sabato 10 settembre 2011

un appunto sui vostri ricordi di scuola

di lo Scorfano

Spero mi vorrete scusare se inizio questo post con una sfacciata vanteria: pochi giorni fa è venuto su questo sconclusionato blog un mio ex alunno, ha letto un post che parlava di una poesia e ha lasciato un commento: questo commento. Eugenio, così si chiama l'ex alunno, è stato un mio studente solo per un anno, in seconda liceo: gli ho insegnato un po' di italiano e un po' di latino, quel poco che ho potuto. Dopo lui ha proseguito il suo triennio con altri insegnanti, alcuni molto diversi da me; attualmente è uno studente di fisica all'università e dunque non ha più nessun motivo per lusingarmi. Se avete letto il suo commento, avrete pensato che io ne possa essere stato molto felice e orgoglioso, mi immagino. Ecco: felice sì, lo sono stato; e anche grato (grazie, Eugenio, sei stato gentilissimo); ma orgoglioso no, per niente.

Il motivo è semplice semplice, in realtà: se voi andaste dai 23 compagni di classe che all'epoca erano seduti insieme a Eugenio ad ascoltarmi e se chiedeste loro di quella tal lezione o di quella tal poesia, loro non se la ricorderebbero. O forse se la ricorderebbero, ma vi citerebbero altri episodi di quell'anno scolastico, a loro avviso ben più importanti e significativi. Sarebbero altri aneddoti, altri ricordi, tutt'altre memorie. È normale: non si insegna ai «ragazzi» in generale, mai.
Si insegna a quei 24 ragazzi, quel giorno lì, in quel determinato anno della loro e della nostra vita: a ognuno di loro. Il mestiere è questo, non un altro.

Gli altri ragazzi di quella classe lontana, quindi, vi racconterebbero di me altri episodi, alcuni in luce positiva altri in luce negativa. Se li raccontassero a me direttamente, è facile che io non ne ricorderei nemmeno uno, o comunque molto pochi. Anche questo è normale, anche questo è il mestiere: si parla tanto, ci si dimentica per forza. E, soprattutto, questa è la memoria.

Perché a quei ragazzi (e anche a voi, quando mi parlate di scuola) pare di stare raccontando qualcosa del loro professore, ma in realtà stanno raccontando qualcosa di loro stessi: di quello che sono nel frattempo diventati e di come interpretano un passato (anche recente) in cui erano molto diversi da quello che ora sono. Funziona così, in tutti gli ambiti: la memoria è uno strumento imperfetto, è normale anche questo. La memoria aggiunge, interpreta, rilegge, reinterpreta, aggiusta, corregge e ripara. Sapere cambia le cose: e loro sanno come è andata dopo, sanno cosa sono ora, sanno quello che a quindici anni non potevano sapere. E, pensando di raccontarmi quello che io sono a lezione, mi stanno raccontando quello che oggi sembra loro di essere stati a lezione.
(Non è mica un caso che quando si parla di scuola viene sempre fuori il «mi ricordo...» E non è nemmeno un caso, fidatevi, che due tra i miei post più dibattuti di quest'anno riguardassero proprio la memoria e i ricordi chi a scuola non ci mette piedi da anni, ma «sa» e si ricorda bene: quello dell'altroieri, e quello ben più patetico di giugno.)

Quindi è soprattutto per questa ragione che io non posso (non devo) essere orgoglioso di quel ricordo di Eugenio: perché non è significativo; e io devo saperlo (e, se non lo so, è grave). Sono ben altre le cose di cui posso essere orgoglioso, in realtà: perché ho parlato con Eugenio l'ultima volta circa tre mesi fa, e l'ho trovato un giovane uomo consapevole, maturo, curioso, capace di comprendere e di ascoltare, molto attento a se stesso e al suo futuro. L'ho trovato un ragazzo in gamba, come si dice. E di questo, invece, sono stato molto orgoglioso. Di lui e di me. Di me come insegnante, intendo.

