lunedì 13 giugno 2011

quelli che però è lo stesso

di lo Scorfano

Forse Claudio Giunta esagera, quando scrive che «in un paese meno distratto del nostro, Quelli che però è lo stesso di Silvia Dai Pra’, diario di una giovane insegnante in una scuola professionale della periferia romana, avrebbe una risonanza non molto diversa da quella che ha avuto Gomorra. O anche maggiore, dato che la camorra riguarda solo un pezzo del paese, e uno può vivere tutta la vita senza mai vederla da vicino, mentre la scuola riguarda tutti». Forse esagera perché è pur vero che la camorra è un fenomeno criminale che riguarda tutti, eccome, e che è assolutamente il caso che riguardi tutti da molto vicino.

Ma anche la scuola ci riguarda tutti. Ed è pur vero che il libro di Silvia dai Pra’, in bilico tra romanzo di scuola, diario di scuola e reportage sulla condizione della scuola, è un libro che descrive perfettamente lo stato delle cose nel mondo dell’istruzione pubblica, e in particolare della periferia dell’istruzione pubblica. Perché non c’è solo il precariato dell’autrice, in questo piccolo ma decisivo libro (precariato che già da solo basterebbe a farne una lettura indispensabile); c’è anche e soprattutto il degrado nazionale, declinato in tutte le sue possibili (e a volte imprevedibili) forme:      
                che è il degrado dell’istituzione, sostanzialmente non più in grado di raccogliere le esigenze che le arrivano dalla nuova generazione, ma è anche (e in modo sconcertante) il degrado dell’Italia e degli italiani.

Quando don Milani raccontava le difficoltà dei sui studenti contadini, era chiaro a tutti che si trattava di ragazzi che venivano da famiglie molto povere che stentavano a comprarsi un libro, perché non avevano il denaro sufficiente. Nella periferia romana che descrive Silvia dai Pra’, la povertà non è mai economica ma sempre culturale. I suoi alunni (i padri e le madri dei suoi alunni) vanno in vacanza a Sharm-el-Sheik, arrivano a scuola con il Suv, fanno acquisti nei centri commerciali, seguono le mode nel vestirsi, hanno cellulari e lettori mp3 di ultima generazione.

E però sono più poveri, di fatto, dei figli dei contadini di don Milani: più poveri perché abbruttiti dal mondo che li circonda («È colpa di Berlusconi», ripete ossessivamente una collega di Silvia; e Silvia sa che è pur vero ma non è solo vero), annichiliti dalla realtà che li assorbe, con i suoi desideri plastificati di sfilate di moda e di televisione. Così come anche i loro insegnanti sono tutti più poveri, sia di don Milani sia della professoressa a cui lui si rivolgeva: anche loro incagliati dentro un meccanismo che non comprendono più, quello delle loro vite periferiche e del loro mestiere privato di un qualsiasi significato.

E il viaggio dentro questo anno di scuola di Silvia diventa un quindi un percorso quasi sconcertante, in cui razzismo e xenofobia si mescolano a un fascismo tutto di superficie, senza modelli né fondamenti culturali, in cui la violenza è solo un modo di esprimersi, l’unico che questi ragazzi conoscono, perché forse è l’unico che è stato lasciato loro; in cui la parola «rumeno» non indica più una nazionalità o una provenienza ma soltanto un insulto, puro e semplice.

È un bel libro, questo piccolo libro di Silvia dai Pra’: un libro che riesce a raccontare la scuola contemporanea come nessuno, a mio parere, aveva ancora fatto: senza mai indulgere alla facile retorica del “maestro di vita”, senza mai scivolare nel disfattismo, senza mai cadere nell’inutile pretesa della sociologia spicciola. Sono semplicemente pagine che trasudano ironia e verità: che, dovessi dire, sono esattamente le due cose di cui la scuola italiana ha più bisogno in questo momento.

4 commenti:

  1. non ho letto il libro di Silvia dal Prà, ma qualche anno fa lessi questo,

    http://www.anobii.com/books/Registro_di_classe/9788806150051/01fff868b9b36cf083/

    che, mi pare di capire, non si discosta molto...
    mi chiedo se i sedicenti critici letterari bbiano mai dato un'occhiata a Starnone o anche al semplicissimo "Io speriamo che me la cavo": non credo che il disfacimento della scuola - e della società, di una certa società italiana - sia una novità dell'anno scolastico 2010/2011...

    RispondiElimina
  2. Senza togliere nulla a Starnone (che fu una scoperta anche per me) questo libro incide ancora di più nella carne: è più intenso e drammatico. A tratti, ti dirò, spaventoso, pur nella sua ironia leggerissima.

    RispondiElimina
  3. Io vorrei dire qualcosa che forse non dovrei dire, perché ho letto solo l'anteprima pubblicata dal Post e quel che ho da dire è un po' acido.(magari prendete il mio post soltanto per un "documento umano"...).

    Insomma, sono rimasto un po' indispettito. La mia impressione è che dopo Starnone (un grande, sia chiaro), le elegie sulla scuola italiana siano diventate "genere". E' vero che la scuola italiana si presta, però 'sta benedetta ragazza insegna un anno in una serale e subito ci regala le sue pensose riflessioni, peraltro con accenti piuttosto critici nei confronti delle colleghe , tutte ciniche e superficiali (almeno nella parte che ho letto, ribadisco).

    Se non fosse stata già una giornalista, forse un editore le avrebbe detto: "senti, fatti qualche altro annetto nella scuola, riflettici e poi portaci le tue conclusioni". Oppure poteva intervistarle, le colleghe...

    Così mi sembra un po'...facile. Un po' alla Fantasticheria.

    Sarò prevenuto, ma ho come l'impressione che, come molti altri, lei a scuola ci si sia trovata più per ripiego che per scelta, non grazie, ma nonostante il suo dottorato.

    Però, lo ripeto, prendete le mie come l'impressioni di pelle di uno che si è trovato il libro per le mani, l'ha sfogliato e poi l'ha rimesso sullo scaffale non favorevolmente colpito (il tutto in maniera digitale).

    Magari sono io che sono territoriale e geloso del mio mestiere...

    FR (uqbal)

    RispondiElimina
  4. @FR
    Secondo me, invece, dovresti provare a leggerlo. Insisto, però: non è un saggio, non può essere letto così. E' una prova narrativa, non immune da qualche difetto, ma di grande impatto e utilità. Soprattutto per chi a scuola non ci lavora, questo è vero.

    RispondiElimina

(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)