giovedì 5 maggio 2011

Vorrei essere ricco

del Disagiato

Noi commessi, in questa libreria, oramai è da più di due anni che ci lavoriamo. Io da cinque anni, Elena da tre, Stefania da sette o otto, Jessica da nove e Alessandra, l’ultima arrivata, da giusto due anni e poco più. Noi commessi, quindi, abbiamo preso a progettare cose apparentemente realizzabili, una fuga in un paese straniero, l’accumulo di una grossa somma per mettersi in proprio, un lavoro ben pagato di cui parlava un amico dell’amico dell’amico o, e questo è la mia prospettiva preferita, un matrimonio con un essere umano abbastanza ricco da badare a noi per il resto dei nostri giorni. Ecco, questi sono i piccoli progetti di donne (e un uomo) che di libri, e di gente che chiede libri, non ne possono più. Ma che non ne possono più nemmeno dei sabati e delle domeniche lavorative, non ne possono più di macinare chilometri per arrivare a destinazione (il negozio e poi la casa), non ne possono più di abbassare almeno tre volte alla settimana la saracinesca alle dieci di sera e non ne possono più, alla fine, di  se stessi e dei propri movimenti. “Basta, qui c’è da cambiare vita”, pensiamo tutti i santi giorni.

Però, complice il tempo e il masochismo, ci siamo messi tutti quanti e con le nostre stesse mani in una gabbietta che abbiamo chiuso dall’interno, gettando la chiave lontano lontano e aggrappandoci alle sbarre a guardare i progetti che se ne vanno e che sbiadiscono. Come una nave che si mette in mare, come un treno che esce dalla stazione. C’è chi si è sposato, chi ha comprato casa, chi ha comprato una macchina, chi ha ridotto le proprie prospettive causa età che avanza e, insomma, alla fine chi te lo fa fare di mollare questa libreria? 


E con quali soldi finiamo di pagare quello che c’è da pagare? C’è un verso di una poesia di Raymond Carver che dice “ci si abitua anche alla miseria”. Nel nostro caso non si tratta di miseria, ci mancherebbe, ma ogni tanto viene a galla dentro la mia testolina questo verso di Carver, come per ammonirmi o svegliarmi dal torpore. “Mi sono abituato alle cose che non mi piacciono”, mi dico. Ma penso anche che è normale, che non si tratta di cattive abitudini e che una volta cambiata posizione per levarsi di dosso il formicolio ci si stufa ancora e poi ancora. È l’abitudine, appunto.

Vanno bene la libreria e i clienti e i romanzi di basso livello e la magra busta paga e le saracinesche alle dieci di sera, quindi. Però ad Alessandra, l’ultima arrivata, ieri le ho detto grosso modo quello che sto dicendo a voi in questo momento e lei, con gli occhi spalancati, mi ascoltava come per dire “hai ragione, lo penso anch’io” e abbiamo preso a fantasticare ancora e ad aggiustare con l’immaginazione quello che c’è di rotto. Per due minuti, dentro quella confidenza tra colleghi che si capiscono, ci siamo sentiti ancora giovani (lei lo è, in effetti) e vivi. Pronti a cambiare. Pronti a voler di più. Poi lei mi dice: “Io vorrei diventare ricca”. Al che io rido. “Così ricca da potermi fare una bella vacanza da mille euro”.

A quest’ultima frase io faccio l'espressione di chi non capisce e le chiedo cosa intenda. “Farmi una vacanza spendendo mille euro”, ribadisce lei. E a me spendere mille euro sembra poco, le dico e lei dice invece che no, che mille euro sono tantissimi e io le ripeto che sì sono tanti, però visto che stiamo sognando sogniamo bene. E allora non è che litighiamo, però cominciamo a guardarci un po’ male, a mutare le angolazioni della bocca, a scontrarci anche su dei progetti che sappiamo bene che non si realizzeranno mai. Qundi continuiamo a fare il nostro lavoro in silenzio, con la testa bassa e a me viene in mente ancora quel verso di Carver che dice che “ci si abitua anche alla miseria”. Ma non solo, si atrofizzando anche i sogni, si vola basso anche quando si tratta di fantasticare e di immaginare di non essere più dei commessi di una libreria di un centro commerciale. Ce ne stiamo umili e disciplinati anche quando facciamo finta che.


