sabato 10 dicembre 2011

il degrado

di lo Scorfano

Ieri un insegnante di una scuola professionale ha scritto una lettera al quotidiano «La Stampa», per raccontare cosa significa lavorare con i ragazzi che non hanno nessuna voglia di stare a scuola. Ne trascrivo qui la gran parte, oggi, perché mi pare importante non dimenticare cosa siano alcuni indirizzi scolastici in Italia. Perché spesso, quando parliamo di scuola superiore, pensiamo troppo ai licei e troppo poco al resto. Perché spesso i ministri che si susseguono nell'incarico hanno frequentato un liceo (privato la penultima, pubblico l'ultimo) e a quello fanno automaticamente ritorno con i ricordi; perché anche gli insegnanti, da giovani, hanno per lo più frequentato un liceo.

Ma nella realtà non esistono soltanto i licei. E io, che lavoro in un istituto comprensivo dove stiamo tutti insieme (licei, tecnici e professionali), me ne accorgo tutti i giorni, nell'intervallo o durante le ore di supplenza. E mi accorgo che l'istruzione professionale in questi ultimi dieci anni è stata prima fatta letteralmente a pezzi e poi dimenticata, nel disinteresse generale. Come se l'avessimo seppellita. Ma c'erano, lì dentro, e ci sono ancora, centinaia di colleghi e migliaia di ragazzi, spesso provenienti dalle fasce più deboli della società (tanti figli di stranieri, nessun figlio di avvocato). E questa lettera (dopo il taglio di pagina), nel suo ritratto abbastanza terrificante, è utile per ricordarcelo.


Io insegno elettrotecnica in una scuola professionale. Diciamola tutta: sono un docente di «serie B» che insegna in una scuola di «serie B» e le assicuro che questo non è vittimismo, ma una semplice constatazione. Nelle nostre scuole (almeno qui in provincia, nelle grandi città non saprei) non si iscrivono più i ragazzi che una volta ultimato il percorso dell’obbligo vogliono imparare un mestiere, ma coloro che per una ragione o per l’altra non riescono a fare nient’altro e sono obbligati a raggiungere i dieci anni di scolarità. Un tempo era diverso, lo so. 
Oggigiorno, quelli che davvero hanno «passione» per un lavoro pratico e si iscrivono a un percorso professionale sono all’incirca il 30%. Gli altri vengono da noi, le ripeto, perché «è più facile», «non c’è tanto da studiare», «sa, mio figlio non ha voglia, per cui…». E noi ci ritroviamo in classe accozzaglie di ragazzi vuoti, demotivati, disinteressati, annoiati, nervosi, violenti, problematici in tutti i sensi e non abbiamo sufficienti risorse e aiuti per gestirli. Quest’anno io ho una media di 28 ore settimanali in 13 classi diverse. Ci sono classi dove ho paura ad entrare, nonostante il mio metro e 84 e i miei 45 anni. Abbiamo gruppi di 25-30 ragazzi stipati in spazi ridottissimi, fra i quali ci sono ragazzi che non sanno fare una moltiplicazione, non distinguono un angolo da 60° da uno di 90°, non hanno mai né materiali scolastici, né la minima intenzione di utilizzare il cervello per imparare qualcosa di diverso dell’arrotolarsi una cicca: semmai si cimentano nel trovare un nuovo insulto da dedicare alla mamma o alla sorella del compagno. O al loro sport preferito: dormire. Sono vecchi, morti dentro, sembra abbiano vissuto tutto e nulla possa più sorprenderli. Lo scoraggiamento arriva dopo che hai adoperato tutti i metodi possibili per incuriosirli, per far lezioni non noiose e hai usato computer, fantasia, «cooperative learning»… insomma tutto quel che i tuoi limiti ti consentono e ottieni in cambio soltanto maleducazione e menefreghismo. Ti arrendi e ti stupisci di come descrivono i giovani gli altri. Quelli che vedi tutti i giorni sono altra cosa.

29 commenti:

  1. Eh, certo. Perché abbiamo un bel dire degli oratori, che non devono pagare l'ICI perché offrono servizi socialmente utili...però nessuno pensa alla scuola. E anche questo è un problema squisitamente politico.

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  2. Cosí drammaticamente vero...

