«A me, sinceramente, non me ne frega niente dell’esame. L’unica cosa che voglio è uscire al più presto da qui.» «Anch’io, guardi: che vada affanculo l’esame, i punteggi, la tesina… Mi interessa solo di uscire, il resto, chissenefrega.» «Davvero, è così, prof. Sembra che questi cazzo di punteggi interessino solo a voi insegnanti… Ma è perché dovete fare bella figura? vi danno più soldi se noi usciamo con dei voti più alti?» «Che poi il voto della maturità non conta niente, tanto vale non studiare e fregarsene. L’importante è andare all’università, il resto non conta. Anzi, guardi, appena sarò fuori tornerò a dirò tutto quello che alcuni dei suoi colleghi si meritano, che alcuni sono stati dei veri stronzi… Lei no, eh, non fraintenda…»
Insomma, avete capito: queste sono le voci, trascritte più o meno fedelmente, dei miei alunni di quinta prima dell’esame di Stato, che comincia mercoledì. Ma non solo di quelli di quest’anno: in realtà queste sono più o meno le voci di tutti gli alunni di quinta che ho avuto, alla fine di tutte le quinte, subito prima di tutti gli esami di Stato. Dicono che non gliene importa niente; dicono che il punteggio con cui usciranno gli è proprio indifferente (ci sono anche eccezioni, naturalmente, ma sono poche). Dicono che vogliono solo scappare di qui, andarsene, dove finalmente potranno fare quello che vogliono, via da questo schifo di posto. E sapete qual è l'aspetto più curioso di tutto questo loro dire? È che non è vero.
Non è vero che non gliene importa niente.
Intanto perché sono agitati come non li avevo mai visti prima, talmente agitati che non riescono nemmeno a capire di esserlo; poi perché il giorno in cui usciranno i tabelloni con i punteggi finali si accalcheranno davanti alla scuola, guarderanno il loro voto con ansia, ma soprattutto guarderanno il voto altrui, con morbosa curiosità. E poi cominceranno le lamentele, le solite, quelle di tutti gli anni: come avete fatto a dare a «lui» quel voto? io non mi meritavo niente, ma «lei» proprio non doveva prendere più di me: è una vera ingiustizia!
Tutti gli anni, più o meno, la stessa musica, già sentita. E il bello è che gli argomenti che usano per dire che «non gliene frega niente» della Maturità sono anche argomenti validi: voglio dire, è vero che il voto non conta niente; è anche vero che l’importante sarà l’università; ed è anche vero (perdonatemi che lo dico) che alcuni colleghi, con alcuni di loro, non si sono comportati proprio in maniera impeccabile (e probabilmente anch’io, chissà). Ma la forza degli argomenti non può nulla contro la potenza del rito: perché la Maturità (che infatti continuiamo impropriamente a chiamare così) è niente altro che un rito, ormai. Di passaggio, di iniziazione, di ingresso nell’età adulta: di tutte queste cose insieme. E loro, anche mentre fanno gli indifferenti, anche mentre esibiscono la loro diciottenne noncuranza, loro lo sanno. E diventano ansiosi. E quando usciranno i voti, se non sarà andata come volevano, se ne faranno una piccola malattia estiva, che non guarirà prima di ottobre. E quello che dicono ora non conterà più nulla, perché non era mica vero: era soltanto paura.
D’altronde non è soltanto responsabilità loro, effettivamente: dopodomani ci sarà il primo scritto e ci saranno già tutti i telegiornali, il tam tam sulla rete per scoprire le tracce, i commenti degli esperti (?) alle stesse tracce, le critiche. E poi le interviste fuori dalle scuole, puntuali come il servizio sul caldo e sulla necessità di bere molto: belle facce diciottenni stanche della prova, che dicono che è stato facile o è stato difficile. E non solo i media, però: tutti gli adulti che mi incontrano in questo periodo mi chiedono dell’esame di maturità: se lo farò, come vanno i miei alunni, come è stato, se hanno capito le tracce, se le tracce erano belle o no.
Insomma, lo sappiamo tutti che è un rito: lo sappiamo e ci va bene così e ci comportiamo di conseguenza. Sull’utilità dell’esame potremmo discutere per ore senza capirci niente; forse hanno addirittura ragione i ragazzi, quando dicono che non gliene imprta nulla e «chisseneffrega». Ma un rito non si misrua dalla sua utilità: un rito è solo se stesso, non serve, non deve servire. È solo la svolta che segna l’inizio di un nuovo cammino, il passaggio a livello che si alza, il semaforo che diventa, finalmente, verde.
E allora, mentre ascolto, i miei ragazzi che dicono che «non me ne frega niente del voto e dell’esame, voglio solo andare via di qui», io sorrido e poi, quando parlo, lo faccio con il tono di voce più sereno e pacato che ho. E dico:
«Sì, hai proprio ragione, guarda. E si vede anche non sei per niente teso [ehm]… Giusto così. L’esame non è importante. È importante il dopo, quello che vi aspetta dopo, l’università. Che sarà molto meglio di qui, avete ragione. Perché tutto cambierà in meglio, tutto è destinato a cambiare in meglio. E ora scrivete la vostra tesina meglio che potete, che fare brutte figure non è mai bello: e poi andate per i mondo a fare finalmente quello che volete». E «garzoncelli scherzosi», vorrei aggiungere; ma siccome stanno anche studiando un po’ di letteratura, non lo aggiungo. Che non vorrei mai che capissero davvero.
