suggestivo, sia che ci troviamo in Belgio, sia che ci troviamo in Norvegia. Brescia è molto bella, bellissima, ma le preoccupazioni, il lavoro (che ora non c’è), l’affitto da pagare e via dicendo, spesso mi rendono cieco, e la bellezza della città si nasconde dietro una cataratta quotidiana difficile da togliere. Bruges si divide in due parti. Una parte è quella più frequentata dai turisti e cioè quella con le “attrazioni” principali, i bar, i locali, i negozi, i ristoranti; l’altra parte è quella che sta duecento metri più in là, ed è la zona dove oltre ai canali, ai ponti, alle piante che si chinano a baciare gli specchi d’acqua e a qualche Kebab e libreria, non c’è nulla (e qui di turisti se ne vedono pochissimi). Ecco, la mia camera stava in quella parte tranquilla della zona storica della città. Ci sono stato per tre giorni, e una settimana o due (e, perché no, per sempre) ci sarei stato ancora. In quella parte della città. Parte poco visitata dai turisti proprio per la mancanza di vere attrattive: ma che belli i canali, ma che bella la mia ombra sui muri di notte. Si stava benissimo proprio per l’assenza di ambizione di quel quartiere, l’ambizione che spesso rende un posto dinamico e “proiettato verso il futuro, che attira persone creative da tutto il mondo” (lo dice Gerhard Mumelter a proposito di Berlino, Internazionale, 15 luglio 2013). Niente futuro, niente dinamismo e soprattutto per questo amavo quella camera, quella finestra, quel quartiere e quel silenzio. “Non cerco la tragedia, ma ne subisco la vocazione”, diceva Giovanni Giudici di se stesso. Non cerco la pigrizia ma ne subisco la vocazione, e devo dire che quei tre giorni, in quel posto, hanno assecondato in modo perfetto questa mia propensione a non far niente, a non desiderare ciò che è dinamico, aperto, internazionale e che attira menti creative. 

Ho ripensato a Bruges e a quella stanza dopo aver letto un articolo di Roberto Calò sulla condizione dei disoccupati. Eccovi un brano importante dell’articolo: 

Qui stiamo trascurando il lato economico per affrontare l’aspetto identificativo che è la sostanza psichica di un individuo. Stare ore e ore al bar seduto ad un tavolino leggendo un giornale, oppure chiacchierare tutta la giornata in più punti di una città o starsene a casa a vedere la televisione, è una condizione umana tollerabile dalla propria coscienza? Semplicemente ci si spersonalizza. Si perde l’integrità psicologica perchè la psicologia di un uomo o di una donna si basa proprio sull’identità. Chi sei? Non basta il nome, manca l’esperienza formativa, quella qualifica perfettibile che ci rende esseri sociali. E’ qui che il titolo di questo scritto deve far riflettere. “Chi non lavora non è normale!” Non è normale perchè non si riconosce in una categoria attiva. La sua energia mentale non si muove. Manca l’azione. 
Io, adesso, sono un disoccupato. La libreria ha chiuso per sempre e le mie preoccupazioni (quelle che non mi permettono di vedere gli angoli poetici di Brescia) si sono moltiplicate. Come farò a pagare l’affitto? Come potrò, in mezzo a questa congiuntura, finire di pagare la macchina? E la pizza con gli amici? E i viaggi in Andalusia? E, soprattutto, come farò a fare la spesa all’Esselunga? Questo per dire che essere disoccupati è una condizione esistenziale quasi terribile e deprimente: vengono un sacco di brutti pensieri. Chi è nella mia situazione, mi può capire. Non vedo l’ora di trovare un lavoro che sappia darmi un pizzico di soddisfazione e di rimettermi in piedi. Però volevo anche dirvi che questi due mesi di inattività – certo, aiutato dal Tfr e dai soldi dell’Inps – mi stanno dicendo che è proprio bello (per il mio temperamento, ci mancherebbe) stare fermi, non lavorare, non avere a che fare con clienti, colleghi e datori di lavoro. Magari mi sbaglio, ma io non mi sto spersonalizzando, come dice Roberto Calò dei disoccupati. E oltretutto non sto subendo una crisi di dignità, e non mi sento mutilato. Insomma, io non lavorerei mai. Me ne starei per sempre come in quei tre giorni in quel piccolo quartiere della città belga: a pensare (a che cosa, non lo so), a leggere, a passeggiare e a fare poco altro. 