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  3. Vero (e, secondo me, bella anche la risposta che gli è stata data sul giornale).
    Con questa postilla: mi sembra che i licei non siano destinati a qualcosa di molto diverso... A partire da quelli che per esempio si chiamano così (ma non hanno più latino, per esempio); ma soprattutto per quello che sembra sempre stia per collassare ogni giorno di più, ed è stato citato tante volte anche su questo blog (per cui ringrazio): l'educazione che si riceve in famiglia, e quella della società nel suo complesso...
    E lo dico non per catastrofismo, anzi per l'esatto contrario: condividere la preoccupazione di altri aiuta ad avere quel sano senso del proprio dovere (laddove ciascuno è)

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  4. A me, per quello che vedo nelle classi del professionale e, di contro, nei licei (anche tecnologici, cioè senza il latino), pare che comunque la situazione sia molto differente. Se nei secondi (licei etc) si soffre per la mancanza di educazione e per una generica disaffezione alla cultura (che non è poco, intendiamoci), nei primi è tutto molto peggio. A volte non si riesce nemmeno a parlare, a trovare un'intesa sui principi elementare del vivere civile e scolastico. Cioè, un degrado assolutamente incomparabile.

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  5. Ho lavorato per 40 anni nella scuola, prima come insegnante e poi come dirigente. Condivido la frustrazione del collega. Egli ha riferito che le famiglie, spesso, vedono nella scuola un ripiego. Questo è il guaio. Molte famiglie, infatti, non collaborano affatto con la scuola, anzi, di solito pretendono che assuma, nei confronti dei ragazzi un atteggiamento iperprotettivo: guai a sgridarli, guai a biasimarli con un brutto voto o una nota! E questi sono i risultati. Non meravigliamoci, poi se la società va a rotoli.

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  6. Ora lo leggo, e poi magari commento. Però una cosa la voglio dire subito: l'ultima volta sulla Stampa, a scriverci di scuola, ci ho trovato D'Avenia, che sta a me come Volo sta al Disagiato (anzi, peggissimo).
    Quindi mi sento già un po' sollevato...

    Uqbal

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  7. Fermo, allora! Non leggere! Per quale motivo credi che non abbia riportato la risposta?

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  8. Io effettivamente ho fatto il liceo classico ed è nei licei che prevalentemente insegno e ho insegnato, anche se ho pure in curriculum qualche scuola difficile. Quindi potrei parlare un po' a sproposito.

    La differenza tra chi ha alle spalle una famiglia e un mondo strutturato e chi viene a scuola perché ce lo spediscono si vede, si vede tutta.

    Però non credo che i nostri licei offrano poi tantissimo di più delle scuole tecniche.

    L'altro giorno ho linkato un post di Marco Rossi Doria che parlava soprattutto di medie in situazione borderline, eppure le sue proposte io le sentivo valide a qualsiasi livello, anche superiore e liceale.

    Se al professore della lettera smettessimo di rompere l'anima con i programmi e ci fidassimo di più del suo giudizio per quel che bisogna o non bisogna fare in classe, se i soldi che spendiamo in burocrazia inutile li spendessimo in servizi alle famiglie degli studenti e agli studenti stessi, qualcosa potrebbe cambiare, e il prof. in questione non si dovrebbe accontentare delle pacche sulle spalle di...urgh...D'Avenia.

    Ma mi sembra d'aver scritto cose che sanno anche i sassi...

    Uqbal

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  9. Il vero problema di fondo secondo me, è che bisognerebbe abbassare la soglia. Tutti quegli anni di scuola dell'obbligo sono TROPPI. Veramente troppi. Se uno a quindici anni vuole andare a fare il fruttivendolo, e lo si obbliga a stare in una stanza sovraffollata a sentir parlare di cose che non lo interessano, beh, secondo me ce la stiamo andando a cercare. Poi il discorso è ovviamente molto più complesso e ci si potrebbero scrivere dei trattati sul perché la scuola non stimola i giovani, cosa che non starò qui a fare. L'unica provocazione che voglio lanciare è che non possiamo pretendere che tutti studino fino ai 18 anni e poi lamentarci del fatto che nessuno vuole zappare la terra. Non a caso io stimo un sacco il mio compagno delle medie che appena ha superato l'età dell'obbligo è andato a scaricare le cassette in magazzino almeno tanto quanto stimo il mio professore di analisi.

