giovedì 3 febbraio 2011

apriti, estero!

di lo Scorfano

Incontro Emiliano, nell’intervallo. Emiliano è stato mio alunno in prima e seconda, ora fa la quinta ed è rappresentante di istituto. Parliamo un po’ di quello che ci aspetta questa primavera, dei suoi rapporti con il preside, delle materie di esame appena uscite e annunciate. È un ragazzo sveglio Emiliano, lo è sempre stato: bravissimo a scuola, impegnato, molte e varie letture, tanti interessi, lunga coda di capelli sulle spalle (beato lui).

Ma io me lo ricordo quando arrivò in prima, a metà dell’anno, poco più che bambino: una situazione familiare quasi disperata, una madre affaticata e lontana, che entrava e usciva dagli ospedali della provincia di Treviso, un padre brillante e in gamba, ma molto preso da suoi casini sentimentali e da altri figli più piccoli di Emiliano. E lui sbattuto qui, sul lago, per decisione di un giudice, lontano dalla sua Treviso: lui che non aveva studiato nemmeno la prima declinazione di latino, che non sapeva coniugare nemmeno un verbo. Fece la sua fatica, me lo ricordo. Poi alla fine della prima ebbe un 7 in pagella, meritatissimo. E alla fine della seconda gli diedi 9.

Oggi, mentre parliamo e scherziamo, gli chiedo cosa farà l’anno prossimo. «Fisica», mi dice lui.        
     Io gli sorrido, mi fa piacere, è una buona scelta. «E cosa vuoi fare dopo?» gli chiedo. Lui mi risponde: «Voglio andare all’estero». «Sì, ma a fare cosa? il ricercatore?» chiedo io; e lui: «Qualsiasi cosa, non è importante; però all’estero». E nient’altro; Emiliano non mi dice altro. Resta zitto e forse aspetta che parli io.

E io allora posai una mano sul braccio di Emiliano. Gli dissi che no, che non doveva dire così. Lo so che in Italia è  difficile, lo leggiamo tutti i giorni sui giornali, lo ascoltiamo tutte le sere in televisione. Ma se non resta uno come te, se non restano quelli che hanno la forza e l’energia per cambiare questa situazione, allora come faremo? Questo paese ha bisogno di te, Emiliano, è da te che ci aspettiamo un cambiamento; perché noi, come generazione, abbiamo fallito, non siamo stati capaci, abbiamo sbagliato troppe cose. Tu devi restare in Italia e combattere perché le cose non stiano più come stanno adesso.

E poi continuai a parlare e gli dissi: Scusami, non sai nemmeno cosa vuoi andare a fare, all’estero. Mi usi questa parola, «estero», come se fosse una formula risolutiva, una specie di abracadabra. Sei sicuro che non sia solo un luogo comune? Hai provato a vedere cosa si può fare qui, ora? Non dire così, Emiliano, almeno tu. Provaci, resta qui, non lasciare che ti condizionino i racconti che leggi sui giornali e quelli che trovi in rete. Prova tu a essere diverso, perché se non ci riesci tu, non ci riuscirà nessuno.

E mentre gli dicevo questo, vidi che Emiliano sorrideva, che forse capiva, che forse stavo riuscendo a mettergli in testa un dubbio, un’idea, una possibilità differente. E lo salutai stringendo forte la sua spalla con la mano, come si fa quando si vuole dire «Sono con te», perché lui lo sapesse, lo sentisse che sarei davvero stato con lui, nel suo restare qui, in questo viaggio immobile che forse lui, proprio lui, avrebbe potuto fare.

E invece no, naturalmente.

Il corsivo non era uno scherzo di blogspot, maledetta piattaforma, il rientro tipografico non era un caso, e il passato remoto non è stato un errore commesso per distrazione o per ignoranza.

E invece non ho detto niente, sono stato zitto, ho fatto una smorfia che voleva essere un sorriso finto e poi è suonata la campanella ed Emilano è andato nella sua classe, e io nella mia, che era la prima, dove stiamo studiando la nascita delle polis, in Grecia. Ma ho voluto scriverla lo stesso, questa storia senza finale, semplicemente perché non me la so spiegare.