A lungo andare, a non lavorare, ci stufa, direte voi. A lungo andare la psiche non cresce “come dovrebbe”. Non so che dirvi. Sarò persona arida, ma io ho sempre lavorato per un unico motivo: ottenere soldi, perché i soldi mi rendono più libero. Per me non è vero che il tempo è denaro, ma semmai è il denaro che è tempo. Il mio tempo. Calò scrive: “ci sono delle categorie esperienziali, ognuna delle quali è composta appunto da esperienze determinate di cui l’uomo è padrone”. Ecco, io della categoria esperienziale ne farei a meno, per sempre. Certo, c’è l’affitto da pagare. E poi ci sono tante altre preoccupazioni.

giovedì 17 ottobre 2013

Diverse ma uguali

del Disagiato

Nel film Cesare deve morire arriva il momento in cui, durante le prove teatrali nella prigione, l’attore detenuto che deve fare la parte di Bruto recita questa battuta: “Questo non è un assassinio, è un sacrificio. Ah, se si potesse strappare lo spirito al tiranno senza squarciare il petto suo”. Poi ripete le ultime parole a bassa voce (ah, se si potesse…), si blocca, dà una manata al muro e si siede, scosso, il viso tra le mani. “Che succede, non ti vengono le battute?” gli chiede il regista, e allora l’attore Bruto, irritato e guardandolo negli occhi, gli risponde: “Ma che vuoi! È una cosa mia! È una cosa mia!”. È una cosa sua, quello che sta accadendo. L'attore, dopo essersi calmato e scusato, spiega che la frase “ah se si potesse strappare lo spirito al tiranno senza squarciare il petto suo” gli ha fatto venire in mente un amico, con il quale vendeva sigarette di contrabbando, e che un giorno, prima di “tappare la bocca di un infame” gli disse le stesse parole di Bruto: “Le parole erano diverse, ma uguali”, dice stupito. Diverse ma uguali. Insomma, scrivo di questo momento del film perché è proprio in questo momento, secondo me, che gli attori carcerati capiscono che la letteratura, anzi no, l’arte (non cascateci, l’ho fatto con proposito a dire prima “letteratura” e poi “arte”) è entrata in circolo o, direi in modo ben più prosaico, è proprio lì che l’arte incomincia a funzionare. A funzionare su di loro. L’arte agisce solo quando noi riusciamo a farla agire: per mezzo di un incontro tra le parti. Le parole diverse diventano uguali, e riescono a far emergere facce, ricordi, eventi che ci hanno toccato. Proprio com'è accaduto all'attore, che di colpo, grazie a poche parole che pensava innocue, incomincia a ricordare, a collegare e, chissà, magari a dare significati. 

Questa battuta di William Shakespeare scritta più o meno nel 1600 è significativa ed evocativa non solo grazie a Shakespeare (non solo Shakespeare è uno scrittore contemporaneo ma tutti i "classici" che leggiamo) ma anche grazie a un carcerato di qualche secolo dopo. Un carcerato che ha fatto una cosa che a volte ci sembra davvero difficile - o troppo facile? - da fare: ha letto e poi, come capita a chi legge, si è immedesimato. Ecco, forse basta leggere per capire noi stessi e le parole che ci hanno detto una volta i nostri amici contrabbandieri E invece noi, a volte così splendidamente ingegnosi, pensiamo a cose più complicate per far funzionare la letteratura (e l’arte). Ripeto, forse basterebbe fare una cosa sola: leggere. Non molto altro.

mercoledì 16 ottobre 2013

Non aver paura di avere un cuore

del Disagiato

Ieri Italo Calvino avrebbe compiuto novant'anni, e Sandra Petrignani ha scritto per l’occasione un articolo sull’autore raccontando le sue virtù letterarie e umane. Nell’articolo, e di questo vorrei parlare, si racconta anche del contrasto tutto intellettuale che Calvino ebbe con Pier Paolo Pasolini: 
Pasolini si era messo contro e attaccò anche l’ex amico Calvino per certe simpatie, che giudicava ipocrite, verso gli studenti in rivolta. Anche se poi di simpatie, veramente, Calvino ne aveva pochissime e certamente i sessantottini dovevano apparirgli troppo ignoranti per riconoscersi loro compagno di strada. Forse gli piaceva tutto ciò che si muoveva di nuovo nel mondo e nella vita culturale, salvo ritrarsi subito deluso il più delle volte, e quanto al ’68 a Pasolini rispose così: «Verso le nuove politiche le riserve e le allergie da mia parte sono più forti delle spinta a contrastare le vecchie politiche». 

