Eccomi: sono qui all’esame di Stato, mentre voi leggete. Non sono nemmeno commissario d’esame, tra l’altro: sto qui, tutta la mattina (e anche domani), convocato dalla dirigenza per aumentare il controllo sulla correttezza dello svolgimento delle prove. Faccio il cane da guardia, insomma: il ruolo meno prestigioso, quello più inutile, il ruolo anche più antipatico. E intanto li guardo. Guardo i miei alunni di quinta, ex alunni di quinta, chini sui fogli della prima prova di italiano e penso che è l’ultima volta che li vedo così, tesi, chini, con la penna che scivola sulla carta, con l’attenzione a non fare errori ortografici, a scrivere qualcosa di sensato.
Tutti gli anni succede. E tutti gli anni penso al loro andarsene via, al loro uscire e percorrere nuove strade. E poi, inevitabilmente, penso alla mia strada.
Al fatto che io non uscirò da nessun luogo, che ricomincerò di nuovo dall’inizio, da una terza o da una prima, non so ancora: questo percorso immutabilmente circolare che è diventato il mio unico vero viaggio esistenziale (come fu presagito una volta da una riga nera), sempre da capo, sempre sulle stesse scale e gli stessi corridoi, nelle stesse aule; ma con davanti facce diverse, che però sono più o meno sempre uguali; con davanti mani che si alzano e che pongono domande diverse, ma che almeno nove volte su dieci sono le stesse di tre anni prima, di sei anni prima, di quindici anni fa. Sempre uguali.
Mi chiedo quanto loro ci pensino mai, a questo. Io ci penso, è ovvio, è la mia vita, mi sono abituato, mi piace così. Ma loro? Loro cosa pensano, se ci pensano, che succeda a me, quando li vedo allontanarsi e partire, dopo questo rito dell’esame che rende l’addio un grumo fatto soltanto di poche nervose parole? Non so, né se ci pensano né cosa pensano. Un ragazzo, una volta, si chiamava Fabrizio ed era stato mio alunno per un lungo e tribolato triennio, mi disse che si era stupito di sapere che anche per noi insegnanti la fine di una quinta fosse un piccolo trauma, il segno di qualcosa che era finito: mi disse che non avrebbe mai creduto che un insegnante potesse provare quelle sensazioni, che sono delle persone “giovani”. Io pensai: «La vecchiaia ti stupirà, caro Fabrizio: la vecchiaia è la più stupefacente delle esperienze che possa fare un uomo». Ma non glielo dissi. Credo di essermi limitato a sorridere, o forse gli diedi una pacca sulla spalla, non mi ricordo più.
Loro probabilmente non pensano: troppi sono i pensieri che debbono fare su se stessi, non hanno il tempo per farne altri. Torneranno a settembre, questo sì: torneranno, si affacceranno sulla porta di un’aula qualsiasi, sorrideranno in tre o quattro. Saranno venuti per salutare e farsi ricordare. E poi io chiederò come va l’università, loro risponderanno che va bene, poi chiederanno poche cose sulla scuola, poi non torneranno più e sarà un bene così. La cosa indubbiamente migliore. Perché c’è un tempo che è finito e che non si vuole far tornare indietro, non servirebbe a niente.
E finisce quindi oggi, questo tempo finito. Oggi che resto in piedi a guardarli e non so nemmeno cosa augurare loro. Di essere felici: ma non vuol dire niente. Di provare a esserlo, almeno: ma anche questo non significa niente. Non c’è nulla che io possa pensare che riesca a significare qualcosa, mentre li guardo che scrivono su fogli timbrati ufficialmente dalla scuola e ufficialmente firmati dal presidente della Commissione d’esame. È un altro triennio che è passato: era la mia vita, era la loro vita, tutto ricomincerà e non avremo nemmeno il tempo di rimpiangere qualcosa.
Meglio così, mi dico, allontanandomi un po’ dai loro banchi affannati: meglio lasciar perdere qualunque nostalgia. Tra poche settimane me ne andrò in vacanza e non ci penserò più. Loro saranno diventati tutte cose, facce, nomi, parole, gesti che non serviranno più: tutta roba che è passata, come è successo ad altri prima di loro, come succede già adesso a me nelle loro vite. Passiamo, ci agitiamo, gesticoliamo, a volte sorridiamo: e che non sia un sorriso stupido, quello che mi resta in faccia, che non sia un gesto scomposto; questa è l’unica cosa che oggi, stamattina, mi sento di chiedere che possa per un po’ a loro rimanere.