E ho provato, nella mia testa, a fare la tara che deve essere necessariamente fatta alle sue parole: è una risposta affrettata, senz’altro, magari ci deve ripensare e ci ripenserà; c’è dentro il tipico desiderio di fuga adolescenziale, d’accordo; c’è anche forse un malinteso spirito di ribellione, va benissimo. Ma poi? Cos’altro c’è? Perché un ragazzo in gamba e uno studente brillante come Emiliano (che tuttora ha solo 8 e 9 in pagella) pensa che la sua vita debba per forza essere lontano da qui, dal suo (e nostro) paese, dall’Italia? Perché, per lui, «estero» è una parola magica, un sesamo che si apre, una formula che schiude mondi altrimenti troppo chiusi?

Non lo so, non lo capisco. Forse non voglio capirlo. Ho paura che c’entri qualcosa anche il ritornello mediatico, il luogo comune della «fuga dei cervelli» (che è vero e autentico, lo so anch'io; molti luoghi comuni sono veri, in effetti). Ma devo dirgli qualcosa, però: gli voglio dire qualcosa, la prossima volta che ci incontreremo nell’intervallo, qualcosa che lui si possa ricordare. Che non esistono formule magiche, per esempio. O anche qualcos’altro che adesso non so, ma che per forza, per forza, devo farmi venire in mente.

20 commenti:

  1. Purtroppo (o per fortuna) mi pare che, se sceglie Fisica, la scelta dell'estero sia obbligata. Dipende molto da che tipo di Tesi di Laurea affronta ma, soprattutto, dal gruppo di ricerca di cui farà parte. Se è "buono", l'esperienza all'estero è una tappa obbligata ed utile e la cosa migliore è andarci subito, per brevi periodi, prima della laurea. Il vero problema nasce dopo l'eventuale dottorato (italiano o meno) perché i più bravi rischiano di rimanere imprigionati fuori dall'Italia, tra borse e contratti, sbalzati come palline da flipper da una nazione all'altra. Un mio amico, prima di decidere di stabilirsi definitivamente in Giappone, ha girato praticamente tutta l'Europa. Altri, superati i trent'anni, dopo l'esperienza al CERN o altrove, hanno avuto come unica unica chance quella di insegnare in Canada perché Spagna ed Inghilterra, che pagavano bene, hanno chiuso i rubinetti. Insomma, bisogna essere preparati ad una "vita raminga" (per citare uno che conosci).

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  2. a me la frase che ha veramente colpito è il «Qualsiasi cosa, non è importante». Occhei, Emiliano è uno che ha già idea di cosa vuol dire partire da zero (e a 14 anni Treviso-Iseo non è poi così diverso da Italia-estero); però sarebbe stato ben diverso se avesse detto «sicuramente troverò qualcosa». Il risultato pratico è lo stesso, ma in quest'ultimo caso sarebbe stato figlio dell'ottimismo e non del pessimismo.

    (l'unica cosa che mi verrebbe da dirgli è "quindi la peggior cosa all'estero sarebbe migliore della miglior cosa in Italia?")

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  3. Avete notato come non abbia detto "finito il liceo vado all'estero"?

    Fra cinque anni vado all'estero, ah sì guarda, cascasse il cielo ma a 25 anni parto e tanti saluti :-)

    Se solo avessi un'euro per tutti quelli che "io guarda se continua così fra un anno vado via"...

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  4. Che andare all'estero è una buona modo di servire il proprio paese: lo si guarda da fuori, apprezzandone anche imprevisti lati positivi, si imparano tante cose, ci si arricchisce. Si diventa più forti, per necessità di cose.

    Poi tutto questo, se si vuole e se si può, lo si mette a disposizione del proprio Paese.

    Rimanendo e adattandosi, riducendo le proprie ambizioni e lasciando cadere sogni e possibilità è difficile diventare preparati e solidi come nell'altro caso.

