mercoledì 8 giugno 2011

un po' peggio

di lo Scorfano

Ieri pomeriggio, sulla strada che c’è dietro casa mia, è passato un venditore ambulante marocchino (è una notizia: non ne passano mai da queste parti). È passato con la sua borsa enorme piena di chissà quali articoli e mi ha visto nello studio, perché la portafinestra era aperta. Io l’ho guardato, lui mi ha fatto un cenno di saluto con la mano portata alla fronte, come se fossimo due commilitoni, e mi ha chiesto: «Come va?». Io allora sono uscito fuori, sul terrazzo, e gli ho detto: «Insomma. E tu?». Lui ha fatto un mezzo sorriso di denti magrebini e mi ha detto: «Insomma. Qui non c’è nessuno. Non si vende niente».

Io gli ho detto che sì, che c’è poca gente per ora, forse più avanti con l’estate (è un quartiere di seconde case, questo). Abbiamo parlato un po’, ma poco. Io non sapevo bene cosa dirgli, lui non sapeva bene cosa dire a me. Mi ha detto che sua moglie e i suoi due figli sono in Marocco. Io gli ho chiesto come mai non li porta qui, lui mi ha detto che non ha un lavoro fisso, che stanno senz’altro meglio laggiù. Devi avere uno stipendio fisso per portare qui la famiglia, mi ha detto, per mandare i figli a scuola; che poi vedono gli altri ragazzi e vogliono le stesse cose che hanno loro. Io ho annuito.        
              Gli ho detto che  lo so, che ci lavoro, a scuola. Poi lui si è di nuovo lamentato perché non riusciva a vendere niente e mi ha detto: «A volte vorrei sapere perché non sono nato figlio di Berlusconi», e io ho riso.

Poi, siccome avevo molto da fare ed ero imbarazzato di stare lì, sul terrazzino sul retro, con la voglia di farlo entrare in casa a prendere un caffè, ma con la sensazione che sarebbe stato stupido farlo, non so perché, con lui appoggiato al bordo della strada, gli ho detto: «C’è qualcosa da vendere in quella borsa?». Lui mi ha detto: «No, per te non c’è niente, niente che vada bene a te». Ok, ho pensato io, grazie; e mi sono sorpreso, che non volesse vendermi niente. E ho di nuovo pensato che magari lo invitavo dentro casa a prendere un caffè, che era stato gentile, che ora glielo dicevo, che nessun ambulante mi aveva mai detto niente del genere. Ma non gliel’ho detto, non so perché.
Alla fine ha parlato di nuovo lui, mi ha detto che visto che non vendeva niente, magari tornava a casa a Breno, in Valcamonica. «C’è un treno tra poco», mi ha detto. «Fai bene a tornare a casa» gli ho detto io. Abbiamo parlato un altro po’, ma poco, del tempo che stava facendo. Poi mi ha salutato. Ma prima di andarsene mi ha detto: «Tu non sei di qua, vero?» «No» gli ho detto io, «perché?» «Perché si vede» mi ha detto lui. «E da cosa si vede?» «Si vede e basta. Perché sei diverso» mi ha detto lui.

E poi se n’è andato davvero e chissà come si chiama. E io sono rimasto qui, senza nemmeno sapere bene se devo essere contento che si vede che non sono di qua, e senza nemmeno averlo invitato a prendere un caffè, non so perché. Sono tornato nel mio studio con questa sensazione che avrei dovuto invitarlo dentro, che quella sarebbe stata la cosa che fanno le persone che mi piacciono, farlo salire e offrirgli un caffè, e io invece niente, ho esitato, ho pensato che sarebbe stato stupido, gli ho chiesto cose banali, gli ho detto che avrebbe piovuto presto. E lui mi ha detto che si vede che non sono di qua e che sono diverso. E allora ho pensato che forse sì, sono diverso. E senz'altro sono anche un po’ peggio di come vorrei.

12 commenti:

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  2. Mi piace l'equazione "tu non sei di qua" = "tu sei diverso, si vede".

