Entro in quinta, per l’ultima lezione. Ho due ore davanti e ho già pensato, lo confesso, di passarle chiacchierando un po’ con loro dell’esame di maturità, del futuro, delle ansie che sentono, di quello che vogliono loro: è l’ultimo giorno di scuola, insomma.
Ma quello che vogliono loro è per me del tutto inatteso. Mi dicono: «Può spiegarci l’ultimo canto del Paradiso, per favore, prof?» Io rimango perplesso: «Perché? Non lo avete già letto con il vostro insegnante di italiano?» (io insegno solo latino, in questa classe, da sempre). E loro mi dicono: «Sì, ce lo ha già spiegato, ma era tardi e abbiamo fatto un po’ in fretta. Se ce lo spiegasse lei sarebbe meglio, che magari esce qualcosa nel tema dell’esame di maturità».
Capisco e, benché sfinito, corro in biblioteca, prendo il primo volume del Paradiso che trovo (ovviamente non ho il mio con me) e torno in classe, a spiegare, anche l’ultimo giorno di scuola, per le ultime due ore dell’anno, con questi quattordici ragazzi che ho visto e e che mi hanno ascoltato per tre anni. Incomincio a leggere e spiegare, loro sono attenti, la lezione fila via liscia, sembra tutto facile. Ma appena superata la prima parte del canto, quella con la preghiera alla Vergine, arriva una terzina e mi scopro a leggerla come se non l’avessi mai letta prima d’ora, come succede spesso quando si legge Dante.
La terzina suona così:
E io, ch’al fine di tutt’i disiiResto immobile ad ascoltarmi mentre leggo questi versi: noto quel ripetersi tra fine e finii, noto quell’ardore, quel desiderio. Poi comincio a parafrasare, ma so di essere incerto. Dico:
appropinquava, sì com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
«Allora, qui c’è Dante che si avvicina al termine ultimo dei desideri umani, che è Dio naturalmente… il “fine”, insomma, lo scopo, l’obiettivo, la fine…»
Sto esitando, lo so. Ma vado avanti:
«Ecco, ragazzi, insomma c’è il personaggio Dante che ha finito i suoi desideri, è giunto alla fine, non può più desiderare altro, perché questa fine è Dio, il creatore, lo scopo di tutto il viaggio. E infatti “sì com’io dovea” c’è scritto, come era giusto, come era necessario e inevitabile. E poi di nuovo il “finire”, nel senso di “consumare”, “esaurire”, è l’esaurirsi del desiderio, il desiderio umano che si dissolve… Dante dice che ha consumato tutta la forza del suo desiderio, perché forse non c’è altro che si possa desiderare: e infatti lo chiama “ardore”, che è un bruciore, qualcosa che consuma, che fa soffrire, se ci pensate bene. Ecco questo è il fine del nostro bruciare di desiderio e soffrire…».
Ma, mentre parlo, sto anche guardando le note di quel testo che ho preso in biblioteca. E so che c’è scritta un’altra cosa in quelle note, che la spiegazione è un’altra, che è un’altra l’interpretazione che infatti mi ricordavo di sapere e che ora non sto dicendo. Lo so, lo leggo. C’è scritto: “portai al culmine il mio desiderio”: questo è quindi il significato di quell’ultimo verso della terzina. Eppure non riesco a fermarmi, non riesco in pochi istanti a cancellarmi dalla testa quest’idea che mi è venuta oggi, ultimo giorno di scuola. Vado avanti, infatti, e dico:
«Di questo argomento, del desiderio umano, abbiamo già parlato, ragazzi. Lo abbiamo incontrato studiando Seneca, il suo avvicinarsi all’epicureismo, e anche leggendo le Odi di Orazio: la rinuncia ai desideri come unica possibilità di felicità. L’idea che il desiderio sia ciò che ci condanna a essere per sempre infelici. Ed ecco qui, invece. Ecco il paradiso, l’incontro con Dio, la felicità ultima e definitiva: la fine del desiderio, la fine di tutto quello che abbiamo sempre inseguito, Dio, dopo il quale nulla può essere più desiderato. È questo il paradiso, ragazzi, è Dio. Essere con Dio e in Dio per l’eternità, senza avere più nulla da desiderare…»
Loro mi guardano. Si sono accorti che mi sono stranamente emozionato. Io li guardo, mentre prendo fiato, e dico: «Avete capito? È le beatitudine del Paradiso…».