Ovviamente il dibattito nato tra i due scrittori è più fitto e meno, come dice giustamente Petrignani, manicheo ma non per questo dobbiamo allontanarci dalla vera scintilla che condusse i due ad essere “ex amici”. Volevo solo dire che questa scintilla è davvero importante e attualissima e che la possiamo trovare ben visibile in un articolo, primo marzo del 1975, di Pasolini, che s’intitola Non aver paura di avere un cuore. Il titolo, ora, sarebbe bello e utile prenderlo così, in questa sua forma, invece di accettare il semplice Cuore apparso poi su Scritti corsari. Non aver paura di avere un cuore, quindi. Si parlava di aborto e del diritto, che la sinistra sosteneva, di abortire. Pasolini nell'articolo scrive: “Ho detto che l’essere incondizionatamente abortisti garantisce a chi lo è una patente di razionalità, illuminismo, modernità ecc. Garantisce, nel caso specifico, una certa superiore mancanza di sentimento: cosa che riempie di soddisfazione gli intellettuali (chiamiamoli così) pseudo-progressisti…” Il discorso, a questo punto, intensifica il dibattito, e lo scrittore sottolinea che solo un intervento è stato civile e razionale, ed è quello di Calvino (Corriere della sera 9-2-1975) che “rimprovera” Pasolini “un certo sentimentalismo irrazionalistico, e una certa tendenza, altrettanto irrazionalistica, a sentire una ingiustificata sacralità nella vita”. E qui, secondo me, possiamo vedere bene quale fu la vera differenza tra i due intellettuali. Pasolini continua così: 

Il potere non è più clerico fascista, non è più repressivo. Non possiamo più usare contro di esso gli argomenti - a cui ci eravamo tanto abituati e quasi affezionati – che tanto abbiamo adoperato contro il potere clerico fascista, contro il potere repressivo. Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più … In questo contesto, i nostri vecchi argomenti da laici, illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere. Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori … i nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi”. 

L’articolo continua, ma sono queste righe che contengono lo sfaglio. Un serio e documentato servizio sui preti pedofili della trasmissione Le Iene di Italia 1 (l’ho visto l’altra sera) è un momento televisivo che utilizza serietà e competenza per aumentare il proprio potere (come dire: un potere che non ha nessuna voglia di mettere nella giusta prospettiva, e su un terreno adeguato, il difficile e complesso argomento pedofilia). Il mio è solo un esempio, tra i tanti, che potevo fare. Pasolini è meno razionale di Calvino e proprio per questo lo è di più. Secondo me, questo argomento (sacro e non sacro, razionalità e irrazionalità) rende tanto diversi i due scrittori. È un argomento che vale ancora oggi - da leggere, rileggere e approfondire - quando parliamo di noi e della società in cui viviamo.

venerdì 11 ottobre 2013

Si salvi chi può

del  Disagiato

Poco fa ho visto un film che parla delle Alpi e di chi le Alpi le frequenta o le abita. S’intitola Peak - Un mondo al limite e il limite (se ho capito bene, naturalmente) sta per quella linea rossa che l’essere umano rischia di oltrepassare o che probabilmente ha già oltrepassato: sfruttamento del suolo per costruire piste da sci oppure complessi e costosissimi impianti per distribuire neve artificiale là dove prima del cambiamento climatico c’era neve vera, autentica. Oltre alla narrazione per mezzo delle immagini (bellissime immagini), in questo film succede una cosa che potrebbe benissimo essere una metafora: nessuno è mai contento. Chi lavora sulle piste sciistiche si lamenta che gli inverni non sono più rigidi come una volta e che i ghiacciai si stanno ritirando: dove andremo a finire di questo passo? Chi deve fare il latte o il burro spera invece che l’inverno che deve arrivare non sia rigido e nevoso come l’anno precedente, altrimenti addio burro e formaggio. C’è anche un signore che gestisce un impianto sciistico che cerca di placare gli animi: i dati che riguardano il repentino cambiamento climatico sono esageratamente allarmati. Lo so che bisognerebbe parlare di un film quando la temperatura emotiva (alta o bassa che sia, non molto alta in questo caso) è scesa o si è assestata, ma non ho voluto aspettare a dire quello che mi è rimasto oltre i titoli di coda: nessuno è contento e forse, come dicevo prima, la montagna e gli esseri umani che la vivono raccontano e descrivono la pianura e gli esseri umani che la vivono.

Una signora anziana seduta nella sua cucina chiude il film con un discorso che non ho capito bene cosa c’entri con la montagna, il formaggio, le piste sciistiche e il cambiamento climatico. Dice così: “…hanno fatto tante invenzioni, tante sono arrivate a tanto, e tante hanno distrutto. E le cose più belle le hanno distrutte, perché l’amore non c’è più, e neanche il dolore c’è più. Si salvi chi può”. Cosa c’entrano l’amore e il dolore con tutto questo?

