domenica 6 febbraio 2011

Una disperata vitalità

di Sempre un po' a disagio

Come in un film di Godard me ne torno solo a casa, in una macchina che corre per le strade cittadine del capitalismo latino, di ritorno dal Kebab della città, dove fanno i panini e i samosa più buoni di tutta Brescia e ripenso a quanto erano belli cinque anni fa i due egiziani gestori del locale, quanto erano rivoluzionari i loro corpi, la pelle scura e gli occhi neri che abbracciavano tutto quanto respirava tra i tavoli e le sedie. Era bellissima, lei, senza essere bella, delicata in ogni gesto, fine in ogni parola preparata per accontentare l’affamato di turno. Veniamo dall’Egitto, dissero a me e alla ragazza che in quella stagione mi stava accanto.
 Veniamo dall’Egitto per cambiare vita. Solo ora che si sta compiendo una rivoluzione mi rendo conto che altri, prima, hanno provato in modo tutto individuale a utilizzare la parola "cambiamento". Cambiamento non è certo rivoluzione, ma nella loro bocca, così come usciva, quella parola era carica di fatica ben riposta. La fatica del viaggio e della ricerca di un nuovo modo di stare appoggiati al mondo. Da noi, mi dissero ancora, non c’è lavoro, la situazione non è bella. Cinque anni fa io me ne fregavo delle terra africane perché ero felice, concentrato sull’amore di quei giorni di primavera.

Non conoscevo di certo i nodi politici, le strane alchimie militari e burocratiche che caratterizzavano, come ora, l’Egitto. Conoscevo ogni venerdì sera la loro cucina e la loro bellezza fisica, conoscevo i loro lineamenti extraterrestri per la presenza di umiltà e gentilezza. Mi impressionavano i movimenti pacati, l’assenza di ansia e scatti. E questi, pensavo ad alta voce, sarebbe gente in fuga? Sarebbe gente che combatte la povertà? Aspettavo il mio piatto pensando a questa cosa, mentre le casse di uno stereo sputava ritmi egiziani e la mia ragazza si addestrava malamente a quel tipo di amore, fatto di egiziani e kebab.

Li ho rivisti un mese fa (la mia ragazza non l'ho più rivista) dopo tantissimo tempo, nello stesso locale. Un locale con mobili rinnovati, due televisori appesi alle pareti e radio Deejay che schizzava dalle casse di uno stereo più grande. Mi hanno salutato con un accenno di riconoscimento e li ho visti diversi, come gatti strapazzati, pestati dal copertone di un autotreno, le guance cave sotto occhi abbattuti, le braccia senza la stessa grazia, dimagriti nel fisico e nello sguardo. Non somigliavano ai rivoluzionari che vedo ora in televisione, belli nel pianto e nella rabbia, grandiosi nella loro umiltà di servi.

Come va?, ho chiesto, e loro mi hanno sorriso dicendomi  le cose vanno bene. Li ho visti e la mia impressione è che mi assomigliassero. Che assomigliassero a voi. Ho pensato soprattutto al cinismo e alla crudeltà del nord Italia, alla logica del montaggio narcisistico che ogni giorno ci vede impegnati per tenere in buona salute il mercato, i conti, il salvadanaio di tutta una nazione Ho pensato che il loro cambiamento è stato questo inserirsi nell’estensione del dominio della lotta, nella solitudine e rarefazione di parole e sentimenti che questa lotta comporta. Assomigliavano a noi, che in questi giorni guardiamo i rivoluzionari in televisione con accenno di invidia.

Non voglio che il popolo egiziano cambi. Che diventi come te e me.

2 commenti:

  1. Come cambi la gente lo si vede ogni giorno. Capire che è cambiata, invece, è un pregio riservato a pochi. Soffrirne è classe pura. La ‘liquidità’ della nostra società, ahimè, annacqua ogni cosa. Complimenti per la sua bellissima riflessione.

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  2. E io, signor Alan, la ringrazio molto per i complimenti e per la sua breve ma efficace riflessione.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)