Perché è questo ciò a cui silenziosamente si lavora, in una scuola, se si è insegnanti. Non a fabbricare ricordi e aneddoti e trovate brillanti: quella è roba facile, quelli sono trucchetti da prestigiatori, trappole per polli, giochetti di chi non sa come altro fare il suo mestiere, sono scemenze. Si lavora (si dovrebbe) per tutto quello che invece non si vede, per tutto quello che la memoria non ricorda, ma che costituisce, alla fine, l'essenza di una crescita culturale, il suo cuore. Io oggi guardo Eugenio e sono fiero di me, orgoglioso.

E lo so che ho avuto un ruolo impercettibile nella sua crescita culturale; che hanno contato assai di più suo padre, i suoi fratelli, i suoi amici, le sue letture e tanti altre persone. Ma un po' ho contato anch'io. Non quella mattina, non perché la mia trovata di quel giorno fu più o meno efficace; ma per tutto il resto di quell'anno, con la passione che ho provato sempre a metterci, con la fatica, con le cose noiose che gli ho dato da studiare. È questo che fa la crescita, non il resto, non la mattina in cui il trucco riesce bene. Per troppi altri infatti, quella mattina non fu importante, ne sono certo: e questo mi basta a non tenerla affatto in considerazione. Io non ho bisogno di giochi di prestigio, non devo averne bisogno, e soprattutto non voglio (non devo) esserne orgoglioso.

Tutto qui, alla fin fine; non molto d'altro. Oppure, visto che siamo ancora in tema, manca ancora uno slogan, che sia una sintesi un po' efficace di quello che, malamente, ho provato a dire. E lo slogan potrebbe essere questo: Io non sono orgoglioso del ricordo di me che ha Eugenio; perché, se lo fossi, significherebbe che sono stato un pessimo insegnante, che non sa quale sia il frutto vero del suo lavoro. E, perdonatemi di nuovo, questa era la sfacciata vanteria con cui iniziava il post: che io sono orgoglioso di tutt'altro.

7 commenti:

  1. Leggere i tuoi post è sempre un bel modo di cominciare la giornata.

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  2. Ora, non per fare il solito idealista, ma alla fine i lavori come il tuo, quelli che hanno a che fare con "materiale umano" sono quelli che al netto di tutto danno le soddisfazioni migliori. Nessuna scoperta, nessuna vendita epocale, nessun affare del secolo. O forse tutto questo insieme, ma in un modo assolutamente unico.

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  3. @maria paola
    Grazie, troppo gentile.
    @plus1
    mah, non per fare il solito cinico realista, però mah... ;)

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  4. grande S.!
    grazie per aver espresso, aver saputo ...!, così bene ciò che è (dovrebbe essere) insegnare:
    "Si lavora (si dovrebbe) per tutto quello che invece non si vede, per tutto quello che la memoria non ricorda, ma che costituisce, alla fine, l'essenza di una crescita culturale, il suo cuore."
    Magistrale! :-)
    g

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  5. "... Ma un po' ho contato anch'io. Non quella mattina, non perché la mia trovata di quel giorno fu più o meno efficace; ma per tutto il resto di quell'anno, con la passione che ho provato sempre a metterci, con la fatica, con le cose noiose che gli ho dato da studiare... "
    Bellissimo, prof.
    Pensavo di partire un po' scarica quest'anno, per alcune questioni d'inizio scuola, e invece vedi la realtà (il tuo post) cosa riserva...

    Mi sono chiesta tanto perché il blog si chiamasse "Sempre un po' a disagio".
    Ora mi sembra di poter dire anche che il "disagio" del titolo sia quello che vi tiene desti, e vi fa partire alla ricerca delle pepite d'oro sparse sulla riva del fiume....

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  6. Non so perché ma mi sono venuti in mente i Cure e Byron ;^)

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  7. @Speaker
    Tu sei malizioso, ecco perché...

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)