Benché, naturalmente, ci siano giorni molto diversi da quelli sempre qui raccontati. Giorni in cui le parole di uno studente, tre minuti nell’intervallo, cosa volete che siano, anche se ci sono state, non bastano più, non le ascolti nemmeno; e nemmeno fai caso alla mano di un padre che stringe la tua dicendoti «Grazie», non te la ricordi, non te ne frega niente; giorni in cui le interrogazioni sono state solo una sofferenza, gli incroci con i colleghi soltanto un’alzata di spalle e un saluto senza sorridersi; giorni in cui la fatica ha contato molto più di qualsiasi altra cosa, in cui non c’è stato un sorriso che tu ti possa ricordare, nemmeno uno sguardo; oppure, se ci sono stati, non puoi ricordarteli.
Sono i giorni in cui torni a casa e pensi che questo mestiere è una merda, uno schifo, che non riesci a pensare ad altro che a questo, vaffanculo, che tu non eri adatto a questo mestiere, tu che ami il silenzio e la solitudine. Perché non c’è nessuno che valga la pena della fatica che tu fai, sempre; questo pensi. E nessuno si merita, nessuno, il tuo sforzo di non essere né noioso né banale né cretino, né troppo duro né troppo lassista, su questo filo di una lama che taglia, te e loro, e ti fa più male quando taglia loro, e pensi che no, non è giusto, che tu vuoi prima di tutto pensare a te stesso, che si fottano tutti gli altri, adolescenti e padri di adolescenti, che si fottano, che ti lascino in pace, che cosa vogliono da te, che cosa pretendono, che tu non sei mica capace.
Sono i giorni in cui entri in casa, butti la borsa in un angolo cercando volontariamente il suo tonfo brutale, ti lavi le mani, la faccia, cerchi di non essere troppo sgarbato con chi ti ha aspettato e magari ti ha preparato il pranzo, cerchi un sorriso che le dica «grazie» se non lo sa più dire la tua voce, poi mangi pensando ad altro, sai che la tua compagnia è il peggio che oggi possa capitarle, speri che ti sopporti, poi ti butti sul divano davanti a un telegiornale ma non lo guardi nemmeno, il telegiornale, vedi solo lo schermo acceso, le immagini, non sai decifrare le parole che ti arrivano, la crisi economica, le elezioni amministrative, i rifiuti di Napoli, niente che conti qualcosa, niente che abbia importanza, se non il tuo schifo di pesantezza sugli occhi, la tua voglia di non parlare mai più, non ascoltare mai più, nessuno, in nessun luogo, mai.
Sono giorni in cui alzarsi da quel divano è uno sforzo che pensi di non saper più fare, di non volere più fare, da qui all’eternità, non se ne parla nemmeno, mai più.
Poi però ti alzi, a un certo punto: cerchi una finestra, guardi il volo delle rondini sul lago, la scia dei battelli che vanno avanti e indietro sulla rotta per l’isola, guardi proprio l’isola in mezzo al lago e le sue case e quelle decine di campanili, piccoli paesi sulla sponda opposta. Hai imparato con gli anni che alla fine, da quel divano, ti alzi sempre. È solo questione di tempo, una mezz’ora, un’ora, a volte un'ora e mezza. Ma poi ti rialzi e ricominci e provi a non essere più solo sfinito e deluso. E sai che non è vero quello che hai pensato: non è proprio una merda questo mestiere, non sono una merda le parole e le strette di mano. Lo sai. E allora ti rimetti al lavoro, ma non correggi nessun tema perché deve ancora passare la risacca di quel male che ti prende ogni tanto, in questi giorni che ci sono, e che ha bisogno del suo tempo per lentamente defluire.
Ci sono giorni in cui tutto è diverso da come sempre lo racconti, ci sono sempre stati questi giorni. All’inizio , le prime volte, ti spaventavi, perché avevi paura che fosse tutto finito, la voglia di fare fatica, l’entusiasmo per quei pochi, impalpabili risultati. Da molti anni, però, non ti spaventi più: aspetti che passi. E infatti passa, a un certo punto; e ti pare che tutto ritorni come era prima, non c’è da preoccuparsi. E dunque non ti preoccupi più, va bene lo stesso, sono solo pochi giorni ogni tanto.
