lunedì 14 febbraio 2011

obafemi

di lo Scorfano

Quest’anno, quando incontro Obafemi nei corridoi della scuola o all’uscita, appena fuori del cancello, ci salutiamo e scambiamo due parole; a volte ridiamo e scherziamo e lui mi prende anche un po’ in giro. Sembra quasi che siamo due amici che per sbaglio hanno un’età molto diversa. Ma non è sempre stato così, soprattutto non lo era l’anno scorso.

Obafemi è una ragazzo africano, della Nigeria, di sedici anni o poco più. In realtà è arrivato in Italia, con i genitori e con quattro fratelli, quando aveva solo tre anni, e quindi dovrei dire che è un ragazzo italiano, punto e basta; ma Obafemi è ovviamente nero, nerissimo di pelle, e quindi resterà sempre africano, e chissà per quanto sarà identificato così.

Obafemi era mio alunno l’anno scorso, in una seconda: e Obafemi, perentoriamente e drasticamente, non studiava nulla di nulla, mai. Ne ho conosciuti tanti di ragazzi quindicenni, in questi anni di lavoro, ma quelli determinati a non fare proprio nulla come Obafemi si contano sulle dita di una mano, non di più. Solo che Obafemi era un’eccezione anche tra questi, tra i quattro o cinque che non facevano mai nulla.

Perché lui, ragazzo africano ma italiano, lui leggeva tantissimo, in modo quasi patologico, senza interruzione: qualsiasi libro, che fosse un romanzo d’avventura o un saggio di divulgazione scientifica o un libro di costume e società come quelli di Severgnini, Obafemi non faceva altro che leggere, l’anno scorso, durante la seconda liceo.            
           Nell’intervallo, Obafemi restava in classe e leggeva; nei cambi dell’ora, leggeva seduto al suo posto; durante le lezioni mie e dei miei colleghi, se non stavamo attenti, lui leggeva il libro seminascosto sotto il banco.
E si lasciava prendere a tal punto dal suo libro che a volte lo richiamavo e lui nemmeno se ne accorgeva; e allora io andavo lì, gli strappavo il libro dalle mani, maledetto ragazzo africano, glielo sbattevo sulla testa, e gli urlavo di tutto. Ma niente serviva a niente: Obafemi non studiava niente e appena poteva, leggeva qualcosa. Qualsiasi cosa, tranne le quattro pagine del libro di storia su cui gli avevo detto che lo avrei interrogato.

Un giorno, parlando con un amico dello stesso paese in cui vive Obafemi con i genitori e i fratelli, è venuto fuori il discorso di questa famiglia, con tutti i problemi che ha. Gli ho detto che conoscevo uno dei figli, che era mio alunno a scuola, che si chiamava Obafemi. Lui mi ha detto: «Credo di sapere chi è. Il bibliotecario del paese mi ha raccontato che c’è questo ragazzino nero che tutti i giorni va in biblioteca, restituisce un libro e ne prende uno nuovo; tanto che lui stesso dubita che possa leggerli tutti e teme che li fotocopi per farne chissà cosa». È proprio Obafemi, ho pensato io. Solo che lui, i libri, li legge tutti davvero, non è che ne fa un insensato mercato nero…

Io, a Obafemi, gli ho detto di tutto e di più per i nove mesi interi della seconda liceo: l’ho minacciato, l’ho punito, ho convocato i suoi genitori, gli ho detto che si sarebbe rovinato la vita o che gliela avrei rovinata io. Ma lui non reagiva mai, e soprattutto non studiava. Quando mi arrabbiavo più del solito restava immobile, con una specie di mezzo sorriso beffardo sulla faccia, che a me faceva diventare pazzo, con la tentazione di prenderlo a sberle.

Allora provavo a parlargli serenamente, senza sgridarlo, spiegandogli le mie ragioni e i suoi doveri, e lui ascoltava sempre, ma comunque non studiava lo stesso, mai. E aspettava che io smettessi per tornare a leggere il suo libro. Un giorno l’ho beccato con le Memorie di Adriano della Yourcenar. Gli ho chiesto se gli piaceva, lui mi ha detto che lo trovava meraviglioso. «Meglio dei soliti libri di avventura, vero?» E lui: «Proprio un’altra categoria, prof». E io ho capito che Obafemi aveva anche imparato a leggere, nella sua follia divoratrice di pagine.