giovedì 10 ottobre 2013

Cosa dovremmo festeggiare

del Disagiato

In sintesi (molto in sintesi): Paolo Peluffo su Il Sole 24 Ore ha scritto un articolo sulla fiera del Libro di Francoforte, Buchmesse, e dice che bisogna difendere e sostenere le librerie fisiche e i librai per salvare le case editrici e la nostra lingua, che rischia, tra qualche decennio, di scomparire. La mia sintesi, ovviamente, sommerge cifre e altri argomenti che rendono il discorso più complesso e forse più interessante. Quello che a me qui interessa, però, è ciò che gira attorno proprio alle case editrici, alle librerie e ai librai. Come ho già scritto in passato, le librerie fisiche chiudono o soffrono non solo per la presenza di altri canali (vendita di libri on line ed ebook) ma proprio per la condotta delle case editrici e dei librai. Le case editrici pubblicano tanto e male: le librerie vengono letteralmente sommerse, così tanto che la libreria, oggi, è diventato un magazzino ingestibile. L’orientamento del lettore è quasi impossibile. Invece di chiedere alle nostre case editrici di resistere e di pubblicare, dovremmo chiedere agli editori di pubblicare meno e meglio: io lettore difendo le case editrici (non acquisto su Amazon, non leggo ebook) se le case editrici scelgono e selezionano per me. Chiedo a loro di essere un’ottima alternativa all’editoria digitale. Peluffo consiglia di festeggiare i nuovi titoli e i nuovi autori che gli editori italiani presentano a Francoforte: questi nuovi volumi contribuiscono a tenere in vita la nostra lingua e quindi la nostra letteratura. Ecco, quello che penso io è che dovremmo festeggiare i nuovi titoli e i nuovi autori che le case editrici non presenteranno non tanto alle fiere dei libri ma alle librerie. Selezionare, insomma. E a selezionare sarebbe bello ci fossero letterati, non esperti di mercato o pubblicitari. Una volta, mi sembra, funzionava così. 

Se vogliono rimanere luoghi frequentati, le librerie dovrebbero fare solo una cosa: assumere librai. Librai che conoscono i libri e magari – e questo, davvero, sarebbe il massimo – un poco di letteratura. Le librerie in questi anni hanno assunto personale alla cazzo di cane. È vero, oggi la libreria è ancora l’unico posto che più assomiglia ad una libreria, ma tra poco – domani? dopodomani? – non sarà più così. Ad un colloquio di lavoro il padrone o il responsabile dovrebbe chiedere al candidato: ti piace leggere? Lo so che è una domanda troppo semplice ma ritengo - e lo sostengo con l'autorità del fallimento - che questa sia la domanda fondamentale da fare prima di assumere una persona che dovrà vendere, sistemare, consigliare e maneggiare libri. Che dovrà convincere i clienti rimasti della “validità” di una libreria. Oggi, invece, è come se nella cucina di un ristorante ci fosse un idraulico che di cucina non sa niente. Forse una frittatina riesce a farvela. Non c’è niente da festeggiare.

domenica 6 ottobre 2013

Tutti i film

del Disagiato

Ultimamente sto guardando film che ho già visto tanto o tantissimo tempo fa. Riguardando questi film mi sono accorto – ammetto, non senza stupore - quanto io, il Disagiato, sia la somma di queste trame e di questi dialoghi. Magari per voi è ovvio, ma io devo dire che me ne accorgo solo ora: sono battute, monologhi, modi di dire ridere piangere, tempi morti che sono entrati dentro di me e lì sono rimasti come foglie sull'asfalto bagnato. In tutti questi anni ho recitato più parti, ho letto copioni senza accorgermene. Chissà se morirò come Robert De Niro in Heat - La sfida. L’ho visto così tante volte che mi viene da chiedermelo (comunque no, quasi sicuramente morirò lontano da un aeroporto, solo, senza che ci sia il nemico a tenermi la mano). Ma io, senza i film che durante questo pezzo di vita mi hanno tenuto compagnia e mi hanno “occupato”, come sarei? Cosa direi? Cosa ci sarebbe dentro di me? C’è una cosa che un pochino mi angoscia: in vita mia ho visto parecchi film brutti e ho davvero paura che anche questi (le loro trame, le loro battute scontate o volgari) si siano depositati. E temo anche e soprattutto di averli recitati. 

Stai a vedere che durante la nostra passeggiata su questa terra dobbiamo stare attenti a quello che guardiamo o a quello che leggiamo. Stai a vedere che per davvero, come scienziati, dobbiamo trovare gli strumenti per guardare, soppesare, selezionare e scegliere. Forse siamo spugne, e questo non è bello. Il rischio, belle grosso, è di vivere come attori confusi, che recitano male, fuori tempo. A me basterebbe fare come quelli che nei film passano, sullo sfondo, da un lato all’altro dello schermo. Quelle comparse che camminano dietro gli attori principali, con la schiena diritta, seri, il passo deciso, magari una valigia in mano o un cappellino in testa. Passano mentre il protagonista sta dicendo cose importanti ad un altro protagonista, e lo fanno bene, per pochi secondi, con l'aria un po' triste.