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  10. @Uqbal
    scrivi cose ragionevoli. Però, insisto, la differenza che tutti i giorni tocco con mano io, tra i due mondi, è un abisso. Io non riesco a pesanre che la ricetta possa essere la medesima. D'accordo sullo snellimento della burocrazia (molto d'accrdo), d'accordo sui programmi meno vincolanti, ma poi, dal punto di vista del lavoro da fare, sono due universi molto lontani, purtroppo. sottolineo: purtroppo.

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  11. Parlo da insegnante che insegna in tecnico per benino in scuola con tecnico meno per benino e professionale. E dico che chi pensa davvero che le cose possano essere uguali al professionale e al liceo non sa quel che dice. Punto. Anche senza latino. E dico anche che chiunque di noi, me compresa e per prima, dovrebbe andare un anno a insegnare al professionale. Così poi, come ricorda (secondo me giustissisamente) Uqbal, invece di pensare al programma si pensa a educare, cercando di adattare caso per caso quel che può servire.
    D'Avenia? Mi associo. Urgh (e dire che la Stampa era rimasto l'ultimo giornale leggibile in questo paese).

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  12. @smt1033
    Più che abbassare l'obbligo scolastico, che mi parrebbe anacronistico e poco praticabile, direi che il biennio dopo le scuole medie dovrebbe forse essere pensato in modo molto più laboratoriale che altro. Credo che si possa assicurare un minimo di cultura di base (italiano storia matematica scienze) in qualche ora settimanale, lasciando molto spazio, anche pomeridiano, a esperienze di tipo lavorativo. Che magari poi, tra l'altro, cambiano pure idea.

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  13. Smt1033

    No, smt, non sono d'accordo. A quindici anni non puoi fare solo "quel che ti interessa". Non sei autonomo, non sai cosa ti serve, non conosci il mondo: sei minorenne e altri si devono occupare di te, a costo di costringerti (fino a 18 anni, per come la vedo io).

    E non per chissà quale concezione astratta della cultura, ma perché un quindicenne non qualificato oggi sul mercato del lavoro è un disoccupato sicuro. Uno che non si realizzerà in alcun modo e dipenderà dalla carità pubblica.

    Proprio ora che stiamo in crisi, il tuo prof. di analisi si può reinventare e/o andare all'estero e cmq è difficile che il suo posto qualificato si perda (anche senza tirare in ballo l'italica inamovibilità). Lo scaricatore rimane facilmente disoccupato e poi non se lo piglia nessuno, senza contare che senza un'istruzione minimamente decente questi farà male anche quel che è alla sua portata (e magari solo perché non capisce le istruzioni d'uso d'una macchina).

    Sarebbe come permettere ad un bambino impaurito dall'ago di non farsi le iniezioni dei vaccini, tirando in ballo i diritti del malato. Non ha senso.

    Uqbal

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  14. @la 'povna
    I programmi sono da tutti i punti di vista pensati sempre per i liceali, anche quando non sono per il liceo. Credo che accada perché chi li pensa è, appunto, un ex liceale, in genere.

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  15. Pov'na e Scorfano, mi spiego meglio.

    Io insegno nei licei (anzi, prevalentemente nel classico, perché il Ministero mi costringe). Ho insegnato anche italiano e storia in un ITIS/ITC privato serale.

    Quando dico che servono cose simili, non dico che anche nei professionali bisognerebbe insegnare cosa sono le stanze capfinidas o le sottigliezze dello zeugma. Dico che non serve neanche al classico.

    Poi ogni scuola, ogni classe ed ogni studente reagisce in maniera diversa, però quel che cerco è, banalmente, l'elasticità mentale e la capacità analitica, e questo credo che serva ovunque.

    La mia didattica si basa (o vorrei si basasse, ché anche io sono succube dei programmi) su un discorso del genere: "Hai letto questo brano? L'hai capito? No? Benissimo: se mi sai dire, per filo e per segno, perché non l'hai capito, io sono contentissimo".