Però devo dire la verità, a volte io ho l'impressione che effettivamente i nostri studenti arrivino esausti all'ultimo anno di scuola (non dico agli esami, dico proprio l'ultimo anno).
RispondiEliminaA volte mi chiedo se la nostra scuola non sia di un anno troppo lunga e se dei maggiorenni, diciotto-diciannovenni, possano essere costretti nelle stesse forme dei tredici precedenti anni di scuola...
Po' l'atteggiamento dei tuoi studenti sembra proprio quello degli amanti feriti: "Cosa mi importa di quella! Pfui..."
uqbal
Devo dire che per quello che ho visto da me, concordo con il commento di Uqbal: più che all'esame di stato (per i quali trovo una varietà di reazioni 'pre', ma non la maggioranza che tu descrivi), mi sembrano arrivare esausti all'ultimo anno, e il problema di questa maggiore età che non corrisponde solo con un anno di ritardo a un rituale scolastico esiste, esiste eccome. A un certo punto della quarta c'è una svolta. E in prima sono, se pure con tutte le contraddizioni, dei giovani adulti. Cui la scuola non sa rispondere in maniera adeguata.
RispondiEliminaChe poi i cinque anni più esame restino un rito è verissimo, e loro lo sanno: all'ultima campanella la classe dei Matti piangeva a calde lacrime come di fronte a un piatto di cipolle appena pelate...
14 anni fa toccò a me...si, dissi proprio una di queste frasi...poi dopo dieci minuti sono scoppiata a piangere per l'ansia da esame. Simpatici "sboroncelli"!
RispondiEliminaIo ho sempre trovato maggiori resistenze e maggiore stanchezza al quarto anno, più che al quinto. Forse perché è anno senza stimoli particolari. Invece, in quinta, dopo la svolta delle vacanze natalizie, mi è sempre parso di avere davanti studenti molto più motivati dell'anno precedente. Ma è soltanto un'impressione, ovviamente.
RispondiElimina(Benché poi sia ovvio che togliere il quarto anno significhi comunque accorciare di una nno il percorso complessivo, scelta che mi vedrebbe tutto sommato concorde)
Maturità:son passati quasi 30 anni dal mio esame e solo da poco non me lo sogno più di notte.La rabbia per il mancato 60 si è affievolita ma non è scomparsa (solo l'anno scorso per caso ho avuto un incontro chiarificatore con il membro interno dell'epoca.Ho scoperto allibita che anche in quello che pensavo fosse allora un sistema meritocratico, valevano invece già le logiche e le leggi non scritte che ho ritrovato poi nelle valutazioni annuali aziendali: monte punti globale assegnabile per ufficio, punteggio medio globale,... e altro ancora.)
RispondiEliminaIl nuovo sistema di crediti, bonus, etc non mi pare sostanzialmente migliore(leggasi: più equo)del sistema in vigore nel secolo scorso.
Per quanto riguarda l'abbreviazione a 4 anni delle superiori, mi ero già posta la domanda (e chiesto allo Scorfano il suo parere) sul perchè questo governo, nella furia riformatrice, non abbia trovato il coraggio di farlo (quando invece lo ha fatto per le scuole italiane all'estero).
SilviaC
@Silvia
RispondiEliminaCapisco la rabbia, che rimane. Ma in questo avrebbero ragione i miei alunni (se dicessero la verità): non vale la pena di prendersela. L'esame risponde a logiche sue, sempre molto aleatorie. Io lo dico sempre ai ragazzi prima che cominci: loro però se ne dimenticano subito...
Se uno vuole mandare in vacca una rimpatriata, non importa dopo quanti anni, parlare dei voti di maturità è un buon modo...
RispondiEliminauqbal
Ci sono anche garzoncelli e fanciullette che sono davvero fissati con il voto della maturità e ai quali ci si accorge subito che brucerà aver avuto 74, e non 77, 81, e non 85, ecc... Il rovescio della medaglia, il riflesso dell'insicurezza. E quando tu cerchi di far loro capire che un giorno di questa cosa non gliene fregherà davvero nulla - e che quel giorno non è poi così lontano - ti guardano come se fossi matto.
RispondiEliminaPer come la vedo io, ogni anno scolastico è ben duro e stancante, soprattutto alla fine. Mi chiedo però se sia giusto pensare che i nostri ragazzi siano preservati da una stanchezza che dovrà di fatto accompagnarli tutta la vita. Vita che è appunto maledettamente stancante, e a questo si dovrebbe invece educarli.
Quanto ad accorciare di un anno le superiori: già adesso, in letteratura italiana, a stento si arriva a Montale... Come si farà a fare tutto il programma di tutte le materie, con un anno in meno?
Piccole domande OT di una che la scuola la vede da fuori...
@Ipazia
RispondiEliminaD'accordo sui primi due punti tuoi.
Sul terzo, che è una domanda, direi che si dovrebbe spalmare il programma su quattro anni e non più su tre. Lasciando alla media inferiore una serie di compiti preliminari (che non so quante possibilità avrebbe di svolgere, però: qui sta il punto dolente)
Io accorperei medie e superiori, in modo da dare continuità alle materie fondamentali, ed elimenerei del tutto il programma, o lo ridurrei ad un'impalcatura veramente minima. Poi: laboratorio, dibattito, tanta scrittura e lettura, lettura, lettura. E poi: lettura.
RispondiEliminauqbal