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  5. Forse Emiliano,cosi' come ce lo descrivi, non ha molto senso patriottico. In Italia non ha una famiglia, con delle radici, in un luogo. L'estero e' un posto pieno di opportunita',di occasioni, almeno cosi' si dice. Perche' non dovrebbe partire? Io dico parti, che a tornare sei sempre in tempo.

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  6. La prima volta che mi hanno spedito su un volo internazionale per "lavoro" ero gasatissima (mi veniva anche da vomitare, ma è normale). Perché andare all'estero è anche fantastico, dai.
    E' che poi, dopo che ci siamo arricchiti e abbiamo imparato, il nostro Paese non sa che farsene, di noi.
    Che poi a me dispiace pure, ma tutto sommato credo che il nostro paese riceva molto più di quello che offre.
    Io ai miei studenti lo dico: andate, buona fortuna.

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  7. Leggo quello che scrive Peppe e mi convinco ancora di più che, invece, sarà necessario dare qualcosa perché questi ragazzi restino. O meglio perché vadano e poi ritornino.
    So anch'io che c'è tutta una "metafisica della fuga" a cui non è poi detto che corrisponda un reale effetto pratico. Però temo che le alternative siano poche, almeno adesso (e mi pare che anche questo lo confermi Peppe).
    E allora? Gli dico "vai e ritorna"? E' che le possibilità di tornare, probabilmente, non ci saranno. E' inutile dirlo, sapendo che le cose stanno così.
    Spero possa essere felice, anche da sradicato come, tutto sommato, è sempre stato.

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  8. Anche io penso all'estero, ogni tanto.
    E ci penso nel modo in cui penso a quelle fantomatiche figure che popolano la mia realtà; figure come il governo, l'azienda, la proprietà.

    Penso all'estero e credo che un giorno ci andrò davvero. In vacanza. Poi tornerò qui, come ho sempre fatto; continuerò a rimboccarmi le maniche e a pensare che questo paese, quantomeno per via del proprio patrimonio, merita di essere vissuto, indipendentemente dalla latitudine, dai meridiani e dal governo.

    Emiliano ha risposto esattamente come avrei risposto io. Come scrivo sempre... crescerà.
    E, se avrà sani dubbi, capirà davvero se vuole l'estero o se vuole che il suo paese usi (ripagandolo, naturalmente) anche le sue risorse.

    Professo', io non ho studiato all'estero e ho studiato poco qui in Italia, ma non credo di essere un fuscello.

    Anzi: lo so.

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  9. Secondo me non puoi dirgli "vai e ritorna". Andare dipende da lui, ma tornare dipende da noi. Da noi in senso lato: siamo noi tutti che dobbiamo credere che valga la pena offrirgli qualcosa per tornare. Siamo noi che dovremmo investire nella scuola, nell'università, nel futuro.

    Ah, poi un'altra cosa: io sono rimasta, mi sono adattata, ho ridimensionato i sogni e tutto il resto, ma non per questo mi sento una fallita.
    E sono solida.

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  10. e' molto semplice,te lo spiego io perchè si va all'estero.Mia figlia ha due lauree:biotecnologie mediche e specializzazione in neuroscienze,con ricerca sulla SLA.Ha lavorato al CNR-gratis Mario Negri=gratis San Raffaele=contratto di ricerca di 900 euro al mese (significa 12 ore al giorno di lavoro senza contributi,ferie,malattia).Adesso lavora in Danimarca,contratto a tempo indeterminato,stipendio triplo rispetto all'Italia,massima considerazione e rispetto nell'ambiente universitario e sociale....e poi vi chiedete perch' se ne vanno via?

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  11. Fare carriera come ricercatore all'interno dell'università è attualmente IMPOSSIBILE, in Italia, lo dicono persino i Prof che ci vivono, dentro l'università. Fare il professore di liceo e insegnare le materie che ami è altresì impossibile, al momento.
    Queste erano le mie due grandi aspirazioni, dai 14 anni in su. Secondo voi che devo fare? Da che parte comincio per cambiare le cose? Mi pagate voi, nel frattempo?!