    E nei miei sogni uno studente mi risponderebbe "Questo verso mi pare voglia dire questo, ma è in contraddizione con quest'altro. Questa strofa non la capisco perché ci sono queste parole che mi sono sconosciute, invece quest'altra mi sembra facile ma non azzecca con il contesto. Inoltre, nell'insieme il poeta mi sembra incazzato per qualcosa ma non capisco cosa".

    E invece ho sempre di fronte studenti che sono ansiosi di ripetermi a memoria quel che hanno letto sul libro, e non c'è verso: la scuola li ha tarati. Da una parte mi sembra che quel che chiedo non è impossibile (basta essere onesti e cominciare con poco), d'altra parte mi sembra di chiedere moltissimo all'intelligenza dei nostri studenti.

    Mi rendo conto che in certe classi ed in certi studenti l'afasia analitica è totale, ma non vedo, io, altre strade. E non riesco ad immaginare che ciò vada bene in classico ma non altrove.

    Poi, magari, sono ancora lontano dalla realtà (mi rendo conto di non essere propriamente un maestro di strada), ma spero di essermi spiegato.

    Uqbal

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  16. @Uqbal.
    Ti sei spiegato.
    Ma secondo me chiedi troppo. quello che auspichi tu, e cioè l'alunno che ti spiega perché non ha capito quel testo (o anche solo perché gli ha fatto schifo, se te lo spiega in modo completo e convincente) è il risultato che, nel migliore dei casi, si arriva a ottenere in quinta, e non certo con tutti. Passando, tra l'altro, attraverso la memorizzazione di quello che c'è scritto sul libro e le sottigliezze dello zeugma (non al professionale, però).
    Non è la scuola che li ha tarati, però (e sta qui secondo me il tuo ottimismo: un po' roussoviano, se mi permetti): è che memorizzare è molto più facile. E loro semplicemente fanno la cosa più facile. A meno che non decidano di non fare nemmeno quella.

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  17. (gran bel film, quello lì)

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  18. Uqbal: io sono abbastanza d'accordo con te. Per esempio non sono sicura che imparare a memoria sia davvero così più facile, loro sono convinti che sia più facile, e spesso lo sono perché a scuola li hanno abituati a questo (salvo poi, misteri, non aver insegnato più o meno a memoria la grammatica di base). Non a caso io mi trovo molto bene con tutti gli alunni che vengono da Castagnone: perché hanno una prof. di italiano alle medie che li abitua a fare quella cosa lì, e dunque quando arrivano da me non pensano come gli altri: "la professoressa 'povna è una pazza, non vuole che le ripetiamo il libro", ma sono già pronti a dire: "prof, l'altro giorno ho visto questa cosa, secondo lei si può paragonare a quello che abbiamo detto di Hermes?".
    Al professionale arrivano con un processo di rigurgito sociale (nel senso che la società, dalla famiglia in su li ha rigurgitati, se stessi compresi) che genera diffidenza, quando va bene, esponenziale. Ed è solo lì che forse non siamo d'accordo, perché il contesto di un liceo o di un tecnico bene (come l'ITC, l'ITG, per capirci) è diverso da quello di un tecnico non bene (tutte le declinazioni di ITI), che è comunque altrissima cosa da qualunque professionale, e io, che nella mia scuola sto al tecnico bene (che di suo è altra cosa dal liceo), lo vedo ogni giorno. E, banalmente, so, che nel mio CV di insegnante manca qualcosa.

