di lo Scorfano
I miei alunni di terza riconoscono benissimo tutte le figure retoriche. Quando leggiamo Dante sono bravissimi, non se ne fanno sfuggire una, nemmeno se è un’epanalessi. Quando poi si tratta di un ossimoro o di un’anafora o di una similitudine, be’, in quel caso è proprio una selva di braccia che si alzano per rispondere, finché qualcuno parla senza nemmeno alzare la mano, tanta è l’urgenza di dire la verità, la splendida e adamantina verità del testo.
Il primo canto dell’Inferno è stato in questo senso un banco di prova davvero straordinario, tanto per me quanto per loro. Abbiamo cominciato con il verso 5:
esta selva selvaggia e aspra e forte
«C’è una paronomasia!»: bravi; «Ma c’è anche un polisindeto…»: bravissimi!E poi siamo andati avanti fino al verso 20:
che nel lago del cor m’era durata
«Questa è una metafora!»: infatti, perfetto così, non ne sbagliate una. E ancora, un po’ più oltre, fino al precipizio del v.60:
mi ripigneva là dove ’l sol tace
«Lo so io! È una sinestesia, perché c’è il sole che rimanda al senso della vista e c’è il tace che rimanda a quello dell’udito.» Benissimo, tutti bravi, andiamo avanti.
Sono un prof fortunato, direte voi. Un po’ lo sono, è vero; questi ragazzi di terza sono attenti e anche entusiasti e partecipativi:
difficile chiedere di più (si rovineranno, lo so già, la scuola ha questo straordinario potere di rovinare i ragazzi… ma per ora me li tengo così, che mi fa piacere). Ma un guaio c’è sempre, anche quando gli studenti sono in gamba; e il guaio (che poi è il cuore del mio mestiere) è che, una volta riconosciutele, i ragazzi non sanno che cosa cavolo farsene delle figure retoriche. Le chiamano perfettamente per nome ma poi, quando quelle si girano, bellissime come sono, i ragazzi non sanno cosa dire, come fare a incontrarle davvero, ad ascoltarle almeno un po’, benedette e splendide figure.
difficile chiedere di più (si rovineranno, lo so già, la scuola ha questo straordinario potere di rovinare i ragazzi… ma per ora me li tengo così, che mi fa piacere). Ma un guaio c’è sempre, anche quando gli studenti sono in gamba; e il guaio (che poi è il cuore del mio mestiere) è che, una volta riconosciutele, i ragazzi non sanno che cosa cavolo farsene delle figure retoriche. Le chiamano perfettamente per nome ma poi, quando quelle si girano, bellissime come sono, i ragazzi non sanno cosa dire, come fare a incontrarle davvero, ad ascoltarle almeno un po’, benedette e splendide figure.
Il lago del cor, per esempio, è una metafora, hanno ragione loro. Io sono felice che lo sappiano: e allora, visto che dalle finestre della nostra aula, guarda caso, si vede proprio un lago, chiedo: «Perché? Perché proprio il lago insieme al cuore?». E loro, riconoscitori eccezionali, si ammutoliscono tutti. Non sanno perché, non sanno cosa significhi quella metafora, non trovano una possibile ipotesi che spieghi il fatto che Dante la usi. Tacciono perplessi. Il loro mestiere è riconoscere le metafore, nient’altro: questo hanno imparato.
Io provo a insistere: «E perché non il mare, per esempio?»; ma nessuna risposta. Allora provo a dire io quello che penso: che il lago è immobile come un cuore fermo e stravolto, terrorizzato, che il lago è vichioso e ha un qualcosa di profondo e insondabile, qualcosa di scuro, più scuro del mare toscano che Dante conosce, qualcosa di fangoso e limaccioso; e forse è questo che Dante ha voluto dire. Loro mi guardano e prendono appunti. «Guardate che è solo una mia ipotesi» dico io: «E magari è pure sbagliata… Voi cosa ne dite?» Ma loro non dicono niente.
D’accordo, sono in terza, hanno tempo per imparare; e soprattutto è compito mio insegnarglielo, lo so bene, e sono anche contento di avere questo compito: è il mio mestiere questo compito che amo. Poi loro sono anche ragazzi in gamba e forse non sarà difficile e senz’altro sarà bello. Ma quel che voglio dire non ha nulla a che vedere con il lavoro che farò. Quello che voglio dire è che non serve a niente sapere che al verso 5 della Commedia di Dante si incrociano una paronomasia e un polisindeto aggettivale, se non capisci che in quell’incrocio sta proprio lo smarrimento di cui il poeta parla. E che lo smarrimento si incarna esattamente in quelle due figure avviluppate e che senza quel viluppo noi non potremmo mai avere la sensazione fisica dello smarrirci, quella che invece abbiamo leggendo il testo e che ci fa dire che Dante è bravo. Perché le figure retoriche aggiungono al testo, lo rafforzano, lo fanno esplodere; e se non sappiamo cosa aggiungono (o se non proviamo a ipotizzarlo), restano figure mute, come se non ci fossero. Anche se abbiamo la ventura di sapere come si chiamano.