Poi, era metà febbraio dell’anno scorso, ero disperato perché temevo davvero che perdesse l’anno e che i suoi lo facessero smettere di studiare, un giorno l’ho preso da parte e gli ho detto, faccia a faccia: «Io sono stanco, Obafemi. Sono stanco di questo tuo modo di fare, anzi di non fare niente. Devi studiare, e devi metterti a farlo alla svelta e forse non basterà nemmeno. E, stammi bene a sentire, Obafemi, non basta che tu studi come gli altri della tua classe, non basta nemmeno quello; non basta che tu esca dal liceo preparato come tutti gli altri; perché quando andrete a cercare un lavoro e tu sarai preparato come loro, chiunque assumerà loro, Obafemi. Perché tu sei negro e loro no».

Ho avuto paura mentre parlavo, lo confesso, ho avuto paura di quello che dicevo a questo ragazzo così giovane. Ma lui, per un attimo, ha smesso quel suo sorrisetto da schiaffi e mi ha guardato serio, con quegli occhi scuri da ragazzo dell’Africa che ha. E adesso so che è da quel giorno che gli sono diventato simpatico.
In ogni caso, Obafemi ha continuato a non studiare quasi niente, anche dopo febbraio dell’anno scorso. Stava un po’ più attento in classe, faceva qualche domanda (un giorno mi ha chiesto: «Ma lei, prof, come fa a sapere così tante cose?» «È la curiosità, Obafemi, è quella che fa la differenza», e lui mi ha guardato compiaciuto e ho visto benissimo che pensava: «Sono anch’io curioso»), ma comunque studiava poco, pochissimo.

Poi è arrivato giugno (giugno arriva sempre, i ragazzi pensano di no, che magari stavolta non arriva, ma poi implacabilmente arriva) e sono arrivati anche gli scrutinii: quando ho visto che insieme ai miei 4 di latino e di storia c’erano anche altre insufficienze e soprattutto un 5 di matematica (della stessa prof che all’inizio dell’anno aveva detto: «Obafemi è un piccolo genio»; ma anche i piccoli geni, se non studiano…), ho capito che era finita lì, non c’era nemmeno da discutere. E Obafemi è stato bocciato.

Pochi giorni dopo lo scrutinio, mi è arrivata una sua mail: mi chiedeva cosa gli consigliavo di fare a settembre. Io gli ho risposto tutto infervorato che doveva assolutamente reiscriversi in seconda, studiare, finire il liceo, andare all’università, non buttare via il suo talento! Lui mi ha scritto di nuovo: mi ha detto che era ovvio che avrebbe fatto così, che non intedeva quello, che non mi agitassi. Voleva solo sapere in quale sezione era meglio che si iscrivesse, secondo me.

Poi, il primo giorno di scuola di quest’anno, ho trovato nel mio cassetto in sala insegnanti un pacchetto regalo: era un libro, in una strana lingua africana indecifrabile. C’era un bel biglietto scritto a mano, con la firma: «L’uomo nero». E poi, a dicembre, poco prima di Natale, ho trovato un altro pacchetto regalo, nello stesso cassetto: era un portacenere da passeggio, con un biglietto: «Le cicche per terra non sono una bella cosa, prof.», firmato: «L’uomo nero».

Infine, qualche giorno fa, sono andato a curiosare tra le pagelle del primo quadrimestre delle seconde di quest’anno e ho visto che Obafemi ha tutti 6 e 7, tranne un 5 in scienze. Ho scosso la testa, sorridendo. Quando ho incrociato Obafemi, nell’intervallo, gli ho detto: «Ma non potevi studiare l’anno scorso, razza di deficiente?» E lui, con quel sorriso beffardo e gli occhi seri, mi ha detto: «L’anno scorso, prof, avevo troppe cose da capire».

Quest’anno, quando incontro Obafemi nei corridoi della scuola o all’uscita, appena fuori del cancello, ci salutiamo e scambiamo due parole; a volte ridiamo e scherziamo e lui mi prende anche un po’ in giro. Sembra quasi che siamo due amici che per sbaglio hanno un’età molto diversa… Ma forse, se ci penso bene, siamo davvero due amici a cui è capitato, per sbaglio, di avere un’età molto diversa e anche un colore un po’ diverso. E forse lui lo ha solo capito prima di me, a febbraio dell’anno scorso.