Alcune teste annuiscono. Non tutte, non annuiscono mai tutte, è impossibile che accada, è una regola. Interviene Bruno e dice, con il sorriso: «Ma sì, prof. È un po’ come oggi, in realtà. Tu vai avanti, giorno dopo giorno, ti pare che tutto sia sempre lontano, come se non potessi raggiungerlo mai, come un traguardo virtuale. E invece poi arrivi a oggi: ed è l’ultimo giorno di scuola, il liceo è finito, siamo entrati qui cinque anni fa (alcuni sei anni fa) (e alcuni ridono, infatti) e ora è la fine, non ci sarà più un giorno dopo, il viaggio è terminato, non c’è più niente da aspettare. Il punto era questo, il traguardo, la fine».
Io ascolto, ma non so. Non mi pare che sia così: è un bel paragone, calza a pennello perché oggi è oggi, l’ultimo giorno di scuola, ma è sbagliato e devo dirlo. E lo dico, infatti: «No, Bruno, non è esattamente così. Perché dopo oggi ci sarà ancora qualcosa, un altro giorno, un esame, un altro esame, tanti altri giorni, tante altre mattine. Oggi è solo una tappa, non è una vera fine. E c’è anche questa malinconia, la nostalgia per quello che si è vissuto e che, sotto sotto, sappiamo destinato a non tornare più: anche questo rende tutto molto diverso. Non è così, Bruno, non è un ultimo giorno di scuola quello di cui Dante sta parlando, è di più».
E mi dispiace un po’ di averlo deluso, ma dovevo, è il mio mestiere. E sto già provando a rispiegare meglio questi versi, in un altro modo, da un’altra angolatura, magari (mi dico in silenzio) torno all’interpretazione consueta, che è più facile, che forse è quella giusta… Ma, prima ancora che io parli, interviene Fabiana, quasi senza preavviso, come di botto. E dice:
«Io lo so, prof: io so cosa vuol dire. È come quando guardiamo le stelle, di notte, e ci chiediamo cosa c’è dopo, oltre le stelle. E sappiamo che ci sono altre stelle, ma non ci basta. E ci chiediamo: ma cosa c’è dopo quelle altre stelle? C’è il nulla, ci dicono. Ma anche questo non ci basta. Dopo il nulla, vogliamo sapere, cosa c’è dopo il nulla? E ci immaginiamo un altro nulla, oppure qualcosa, oppure un muro immenso. Ma allora che cosa c’è dopo quel muro? Ma non riusciamo nemmeno a immaginarlo, né il nulla né il muro. Ecco, prof, secondo me Dante ci sta dicendo questo: che dopo le stelle, e dopo le altre stelle, e dopo il nulla, e dopo il muro, c’è questa cosa, Dio, una specie di punto fermo. E questo punto è la fine, il traguardo, l’obiettivo del viaggio. E che da quel punto tutto si capisce, per sempre, e che non ci saranno più domande che ci dovremo fare, perché sapremo tutto. E non desidereremo più nient’altro, se non essere in quel punto. E quindi saremo felici, per sempre felici, perché non avremo più nulla da desiderare».
…
E io resto così, ascolto Fabiana e vedo le altre teste che annuiscono, tutte. E non so se sia vero, non so mica se è giusta l’interpretazione di questo verso numero 48 del canto numero 33 del Paradiso di Dante. Ma faccio finta che lo sia, faccio finta con me stesso prima ancora che con loro. È bello che lo sia. Dico solo: «E quel punto finale, sapete cos’è?» E poi rispondo io, senza aspettare: «Quel punto, come Dante ha scritto tante volte, quel punto è l’amore di Dio, l’amore che cancella qualsiasi altro desiderio, l’amore che rende perfettamente felici, l’amore».
