Ho cominciato a leggere fumetti a tredici anni. Mi stavo riprendendo da una lunga febbre quando mi accorsi di un Dylan Dog che stava sulla scrivania di mio fratello, poco distante dal mio letto. Da lì incominciò un altro tipo di febbre, una passione che sarebbe durata fino al 2004 (smisi senza accorgermene) e da lì, da quando cominciai a leggere Dylan Dog e più o meno tutto ciò che stava nella scuderia Bonelli, incominciò anche ad incrinarsi il rapporto con mio fratello, che ha otto anni più di me e che saluto calorosamente. Siccome a scuola non andavo molto bene e siccome allora era essenzialmente mio fratello a badare alla mia educazione, lui non voleva che leggessi fumetti, che mi abbuffassi di vignette. La sua motivazione era questa: “Se leggi fumetti non imparerai mai a leggere le frasi lunghe che stanno nei libri”. Perché di libri, a tredici anni, io ne leggevo pochi e solo se costretto. Io allora ebbi la banale reazione di leggere i fumetti di nascosto e con un senso di colpa che con l’andare del tempo si è ingigantito ed è andato a toccare altre questioni interiori.
Tutta colpa dei periodi brevi che stavano nei balloons sopra la faccia di Dylan Dog. Sta di fatto che incominciai involontariamente ad abbreviare i sentimenti, le parole e le frasi da destinare a mio fratello. Qualcosa si ruppe, le crepe divennero vistose e il calore umano che dovrebbe legare due fratelli cessò in un rivolo di sfumature. Alle spalle, magari, c’erano altre incomprensioni, direte voi. Non ricordo, non so che dirvi. Probabilmente avrei bisogno di uno specialista per sviscerare le cose senza forma della vita. Ricordo solo che il silenzio incominciò con la lettura di quel fumetto. Dylan Dog era un po’ impacciato come me e per questo mi piaceva e mi accorsi pure, più tardi, che i mostri eravamo noi e che le tavole erano colme di metafore, di politica, di letteratura e cinema.
Fu un passo verso la letteratura vera, nonostante le frasette corte. A Sergio Bonelli, non tanto tempo fa, hanno fatto questa domanda: “Il fumetto è in crisi?”. “È in trincea. Prima la tv. Poi i giochi elettronici, i telefonini. Intrattenimento facile per i ragazzi. Imbattibile. I fumetti invece hanno bisogno di silenzio e concentrazione. Chi fa fumetti è destinato a una battaglia di retroguardia. Ma questo è un problema di chi verrà dopo di me", ha risposto lui.
Ecco, con i fumetti ho imparato il silenzio e la concentrazione, indispensabili per fare tutto quello che la vita, prepotentemente, mi ha chiesto poi di fare per diventare un essere umano decente. Tramite il silenzio e la concentrazione ho poi imparato a volermi bene, a leggere libri, i periodi lunghi, a studiare e a capire, o tentare di capire, i sentimenti degli esseri umani. Senza silenzio e concentrazione non ci sarei mai riuscito (se mai ci sono riuscito). Ho imparato anche a parlare, a non essere timido e poi anche ad apprezzare la buona musica e il cinema (non è forse Bergman questo qua sopra?). Sono diventato grande, insomma.
Solo che il senso di colpa mi è rimasto, si è depositato sul fondo. È rimasto lì e ogni volta che faccio uno scarto da me stesso e ogni volta che mi rilasso un po’, zac, ecco che il senso di colpa si fa sentire. Come quando leggevo i fumetti, che avevano le frasette corte. Qualche giorno fa, sulla poltrona, mi sono divertito per una decina di minuti con una sitcom americana, How i met your mother, fino a quando è giunto un fastidio dalla bocca dello stomaco. Il senso di colpa, appunto. Colpa di che cosa? Non lo so di preciso. Colpevole per essermi divertito, forse. La faccenda, lì sulla poltrona, guardando una sitcom americana, aveva a che fare di sicuro con i fumetti e le frasette corte: “Se leggi fumetti non imparerai mai a leggere le frasi lunghe che stanno nei libri”. Bisogna sempre stare in guardia, concentrati. Essere in grado di leggere i periodi lunghi e i pensieri articolati. Che la vita ti prende alle spalle, altrimenti.
Ci sono vari modi di avvicinare un ragazzino alla lettura. Mio padre ci provò con "L'Italia dei secoli bui" di Montanelli e Gervaso.
RispondiEliminaL'unica cosa che mi rimase, di quel testo, fu la frase: "Gli avventori toccavano le terga delle locandiere".
Hai scritto un breve capolavoro, Disagiato.
RispondiElimina@SpeaKerMuto
RispondiEliminaSappi che sto ridendo tanto(e scusami l'imperativo) :)
@nomade
RispondiEliminaSuvvia, che dici ;)
Sul serio, un lo di'o mi'a pe rride!
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