lunedì 7 febbraio 2011

centotrentamila eccezioni

di lo Scorfano

Quando arrivo io, alle otto meno dieci, i cancelli della scuola sono chiusi. I ragazzi si accalcano fuori, nel parcheggio e sulla strada, dove tutte le macchine, compresa la mia, si incrociano e si maledicono a vicenda per parcheggiare. Anche quando fa freddo, anche quando la mattina del 18 dicembre c’erano 9 gradi sottozero, i ragazzi devono aspettare che suoni la campanella per poter entrare; perché nessuno può prendersi la responsabilità di averli dentro l’edificio, senza alcun controllo.

Ma c’è anche un’eccezione. E l’eccezione sono i ragazzi disabili. Che nella mia scuola sono quasi una cinquantina, e che nelle scuole italiane sono 130.000, un numero impressionante (a proposito: sarebbe bello che Repubblica.it, quando scrive un utile articolo come quello linkato, lo mettesse nella sezione “Scuola e Giovani” e non in quella “Volontariato”; sarebbe già un piccolo segno).

I ragazzi disabili suonano, come faccio anch’io, il campanello della scuola e c’è una bidella che ci riconosce e ci  apre: entrano, sempre accompagnati dalle loro mamme che li coprono con la sciarpa, anche quando hanno 18 anni, che li tengono per mano, che non li mollano nemmeno per un metro.     
             Sono mamme “diverse”, perché hanno un figlio “diverso”: sono sempre apprensive, non smettono di esserlo nemmeno al quinto anno. Entrano dentro l’edificio con i loro figli già grandi, ma non autonomi, li tengono a bada e a volte li rincorrono, e intanto aspettano che suoni la campanella e che arrivi l’insegnante di sostegno. Oppure l’assistente ad personam, che è spesso pagato dal comune.

Alcuni dei ragazzi disabili sono tranquilli, come se non ci fossero. Altri, purtroppo (per loro), sono agitati e nervosi: urlano, piangono, corrono (quando possono), non sanno controllarsi.Io, dopo tanti anni di entrate alle otto meno dieci, suonando il campanello, conosco tutte queste mamme e tutti questi ragazzi. Alcuni mi salutano anche festosamente, perché è bello vedere una persona che già si conosce. Altri sono meno presenti, ma mi salutano le loro mamme. Io a volte tengo il cancello aperto perché possano passare insieme. Poi, però, c’è il sabato.

E anche il sabato, quando molti miei colleghi hanno il giorno libero, io arrivo alle otto meno dieci a scuola, come tutti gli altri giorni, ma la scuola è diversa. I ragazzi disabili sono sempre gli stessi, quelli che mi salutano e anche gli altri, ma con loro spesso ci sono i papà. Ed è ogni volta, per me, un tuffo al cuore vedere come tutto sia diverso, quando ci sono i papà.

Perché i padri non aggiustano la sciarpa al loro ragazzo di diciotto anni, anzi. I padri, si vede, vorrebbero non essere apprensivi, vorrebbero che il figlio camminasse tre passi davanti a loro, vorrebbero dargli quell’autonomia che la natura, però, ha loro negato. Stanno un po’ più lontani dai figli, i padri: e in quei due o tre metri di distanza, pochi passi, che frappongono tra se stessi e il figlio, c’è un amore (ho esitato prima di scrivere questa parola, lo confesso: ho pensato “energia”, ho pensato “affetto”, ho pensato “forza”. Chissà perché mi ha fatto venire paura la parola “amore”… ma è quella la parola, poco da fare), un amore che ogni volta mi lascia per un attimo immobile sul primo gradino della scuola, a guardare i papà che arrivano con lo zaino della scuola, un passo dietro il figlio disabile, un po’ distanti, per lasciarlo andare nel mondo come tutti gli altri, per sperare intuilmente che possa farlo.