…
E poi la lezione prosegue, non riesco nemmeno, in due ore, ad arrivare alla fine del canto, mi dispiace, ma è tardi, tocca salutarsi, poi uscire, mentre la scuola è tutto un tripudio di urla e di auguri festosi per l’estate. È l’ultimo giorno di scuola, per tutti loro: alcuni avranno l’esame di Stato, la maggior parte nemmeno quello, solo vacanze. Sono felici, lo sono anch’io: perché sono stanchissimo.
Ma so anche che tornerà settembre, prima o poi. Che giugno passerà rapido, tra scrutinii, impegni da tanto tempo rimandati. Poi ci sarà luglio, i corsi di recupero, poi la vacanza, un viaggio, poi i temporali d’agosto, al mio ritorno, e poi sarà di nuovo settembre. Perché questo viaggio non sa finire, perché c’è sempre un dopo, un desiderio nuovo, un domani mattina da più o meno aspettare. E c’è anche un futuro che aspetta loro, i ragazzi di questa quinta, come tanti altri ragazzi di tante altre quinte degli anni passati. Che dovrebbero essere passati, appunto, ma che in fondo non passano mai.
Ciao Prof, sarebbe stato bello assistere a(vivere) questa tua lezione... chè magari mi avresti dato uno spunto per capire la differenza tra la felicità del viaggio e la serenità della destinazione (stamattina, mentre ti leggo, capisco che non ho capito niente. Anzi, forse una cosa l'ho capita: stamattina si rilegge un po' di Paradiso!). Buona domenica.
RispondiEliminaCome avrai notato leggendo, anch'io spesso capisco di non aver capito (e la terzina di Dante è il meno...). Partiamo da qui, insomma.
RispondiEliminaGrazie prof. Che classe meravigliosa la tua. Mi conferma in quel che cercavo di scrivere anche io, l'altro ieri: noi vogliamo sapere come la storia va a finire, e questa fine non può essere contro tutto quello che abbiamo vissuto e sperato e costruito. Una breve osservazione la farei sul desiderio che annulla tutti gli altri desideri: perché in realtà, dentro Dio, dice Dante, ci sono "accidenti, sostanze, e lor costume": in quell'Amore finale c'è tutto quello che abbiamo vissuto, e soprattutto il perché lo abbiamo vissuto (la vita nella sua apparenza e nella sua essenza).
RispondiEliminaGrazie a Dante che ha saputo cantare tutta l'umanità, dalle sue bassezze alle vette del suo desiderio. Grazie ai nostri studenti quando ce lo fanno riscoprire. E grazie a chi sa raccogliere la loro domanda. Ciao!
(da postilleblu. Anche oggi gmail mi sta dando forfait...)
E, last but not least, grazie anche a te :)
RispondiEliminaQuante volte ho sentito dire: "Sulla Divina Commedia è già stato scritto tutto ed il contrario di tutto"... Si capisce: parlano i "non addetti ai lavori".
RispondiEliminaVengo qui, leggo il tuo intervento e, idealmente, rispondo a quelle persone: "Non è mica vero...".
Grazie, professo'.
Ciao, Nomade.
RispondiElimina@darknomad: è quello che sosteneva Calvino: un classico è un libro che non finisce mai di dire ciò che ha da dire.
RispondiEliminaBellissimo post.
RispondiEliminaSu Dante, sui desideri e sulla vita.
Grazie, Scorfano!
Agota
Grazie a te, Agota.
RispondiEliminawow, che brividi, è proprio così. E' proprio questo; il paradiso. E chi ha avuto la Grazia di averne una stilla in anticipo non può che confermarlo. Sono 2 ore di scuola che valgono un anno scolastico intero. E Oltre.
RispondiEliminaGrazie.
Devopensarci