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  19. Fino a una dozzina di anni fa, alle medie (dove insegno io, almeno) sceglievano la scuola professionale quesgli alunni che non erano sicuri di reggere troppi anni di studio obbligati. Alcuni, anche bravini, dicevano: per ora faccio tre anni, poi magari cinque, poi vedrò. Per loro, un Istituto tecnico si presentava già come troppo ipegnativo. Chi non voleva nemmeno affrontare l'Istituto professionale, frequentava quei famosi "brevi corsi di qualificazione" che potevano durare un anno, due, e davano la qualifica per lavori non troppo qualificati (bisticcio di parole).
    Con l'innalzamento dell'obbligo il ragionamento di molti disperati è stato: mi iscrivo a un Istituto Tecnico, spendo un sacco di soldi, non im paro (perché non è il mio mestiere, perché non è quello che voglio, ecc.)? Certo che no.
    E la domanda successiva era: qual è la scuola in assoluto più breve e meno impegnativa, meno teorica e meno libresca?
    Risposta: l'istituto professionale.
    Così, cominciarono a frequentare il professionale tutti quegli alunni che, avessero potuto farlo, sarebbero di corsa andati a fare il benzinaio o il muratore o l'apprendista elettricista. Ovviamente, senza nessuna voglila di andare a scuola, senza nessuna voglia di studiare anche ancora un po' di italiano o di storia, ecc.
    I corsi di qualificazione di uno o due anni sono spariti da tempo, e il professionale della mia zona è diventato un refugium peccatorum di tutti i disadattati, scoglionati (si può dire 'scoglionati'?), pluriripetenti, eccetera che uscivano dalla scuola media (prima o poi, escono, dalla scuola media).
    Di rimbalzo, quelli che desideravano studiare in un professionale ma che non trovavano più un ambiente favorevole (vedi la descrizione del professore della lettera) hanno scelto, gradatamente di spostarsi a un Istituto tecnico, magari senza avere le spalle abbastanza larghe per sopportare, a quattordici anni, un impegno del genere (i tecnici della mia zona sono, in genere, scuole dure e da sudarsi). Questo ha fatto sì che gli iscritti ai tecnici, gradatamente, diventassero, a loro modo, altri 'disadattati' (nel senso che erano ragazzi non adatti a quella scuola); alcuni hanno cominciato a creare problemi, e ci sono stati genitori che hanno dirottato i figli a scuole più 'tranquille' ("perché, vede, sa, al tecnico ci sono ragazzi un po' agitati"). Le scuole più tranquille diventano, a questo punto, i licei, dove arrivano persone che dovrebbero cimentarsi in un percorso di studio molto più breve dei cinque anni più università che sarebbe quello naturale.

    Tutto questo, ovviamente, nella mia zona, con un gioco di domino che ha danneggiato tutti gli ordini di scuola (anche per la stupidità, a volte, delle famiglie). sto dicendo che l'oblbigo scolastico è un errore? No, certo. Sto soltanto dicendo che, ancora una volta, la scuola è stata investita di un obbligo, ma è stata lasciata sola a gestirlo.
    Scusate, ma mi viene in mente la legge Basaglia (tutti fuori e si slavi chi può). Per la scuola è stato: tutti dentro e si salvi chi può.
    Cioè, pochi.

    Mi scuso tantissimo per la lungaggine.

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  20. Altro che lungaggine... In realtà hai raccontato perfettamente ed esattamente com'è andata, non solo dove stai tu, ma anche dove lavoro io. E hai ragione anche su questo: il problema non è l'innalzamento dell'obbligo scolastico (a cui sono sempre stato favorevole) ma il fatto che non è stato in nessun modo gestito. Si è innalzato, poi ci si è girati dall'altra parte. Che è la parte opposta a quella in cui stiamo noi.

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  21. Il discorso della Profe mi sembra realistico, per quel che vale la mia impressione.

    Sono anche molto d'accordo con l'idea del "rigurgito" e della relativa diffidenza (per non dire ostilità) che blocca tutto e crea anche molti comportamenti "devianti".

    Sono arrivato a vedere l'assurdo di studenti che reagivano male, con rabbia, all'idea di un professore che non voleva mettere due alle impreparazioni (preferisco rimandare la valutazione, se posso): non corrispondeva al modello, alla trafila cui erano abituati e questa cosa li faceva smarrire, come quei poveracci che dopo essere rimasti per anni rinchiusi da qualche parte preferiscono la gabbia alla libertà, per abitudine e paura. Studenti che vedi completamente persi se non ti metti ad urlare e sbraitare...
    In questo senso dico che la scuola ti tara. Poi, ribadisco, per quanto io sappia di essere spesso assai "assertivo", qui non voglio essere tranchant, perché conosco i miei limiti.

    Uqbal

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  22. La questione dell'obbligo è complessa. Anche io sono favorevole, ma non dimentichiamo che l'innalzamento fu fatto nel 2007 da Fioroni che aveva appena iniziato una serie di cose, e poi non potè portarle a termine perché cadde il governo (Mastella&C.). E il resto lo sappiamo.
    Come mi scrisse in un saggio l'anno scorso durante l'okkupazione un alunno (era un testo da mandare ai giornali): se ci fate venire a scuola fino a 16 anni ma non ci date un diploma diverso e più importante a che serve? Ecco. Aveva già detto tutto lui.