Non so perché, ma è soprattutto a questi padri che penso, quando leggo (e vedo: perché si vede) che le cattedre di sostegno vengono tagliate per risparmiare, che i ragazzi disabili sono tutte le mattine un po’ più soli, che sono sempre di meno le ore in cui qualcuno si occupa di loro. Io penso ai padri e al loro voler restare indietro, al loro modo di amare; forse perché sono uomini come me, della mia età, con i miei stessi anni passati sulle spalle. Ma, diversamente da me, a loro è capitato di essere l’eccezione, con il figlio disabile. A cui vogliono bene e a cui non vogliono più sistemare la sciarpa.

*  *  *

Se c’è una cosa che funziona nella scuola italiana (ma sono molte in realtà, non crediate agli apocalittici di professione), quella cosa è l’integrazione dei ragazzi disabili: ne ho avuti due, in questi ultimi dieci anni, e sono state le classi più belle in cui ho lavorato, e non posso credere che sia solo una coincidenza. È più faticoso, senz’altro; bisogna incontrare psicologi e assistenti sociali al pomeriggio, quando uno avrebbe voglia di fare tutt’altro, e bisogna preparare programmi personalizzati, lo so. E non si riceve nemmeno un euro in cambio di tutto il lavoro, lo so. Ma funziona, funziona eccome. Funziona soprattutto per i ragazzi non disabili, i nostri figli che non sono l’eccezione, i quali imparano prima e meglio cosa significhi stare bene, potersi sistemare la sciarpa da soli, poter entrare a scuola solo quando suona la campana delle otto.

E io, ogni sabato mattina, alle otto meno dieci spero che funzioni anche un po’ per i loro padri. E spero che coloro che ci governano ci pensino bene prima di buttare nella spazzatura, insieme a tante altre cose, anche questa cosa che nella scuola italiana funziona bene e di cui parliamo così poco. E ne parliamo poco, forse proprio perché funziona ancora bene. E io ringrazio quei padri che, tutti i sabati mattina, mi impediscono di dimenticarmene.

7 commenti:

  1. questo è uno dei posti per cui ti stupisci che non ci siano commenti, mi sa. Ma che vuoi aggiungere?

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  2. Ha ragione .mau., c’è ben poco da aggiungere. Volevo solo dire che, per quanto ne so, ad esempio in Francia i disabili hanno classi autonome, per cui inevitabilemente finiscono per rimanere isolati dai coetanei. Non me ne intendo dell’argomento, e non so se quello di integrare i disabili nelle classi normali sia un buon sistema dal punto di vista didattico, davvero non ne ho idea. So però che questo sistema dà l’opportunità a ragazzi e ragazzini di conoscere dei coetanei disabili, e viceversa, e secondo me basterebbe già questo per dire che il sistema italiano è cosa di cui andare orgogliosi.

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  3. Io commento solo perché altrimenti mercoledì .mau. ci irride, ma in effetti non so che altro dire neppur io.

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  4. Io commento solo per dire che sono felice che nella scuola italiana l'integrazione dei ragazzi disabili funziona.
    Ogni tanto è bello avere una buona notizia.

    Zagabart

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  5. No, obiettivamente lo sapevo benissimo che non è un post commentabile. Però era giusto dirlo: alcune cose funzionano meglio da noi che altrove, benché i tagli dell'ultimo biennio le mettano in forse.

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  6. Io sono rimasta sorpresa dalla comparsa dei padri, lì al cancello della scuola. Anche se noi lo sappiamo benissimo che i padri ci sono - davvero, sono molto più presenti di una volta.

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  7. Naturalmente non sarebbe nemmeno ozioso chiedersi perché i padri soltanto il sabato e le madri tutti gli altri giorni (ma è una media, quella che registro, non un'osservazione precisa e affidabile). Però, insomma, è un discorso più lungo, e qui volevo soltanto dire dei ragazzi disabili che incontro tutte le mattine.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)