14 commenti:

  1. Un mio amico dice: "I sogni non si pagano."

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  2. I progetti sì, però. E appunto quando si tratta di fantasticare (e la fantasia temo sia cosa ben diversa dal sogno), si potrebbe azzardare. Ma rimane l'umiltà residua a tenerci fermi.

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  3. Bravo Gionatan hai proprio ragione..

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  4. Senza n (e comunque mille euri sono pochi).

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  5. “Basta, qui c’è da cambiare vita”, pensiamo tutti i santi giorni.
    Però, complice il tempo e il masochismo, ci siamo messi tutti quanti e con le nostre stesse mani in una gabbietta che abbiamo chiuso dall’interno...

    Come fotografare perfettamente la vita in cui mi sono cacciato con le mie stesse mani. Aiuto!

    Tra l'altro ho fatto anch'io per anni, stagionale, il commesso in libreria.

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  6. Abbiamo in comune anche il fatto di aver lavorato in una libreria, allora.

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  7. Certo, fuori dalla gabbietta - uno si chiede - troverò da mangiare? E allora si preferisce, al futuro incerto, il presente umile e disciplinato.
    Così faccio anch'io.
    Secondo me il vero problema soggettivo è proprio l'abitudine: è difficile non stufarsi della stessa minestra tutti i giorni. Il mio personale quotidiano è noioso e deprimente, e a volte mi rendo conto che mi fa male.
    Quello che mi "salva" è qualcosa che ho dentro. Non lo so definire, ma è qualcosa che mi permette di distinguermi da tutto il resto e di vedere il mondo brutto come con il cannocchiale rovesciato. Forse è il dolore provato che, se appena non te ne scordi, ti fa credere che il tuo presente (semplicemente senza dolore) sia qualcosa di buono.
    Anch'io preferirei essere ricco, ma solo a parità di tutto il resto.

    Volevo dire qualcosa di sensato, ma non mi è venuto molto bene :-( scusate tutti.

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  8. Secondo me hai detto qualcosa di più che sensato e, anzi, quando parlavi di quello che c'è dentro (immagino tu intendessi una vita interiore) ho pensato che sì, hai ragione o porlomeno hai la mia stessa ragione. Anch'io rovescio il canocchiale e anch'io mi affido a delle risorse che sono intime e impalpabili. Rimane sempre il problema della qualità di queste risorse, ma forse questa è un'altra questione. Belle parole le tue, davvero.

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  9. Ma infatti nei sogni non bisogna mai infilare i soldi :-)
    La prossima volta che capita l'occasione chiedi ad Alessandra dove vorrebbe andare. Vedrai che spenderà facilissimamente un sacco di euro, anche senza saperlo.

    Comunque, sai che ti dico? Che ho capito che anche avere una gabbia a volte è una fortuna. Essere chiusi dentro, e sentirsi liberi, là dentro, di sognare quello che ci pare. Perché c'è gente che non ha nemmeno quello. Credo. Oggi col sole mi sento meglio.

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  10. È una sensazione che capita anche a me, quella di sentirmi al sicuro nella mia gabbia. Però non so se è una bella sensazione e non so se alla lunga ripaghi.

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  11. Avete presente quella canzone di Luigi Tenco, Un giorno dopo l'altro?
    Oggi mi sento così.
    http://www.youtube.com/watch?v=CcC5jRkrEiE

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  12. Se dovessi arrivare a dieci, ti prego, andiamo nella stanzetta delle guardie, prendiamo il microfono per gli annunci del centro e cantiamo "i can get no satisfaction". Poi mi uccidi con una pizzetta all'arsenico.Fine.

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  13. Ma tu arriverai a undice e poi dodice e ugualmente con il sapore dell'arsenico in bocca ;)

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)