I ragazzi di terza, comunque, riconoscono tutte le figure retoriche perché qualcuno glielo ha insegnato davvero per bene, ed è stato bravissimo a farlo e io lo ringrazio di cuore (ed è molto meno lavoro per me). Ora tocca il passo successivo. E quel passo successivo è importante e fondamentale, benché delicatissimo, perché senza di esso non si dà interpretazione letteraria e quindi non si dà letteratura e forse non si dà nemmeno lettura. E io spero di essere all’altezza del compito e tra qualche anno saprò se lo sono stato.
Ma, mi raccomando, questo volevo soprattutto dire: che quando saremo sommersi dai test e dalle prove oggettive che ci chiedono di riconoscere le figure retoriche, scriviamo in bell’ordine i nomi di tutte quelle meravigliose figure; ma poi, tra parentesi, come se fosse un inciampo che non sapevamo che c'era, rispondiamo cortesemente ai test che riconoscerle non basta, non serve a niente. Che è inutile come conoscere il nome di un quadro senza averlo mai guardato, se non ci si chiede cosa stanno a fare lì. E che il senso profondo (come il gusto intenso) del saper leggere sta tutto in quella domanda che ci facciamo e a cui diamo una risposta sempre e obbligatoriamente imperfetta: perché, al verso 60 della Commedia di Dante il sole tace? Perché? Cosa vuol dire? Cosa aggiunge quella sinestesia?
Non provare, almeno una volta, a rispondere a questa domanda significa, credo io, non aver mai letto il primo canto della Commedia di Dante. Che è cosa che, a me, dispiace molto.
a proposito di figure...
RispondiEliminahttp://www.youtube.com/watch?v=0v2xnl6LwJE
Forse è cosa legata all'essere giovani; al fatto, cioè, di non volere ammettere l'esistenza di un luogo buio. Così buio. Oscuro e ancora più oscuro, perché 'l sol tace.
RispondiEliminaMa forse non è così, dato che (a quanto mi pare di capire) non riescono ad andare oltre ai nomi di ogni figura retorica.
Ma forse non è così, perché sedici anni sono pochi, per riuscire a capire la forza delle parole di Dante.
(e sull'età, una vocina mi suggerisce di ricordarti le parole che scrivesti a proposito di Petrarca)
@home
RispondiEliminaBello il video, grazie.
@il nomade
Comprendo il commento, ma non è quello che volevo dire. Che è in realtà soltanto un limite di quel che insegniamo, vale a dire i nomi e non magari il significato. Ma mi sa che non l'ho detto tanto bene...
io faccio un po' di figure retoriche già in prima/seconda media. e ci tengo a far passare du econcetti:
RispondiElimina1) sfatare il mito della poesia come ispirazione subitanea e improvvisa (poi, quando in terza gli fotocopio l'anastatica dell'autografo de L'infinito, il gioco è fatto) - lo so, stronco un po' di giovani poetastri che albergano in loro :P
2) far capire che la figura retorica non è un gioc fine a se stesso, ma è una specie di lampadina che si accende quando il poeta vuole dirci qualcosa di speciale...
(di solito capiscono)
Io con le figure retoriche ho delle difficoltà. Non tanto ad indicarle o farle riconoscere (o una prima liceo classico di ragazze sveglie, sono stato fortunato), ma a capire io stesso perché sono belle.
RispondiEliminaLa cosa strana è che la fascinazione non passa per il riconoscimento della figura retorica: la maggior parte delle poesie e delle frasi dei film ci piacciono anche se non le abbiamo analizzate.
E' una cosa che mi affascina...ci dev'essere qualche ragione neurologica. E che deve avere a che fare con le filastrocche e le ninne nanne, perché è la parte ingenua di noi che si fa trasportare dalla retorica...
@lanoisette
RispondiEliminaQuello che non riesci a finire tu alle medie, in termini di mito dell'ispirazione, lo finisco io al liceo ;)
@francesco
Anch'io faccio molto spesso fatica a spiegare o capire perchè certe figure della retorica sono belle. Però, proprio per la fatica che faccio e perché so che agiscono in modo acuminato e, starei per dire, subliminale, mi ci sforzo. Insomma, ci provo, non è che ci riesca.
per il lago:
RispondiEliminapotrebbe essere - e per me è - che il lago è qualcosa di chiuso, di concluso, non tende all'infinito come il mare.
e il cuore, si sa, anche il cuore è finito e finisce.
nick the old
Non so quanto sia grande questo lago del cuore (ma la finitezza c'entra senz'altro). Enorme però è il piacere di leggere un commento di Nick the Old. Ciao.
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