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  23. @Povna: se il tuo commento del primo pomeriggio era rivolto a me, forse prova a rileggere il mio post per intero... Lì non intendevo equiparare niente a nient'altro, ma notare che nessuno è esente da rischi. Poi la Profe, a mio parer, ha spiegato con chiarezza molti altri aspetti inerenti.
    Io insegno in un liceo, in un istituto dove ci sono anche professionali e tecnici. E credo che ci sia di sicuro molta differenza tra gli uni e gli altri. Una anche molto semplice: quando passo di fianco ad alcune classi dell'ITIS, e sento parecchia confusione, le bidelle mi dicono subito: "Di sicuro dentro c'è il prof x o y... Ché, con altri, non si permettono mica!". E anche questo è forse qualcosa su cui val la pena riflettere...

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  24. Monica

    Per trarne quali conclusioni?

    Uqbal

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  25. Sulle conclusioni, penso che ognuno possa dare un contributo. Perché le variabili in gioco a scuola sono davvero tante (troppe?). Anche io, partita dall'insegnamento in un liceo classico (privato), secondo le visioni di alcuni sto "scendendo la china" (complice anche la scomparsa del latino in diversi indirizzi). Ma (come mi sembra dica anche tu) nessuno studente è impossibilitato, di default, a riconoscere chi ha ancora stima per il suo lavoro, e chi non ce l'ha; chi ci prova, e chi no. Con esiti molto diversi nei licei o nei professionali, certo (ma non sarebbe forse diverso dire: tra scuole di centro città, di periferia, del sud...?).
    Le variabili sono tante, e non ho ricette confezionate (se no, non sarei qui). Però vedo che tanta differenza la fanno i singoli che compongono la scuola: i professori che non si tirano indietro, le famiglie che decidono di non demandare e basta, quegli studenti che (se non annebbiati da... tutto quel che vuoi) riescono ancora a rialzare la testa. O i presidi (quando non latitano, o non naufragano tra circolari ministeriali e carte amministrative. Da tre anni poi la mia scuola ha presidi "condivisi" tra più istituti. Anche questo qualcosa vorrà dire: forse che la tentazione di battere in ritirata è forte?
    Poi non dico che non servano riforme strutturali, o che non occorra ripensare a quel che si è fatto dell'innalzamento dell'obbligo, ecc.
    Ma ciascuno capisce quando è trattato da serie B, C, C2, e così reagisce.

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  26. ...>esperienze di tipo lavorativo. Che magari poi, tra l'altro, cambiano pure idea.

    Concordo. Circa l'abbassamento dell'obbligo però continuo a pensare che 18 anni sia troppo, a tal proposito:

    >[a 15 anni] sei minorenne e altri si devono occupare di te, a costo di costringerti (fino a 18 anni, per come la vedo io).

    No, ferma un attimo, poi non è che ci lamentiamo della passione italiana (ma non solo) per la delega delle responsabilità. Meglio che uno possa fare le proprie scelte e i propri errori il prima possibile, altrimenti non si cresce mai. Bisogna "azzoppare la capa"(sbattere la testa), altrimenti non si va da nessuna parte.
    A tal proposito l'idea dell'esperienza lavorativa mi piace: se uno fino a 15 anni ha solo studiato, mi sembra giusto che provi anche a lavorare, almeno sa cos'è che fa per lui. E leviamoci dalla testa sto mito della "cultura generale". Tanto quello che si fa a scuola nella maggioranza dei casi è nozionismo (per altro di parte, chi di voi a scuola ha mai sentito parlare di -per citarne uno- Kropotkin?), la riflessione critica è un'altra cosa, ed è quella che rende le persone indipendenti. Per farla breve, è inutile tenere la gente fino a 18 anni sui libri se i libri non possono manco sceglierseli loro.
    Nel senso, mio nonno ragiona molto meglio di molti miei coetanei e avrà si e no la terza elementare. Certo, molti coetanei di mio nonno con la terza elementare sono -se mi passate il francesismo- delle emerite teste di cazzo, ma potrei dire lo stesso per un sacco di laureati.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)