    Chi vive da sempre nello stesso posto (beato lui) è differente da chi si è spostato, si è dovuto adattare, porta dietro le esperienze precedenti. Quest'ultimo, quando succede qualcosa, non la dà per scontata, ma fa confronti. D'altronde noi impariamo per differenze: riconosciamo il bianco perché conosciamo il nero.

    E insomma, credo che chi abbia avuto esperienze differenti sia un po' più aperto, perché sa che non esiste solo il quotidiano di una realtà ristretta a casa sua, al quartiere, alla propria città.

    Almeno spero, avendo cambiato domicilio una decina di volte.

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  3. Lo spero anch'io, perché anch'io ho cambiato domicilio una decina di volte in vent'anni. Ma ovviamente c'è anche dell'altro: la sua fatica (di stare qua, nelle valli del profondo Nord) e anche tutta la mia inadeguatezza, a essere non abbastanza diverso.

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  4. non dimenticherò mai mahmud, algerino, mio collega per alcuni anni, (in realtà attraverso una cooperativa) come manovale. ai tempi aveva già più di cinquant'anni. parlava una lingua tutta sua, frutto delle sue emigrazioni in francia, svezia e italia: un misto di italiano e francese (ooooh mon amì, mi chiamava sempre) con inflessioni nordafricane. una sera, in tram, tornando a casa dopo il lavoro, mi mostrò l'elenco dei documenti necessari a far venire in italia la figlia: mi mostrò col dito la voce "busta paga" e con tono umiliato disse : ma come, da tanti anni lavoro qui e vogliono vedere la busta paga. (detto per inciso, anche se non c'entra, era umiliante pure lo stipendio che riceveva in confronto al gran lavoro che faceva)

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  5. Alcuni di noi sono stranieri ovunque. Scorfani fuor d' acqua, stelle troppo vicine alla Terra...
    E chissà, forse questo fatale esilio è un po' - oscuramente- l' assunzione di responsabilità dei mali del mondo. Ma è davvero troppo per dei fragili umani.

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  6. addesso, non fustigarti: quanti altri si sarebbero affacciati alla finestra per parlare anzichè dirgli di farsi i fatti suoi e andarsene via! africa!

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  7. Hai ragione, Frank, non voglio fustigarmi. Però continuo a trove deprimente, permettimi, che per essere "diversi" sia sufficiente uscire su un terrazzo a scambiare due parole. Anche sapendo che si potrebbe fare qualcosa d'altro, di un poco più umano.

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  8. Dopo il processo di instillazione della paura che subiamo quotidianamente dai mass-media, chi si fida più a invitare uno sconosciuto in casa. Non te la prendere e rallegrati piuttosto che ti sia rimasta ancora quel po' di umanità necessaria a rammaricartene.

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  9. Guarda, non l'ho scritto perché mi vergognavo, ma il sottinteso è esattamente quello che hai colto tu: ho avuto un po' paura. Ho pensato: e se questo torna quando non ci sono per rubarmi qualcosa? e se torna quando c'è la mia fidanzata sola in casa e le fa qualcosa? Mi vergogno, ma l'ho pensato. Anche se lui era così gentile.

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  10. Mi sorprendeva, infatti, che una scrittura limpida come la tua omettesse questo particolare. Era sotteso ma non dichiarato, e quel "non so perché" mi suonava strano.

    E infatti è stato un piacere avere la conferma che a leggerti tra le righe si intuisca sempre qualcosa. Per quanto tu possa vergognartene.

    Bravo.

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  11. Quel "non so perché" così ribadito voleva essere, nelle intenzioni, un modo perché un qualunque lettore immaginasse bene il perché, sperando di essere io riconosciuto (e quindi non l'unico) in certe paure poco confessabili. Questo era nelle intenzioni: poi nella realtà non so se è proprio venuto come volevo... ;)

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  12. Mah, perché poco confessabile? Avrei avuto anch'io questo pensiero semi-conscio. E sia chiaro, indipendentemente dalla nazionalità del passante.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)