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  12. LGO

    Mi spiego meglio: se si tratta di scegliere tra le possibilità offerte dal grande mondo o uno stage non pagato, in quale modo uno sta servendo meglio il proprio paese?

    Accettando di essere palesemente sfruttato con lo stage, o andando a crescere all'estero?

    Poi, non è che se uno rimane in Italia è un fallito. Tra l'altro ci sarei anche io, in Italia, dopo essere andato e tornato dall'estero, con la voglia di mollare tutto, ma non so ancora se con il relativo coraggio...

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  13. @Tinni
    E' proprio per quello, infatti, che io non ho potuto (e saputo) rispondergli: non è che non mi renda conto. Però, insomma, non vogliamo mica dire che va bene così, no? che è normale e che ci dobbiamo abituare e che fa lo stesso eccetera?
    No, non fa lo stesso. Io, quando penso che per esempio a scuola non ho una collega giovane e brava come IpaziaS, mi sento male. Non per me: per i miei studenti, che cresceranno un po' peggio di come forse avrebbero potuto. E se non cambia nulla, tra pochi anni sarà così anche per Emiliano, o come diavolo si chiama.
    Vorrei poter dire loro che non è inevitabile, tutto qui. In questo momento non posso, lo so bene, ma rimanere zitto in quel modo mi ha fatto sentire forte il peso di questa situazione. Era questo, il punto.

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  14. Caro Scorfano, il mio tono forse è sembrato sgarbato, ma avevo fretta e volevo anche un po' fare "scena" con una domanda retorica. Non volevo assolutamente "rimproverare" nessuno...immagino che anche per voi che avete qualche anno in più stare a guardare questo sfacelo non debba essere facile.
    Ad ogni modo, per la cronaca, io all'estero un po' di sono stata e un po' ci tornerò, ma, dopo il dottorato, ho - almeno per ora - l'intenzione di RESTARE qui in questo paese del menga a lottare con i denti per avere una cattedra di liceo...echeccavolo, me la devono, uffi!

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  15. Bene, mi piacciono le domande retoriche. ;)
    E poi, ripensandoci (perché tocca ripensarci, ci mancherebbe), il caso del mio ex alunno è molto diverso, e l'avevano notato anche .mau. e il Nomade. Lui non ha un progetto preciso come te; lui non ha opzioni nette come le tue; lui non sa cosa inseguire. Lui insegue l'"estero", come una specie di miraggio, a prescindere da quello che andrà a farci.
    E' anche su questo punto che forse dovevo (dovrò) rispondergli.

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  16. Non vorrei scocciare, però mi pare che manchino alcuni punti alla discussione.

    Intanto, da quel che capisco con "andare all'estero" si intende andare a fare un dottorato (o Ph.D. o come si chiama a seconda del luogo) dopo la laurea di secondo livello (o Master, come dicono all'estero).

    In effetti è più facile trovare dottorati pagati all'estero, per due ragioni. La prima è che tutto l'estero, dagli USA al Giappone, è estremamente più grande dell'Italia e quindi la statistica ti viene incontro.

    Il secondo è che il dottorato è stato usato in moltissimi Paesi come ufficio di collocamento ufficioso (pun not intended), in modo da poter dare un lavoro (temporaneo) dopo la laurea ai neolaureati. Che alla fine del dottorato hanno parecchi problemi a trovare lavoro.

    Perché anche nel mitico estero ci si trova ad avere molti laureati che non vengono assorbiti dal mondo del lavoro ed è un problema generalizzato. In Italia, dove soldi non ce ne sono, non si è corso ai ripari aumentando i dottorati.

    Solo che, vista dall'Italia, la situazione sembra ottima all'estero: c'è il posto statale, cosa puoi volere di più? Ma vista dall'estero, la situazione non è molto diversa che in Italia.

    Se ci pensate, nessuno mai parla di cosa fanno questi cervelli in fuga una volta finito il dottorato... Cioè, il dottorato dura due anni, se sei bravo a 28 anni c'hai il Ph.D., ma poi?