Per il resto sono pronto: perché lo so, è il titolo del post a essere sbagliato: non ci possono essere fini provvisorie. Ci sono, per ora, soltanto virate. Prendere il respiro, contrarre la schiena, buttarsi giù nell’acqua con la testa e provare a ridarsi una spinta, la più potente e vigorosa possibile. Perché poi, tra poco, si dovrà anche ricominciare da capo, un'altra volta.
Madonna, come sei bravo, Scorfano (sembra una presa in giro, così, ma tant'è).
RispondiEliminaMi hai fatto ricordare di quanto ero felice io, che la scuola fosse finita dopo il quinto anno, di quanto fossi triste di abbandonare i miei compagni di classe, e di quanto relativamente poco pensassi, invece, ai professori.
Ché i professori sono pochi, quelli che ti restano proprio dentro.
E invece mi rendo conto solo ultimamente di quanto ci penso, di quanto fossero effettivamente importanti, di quanto, anche indirettamente, abbiano alimentato la mia passione per la scrittura, per la scienza, o perlomeno di quanto mi abbiano dato gli strumenti per renderle passioni e non materia di studio. In maniera autonoma, indipendente.
Mr.Tambourine, grazie. Questo, il tuo, era il commento di cui avevo bisogno oggi. Adesso potrei anche cancellare il post, se non fosse per quel minimo di educazione. Sono in debito.
RispondiEliminaMa figurati, grazie a te.
RispondiEliminaE se cancelli il post mi presento sotto casa tua con una baionetta!
A me il fatto che tu possa augurargli di essere felici (o provare ad esserlo) sembra la cosa più bella e concreta che possa esserci. Altrimenti, credo che il rapporto con gli studenti non possa essere altro che un rapporto di potere (o, peggio, da burocrati). Il bel commento di mr Tambourine mi ricorda una citazione di Elias Canetti che una volta ti avevo trascritto: non la trascrivo di nuovo, ma te la ridedico insieme al commento di Mr T. (ma, se non ritrovi la citazione e per caso la rivolessi, dimmelo e provvederò). Ciao!
RispondiEliminaAlla fine dell’ultimo anno io ci ho pensato. Ho pensato a quali potessero essere le sensazioni dei prof quando i loro ragazzi vanno via. Mi sono chiesta se sentissero almeno un po' la loro mancanza o se invece iniziassero a settembre un nuovo anno scolastico come se nulla fosse cambiato. Mi sono chiesta se, guardando i nuovi alunni, i professori facessero collegamenti con quelli passati. Mi sono chiesta se per loro fosse difficile come per noi ragazzi abituarsi al fatto di non vedersi più tutti i giorni, di non condividere più la quotidianità. Mi sono chiesta se anche i prof provassero nostalgia, se quella voglia di tornare indietro e rivivere certi momenti con determinate persone prenda a volte anche loro. mi sono chiesta se fingano di essere contenti quando li si va a trovare o se non mentano quando dicono "mi ha fatto piacere vederti...". Mi sono chiesta cosa restasse loro di ogni classe, di ogni ragazzo.
RispondiEliminaMi sono chiesta dopo quanto tempo dimenticano che quei ragazzi, poi diventati adulti, un tempo sono stati loro.
Tra i miei professori ho trovato dei punti di riferimento. Se oggi sono IO, per buona parte lo devo a loro. Mi sono resa conto che la serietà nel lavoro, la passione con cui facevano lezione, a volte anche la severità sono le cose che a me sono rimaste, più di ogni risata, di ogni scherzo... Mi chiedo se i miei prof si siano resi conto del ruolo importante assunto nella mia vita e probabilmente in quella di tanti altri ragazzi. Mi chiedo se, a volte, come me, anche loro vorrebbero che nulla fosse cambiato, e che tutto fosse esattamente come allora...
Ti ringrazio, Scorfano, per questo post. Io di solito non commento, leggo solamente. Ma davanti a queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare.
Mary
Grazie a te, Mary, per il tuo bellissimo commento. Quando si riesce a fare spuntare qualcuno che legge e non commenta mai, è sempre bello; quando quel qualcuno scrive le cose come le hai scritte tu, è ancora più bello.
RispondiEliminaSono arrivata qui un po' per caso e un po' per curiosità. Leggendo questo post e mi è subito venuto alla mente di quando, durante una lezione di letteratura, qualcuno ci parlò della fondamentale importanza degli Incontri; lei può essere stato un'Incontro (cosa comprensibile a breve o lungo termine) per alcuni dei suoi alunni. Volevo ricordarglielo.
RispondiEliminaMaria Elisa
Cara Maria Elisa
RispondiEliminagrazie di essere passata di qui. So che è vero quello che scrivi. So che anche tu puoi essere (sarai già stata) un incontro. Ce lo ricorderemo entrambi, va bene?