Ma dentro di te sai anche un’altra cosa: che ogni volta hai bisogno di qualche minuto di più; che ogni volta il divano ti tiene stretto per qualche secondo più lungo, per qualche attimo oltre. Lo sai e fai finta di niente, fai finta che non sia importante. Invecchi, è normale così. E te ne puoi accorgere ogni mattina, quando ti guardi allo specchio e poi esci di casa, per andare di nuovo a scuola, a fare il tuo lavoro com'è giusto, come tutti.
Pensieri condivisibili per molti mestieri. Il "lamento del colletto bianco".
RispondiEliminaSì, lo so: come molti, se non tutti.
RispondiEliminaIl guaio è che tutti vorremmo la gratificazione per l' immane fatica del vivere, e l' età anagrafica o l' anzianità di servizio non sono poi così determinanti.
RispondiEliminaCredo che Cioran abbia centrato la questione quando affermò che forse il maggiore degli umani desideri è condensato nel pensiero: "Voglio essere lodato".
E' la nostra umana natura, mi sa,che passa direttamente attraverso il bisogno di sacralizzazione di noi stessi.
Ad essere spiritualmente liberi (splendida utopia che racchiude però in sé anche il dolore della solitudine)nessun termine di paragone con i nostri simili, né alcuna attesa di loro riconoscimento o ricompensa -anche soltanto morali-, avrebbe la minima importanza.
Ma siamo umani, per fortuna, o purtroppo.
sirio59.mm o Morena (non mi riesce di postare il commento con il mio account)
In realtà ci sono giorni in cui nessuna gratificazione (e nessuna eventuale lode) mi interessano, in alcun modo. Poi passano, ma ci sono e sono questi.
RispondiElimina(sull'anonimato, non preoccuparti: blogger fa schifo, è colpa sua)
Empatizzo totalmente, caro scorfano: la sensazione di stanca estraneità, di noia cosmica mi è profondamente nota. Ma credevo d' essere malata...
RispondiElimina;-) Morena
Sarà che siamo in due... ;)
RispondiEliminaVaghezze da prof. di ruolo.
RispondiEliminaProva a sentirti cosi' E in piu' a pensare che tra due settimane sei disoccupato.
FR
...
RispondiEliminase ne va
il giorno umano
e non umano,
le sfugge dall'incavo
dei suoi piccoli monti,
si eclissa tra le pieghe dei suoi aridi dossi,
se ne va il giorno
e l’uomo
e la vita ch’è in loro,
se ne va
avendo e non avendo
saputo qual è stata la sua parte...
ma è stata - lei lo sa - E’ stata
e questo la fa piangere
talora di grazia e di letizia.
(Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini)
(Ciao prof, sono postilleblu, ma anch'io oggi ho lo stesso problema di Sirio59 con google...)
@FR
RispondiEliminaMi permetto una risposta brutale, per una volta sola: "vaghezze" 'sta minchia.
Dai, su con il morale, che tra poco torna il Disagiato!!!
RispondiElimina@Ste
RispondiEliminaMi è mancato sul serio, lo confesso.
Anche a me, tanto.
RispondiEliminaVe bene. Lo sapevo che il mio intervento era provocatorio.
RispondiEliminaPero' non me lo rimangio.
Prova ad immedesimarti con chi ha un lavoro che ama e vede che tra lavorare e non lavorare passa lo sbadiglio di un ministro, di un provveditore, di un burocrate.
A te e' dato invecchiare, a me no. Tutto li'.
FR
Se posso dire la mia, tra un taglio qui e una sforbiciata là, uno di ruolo si sente di invecchiare nella precarietà di un oggi qui e domani chissà, con l'aggravante che, essendo di ruolo, nemmeno si azzarda a provare a mettere il naso attorno per vedere se c'è qualcosa di meglio da fare che invecchiare così.
RispondiEliminaNon invidiare chi ha "venduto" la sua vita al ministro, al provveditore, al burocrate di turno. Trova qualcosa di meglio da fare.
La prossima volta, quando entrerò in quella scuola di lago, stringerò più forte la mano tesa, cercherò di più il sorpreso scintillio di vita dei suoi occhi, apprezzerò meglio la sua genuina ritrosia e timidezza, accoglierò il senso del suo desiderio di protezione e lo inviterò a condividere un caffè pieno di energia...
RispondiEliminasono le inattese occasioni di incontro che danno nuova anima alle nostre routine, un pò stanche ma in un grado di trascinarci in una vita in grado di sorprenderci ancora un pò...
Serendipity, la garbata