15 commenti:

  1. probabilmente sono un po' bastian contrario, ma la frase che mi ha sconvolto di più è quella (riportata) del bibliotecario sui libri che Obafemi prendeva dalla biblioteca:

    «lui stesso dubita che possa leggerli tutti e teme che li fotocopi per farne chissà cosa.»

    Frase detta poi da un bibliotecario, non da un editore che al limite potrebbe preoccuparsi di perdere soldi. Ecco, è una cosa che proprio non capisco.

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  2. Ci sei riuscito! Sei riuscito a cambiare una giovane vita. Forse sarebbe successo lo stesso, perché uno che legge così tanto e con tanta passione non può che crescere bene. Però non sottovaluto il tuo contributo: anche la passione deve avere una forma e una disciplina e tu glielo hai fatto capire. Il suo affetto per te testimonia l'importanza di ciò che hai fatto.

    Bravo Scorfano!

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  3. Quella del posacenere da passeggio è meravigliosa: Bravo Obafemi!
    (Bravo Scorfano l'hanno già detto, è più scontato)

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  4. Durante la lettura di questo post mi è uscito un verso strano dalla bocca quando ho letto del posacenere da passeggio. Mi sembra una cosa così elegante che vorrei conoscerlo solo per questo.

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  5. @ .mau. : quella è la diffidenza. Direi proprio paesana: l'estraneo che si presenta, prende i libri, ma è un estraneo, quindi chissà cosa ne fa. Per niente bello, ne convengo, ma quasi inevitabile in un paesino.

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  6. Il posacenere da passeggio non è proprio elegante come ve lo state immaginando, insomma... E' un oggettino della Bic (quella delle penne), una specie di busta arancione grande come mezzo pacchetto di sigarette e molto sottile. Il gesto è stato elegantissimo, questo sì.

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  7. posacenere da passeggio ne ho uno, trovato nel distributore di cartoline pubblicitarie in palestra :-)

    Quanto alla diffidenza, è inutile: per me è una cosa incredibile.

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  8. Sì, sì, io intendevo elegante il gesto, l'idea del posacenere da passeggio. La vedo come una buona lettura anche quella, della realtà e dell'amicizia, se mai esistono queste espressioni.

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  9. Credo che il tuo sia un mestiere meraviglioso, anche solo per il fatto di vivere cose come queste.

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  10. Ti dirò, Zagabart, senza voler fare il cinico, vivere cose come queste è l'unico motivo per cui il mio mestiere è un bel mestiere. Il resto, be', meglio non parlarne.

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  11. Ti credo, ma una cosa come questa non ripaga parecchie amarezze?

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  12. Sì, ripaga senz'altro.
    (E vado a capo, perché è giusto essere perentori, a volte.)
    Ma resta che si tratta sempre di soddisfazioni che vengono dai singoli (spesso ragazzi, a volte genitori); mai dall'istituzione, mai dal contesto. Questo amareggia.

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  13. Scusami, non per fare la lezione visto che non sono nessuno e oltretutto parlo con un prof, ma penso che un singolo, anche un solo uomo, ragazzo o genitore che sia vale più di 100 istituzioni.

    Bellissima storia la tua, ma la lezione che io ne ho tratto ha più a che fare con l'esperienza di padre che dovrò affrontare, una chiave interpretativa in più nella comprensione dei tempi della giovinezza, soprattutto per quel tempo di mezzo fra l'essere bambini e l'essere uomini che è l'occhio del ciclone della vita, fra passioni, paure, curiosità, egoismo, coraggio, obbiettivi, amori...
    Questo ragazzo forse si è capito da se, magari ad istinto e grazie alla fortuna di un contesto che gli ha permesso di capire quali erano i suoi tempi. Ha perso un anno ma non c'è di che disperarsi, anzi, perchè probabilmente ha guadagnato una vita da uomo.
    brandavide

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  14. @brandavide
    Io non so se ho capito bene il tuo commento: penso anch'io che un singolo valga più di 100 istituzioni, ma credo che le istituzione (o meglio la scuola, che è l'istituzione per cui lavoro io) dovrebbe avere più cura dei singoli.
    Obafemi (non si chiama così, ovviamente, ma la sua storia è vera) ha compiuto degli errori ma ha saputo giovarsene. Doveva, credo io, comprendere la sua diversità; quando lo ha fatto, è riuscito a ripartire. Questo, in fondo, volevo dire nel post.
    Grazie e ciao.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)