    E comunque secondo me è proprio concettualmente sbagliato identificare la ricerca di un lavoro post-laurea con il fare il Ph.D. e lamentarsi che tocca andare all'estero. La domanda di lavoro non può essere soddisfatta dai dottorati e andare all'estero a cercare un lavoro che non sia il Ph.D. non è così facile come vogliono far credere su Repubblica o sulla rubrica di Severgnini.

    Io direi di essere più precisi: la domanda di lavoro rappresentata dal Ph.D. è molto più all'alta all'estero (ma come ha fatto notare peppe non è più così vero) e quindi se si vuole perseguire quella strada bisogna mettere in conto di fare le valigie, sempre tenendo conto che è un mercato artificiale tenuto in piedi dalla fiscalità generale e che quindi è particolarmente a rischio nel caso in cui lo Stato che paga sia in difficoltà economiche.

    [nota personale: se un dottorando vive male l'idea di andare a lavorare per il mondo insieme a colleghi stranieri, probabilmente sta solo cercando un impiego statale e forse dovrebbe fare qualche concorso nel proprio comune di residenza].

    Inoltre il problema di una forza lavoro sovra-istruita rispetto alle necessutà è un problema reale sia in Italia che all'estero, e non si risolve certo dicendo che l'Italia fa schifo o dando la colpa a questo o quel ministro.

    Ci sarebbe da ripensare un intero modo di fare educazione superiore, ma questo non è il mio campo, io ancora sto combattendo per avere Lady Gaga nei programmi del ginnasio al posto di Catullo.

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  17. Ecco, Professo'.
    Il fatto è che l'estero può (e non "deve") essere un mezzo, prima che una meta.
    Questo è il nocciolo della questione, secondo me.

    E se si hanno idee troppo vaghe (per un motivo o per l'altro) è chiaro che nascano risposte così, un po' come quelle di Emiliano; è ed altrettanto chiaro che nascano reazioni come le tue. Ma tu hai forse l'esperienza necessaria per poter, quantomeno, fermarti un secondo in più per riflettere. Riflettere per non rispondere e riflettere per poter rispondere domani (se lo riterrai opportuno).

    @Tinni: la tua determinazione ti rende onore. Lo scrivo sinceramente. In bocca al lupo, dunque!

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  18. @Tommy Angelo

    Io ho una mezza esperienza di PhD in Scozia (che poi ho convertito in Master per ragioni mie, non ultima il fatto che la ricerca accademica sa essere noiosissima ed autoreferenziale). La' il PhD non e' un sistema ufficioso di collegamente perche' se non hai una borsa, paghi rette universitarie non indifferenti (in era pre-Cameron 3300 sterline all'anno). E' il primo passo verso la carriera accademica, per cui, se fai quello, sei abbastanza "istradato" in una direzione precisa (questo si').

    Po': questo aspirante fisico e' curioso ma abbastanza realista, il che non e' male. Uscire dall'Italia ormai non dovrebbe essere piu' visto come una scelta irrevocabile. Tra i giovani universitari stranieri che conosco quelli che sono andati fuori per un periodo, a vario titolo, sono la maggioranza.

    E' il nostro sistema che rende difficile il ritorno, ma non e' un destino. Se riusciamo a cambiarlo un po' 'sto benedetto paese, avremo reso un servizio a noi e a loro e potremo evitare (cosa che potremmo fare gia' adesso) di vedere nell'andare all'estero una specie di esilio. Perche' non e' cosi'.

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  19. The Economist has a pretty damning look at the global state of academia, particularly as it pertains to the enormous numbers of PhDs being churned out, the cheap labor they represent, and the comparatively few full professorship gigs available to them.

    http://www.economist.com/node/17723223?story_id=17723223

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  20. @Tommy
    Altro che scocciare.
    La tua disamina è puntuale ed efficace. Sono esattamente le risposte che cercavo, in realtà. Insomma, "andare all'estero" non è una formaula magica, appunto. E' una scelta con delle conseguenza e non senza problemi: alcuni dei problemi li hai raccontati bene tu e li terrò a mente, per la prossima volta.
    (Anche il pezzo sull'Economist mi ha aiutato.)

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)