Ti guardano e non capisci cosa vogliono, di cosa hanno paura, cosa desidererebbero, cosa devi fare, cosa invece è meglio di no. Ti guardano con occhi a volte impauriti, altre volte un po' sbruffoni. Ma sono in prima, hanno quattordici anni, è normale: normale la timidezza, normale anche quel po' di spavalderia sbruffona di chi se la fa sotto appena alzi un po' la voce.
Ma tu vorresti capire, però. Che cosa volete? Di che cosa invece avete paura? Vorresti chiederglielo (a volte non resisti e glielo chiedi, infatti) e contemporaneamente sai che non ha senso chiederglielo. Non ti risponderebbero: hanno quattordici anni, non lo sanno nemmeno loro che cosa vogliono e di che cosa hanno paura. Lo sai tu, invece, molto meglio di loro. È esserci il problema: esistere, farsi notare, non farsi notare, avere un posto nel mondo, ritagliarsi uno spazio al di fuori dell'amore materno, trovare una strada nel mondo che sia la loro strada senza più bisogno che mamma e papà la decidano per loro.
È di questo che hanno paura ed è di questo che hanno voglia, contemporaneamente. Esserci, stare al mondo: e ti chiedono soltanto questo, in fondo, quando ti guardano in quel modo, un po' sbruffone, un po' spaventato. Che tu, adulto che non sei il loro genitore, tu che ti presenti davanti a loro con l'arma del giudizio in mano (impareranno che è spuntata, quest'arma, ma ci vorrà ancora qualche anno), che tu, adulto di riferimento, dica in qualche modo che loro esistono, che ci sono, che sono parte del mondo (non solo tu, adulto, dovresti dirlo, anche i loro compagni di scuola, ovviamente: forse ancora di più. Ma intanto ci sei tu, adulto, davanti a loro che parli e in questo momento conti tu.)
In fondo a questo servono tanto i voti belli quanto quelli brutti. Sono un segno del loro esistere. «Io sono bravo in latino», «Io odio il latino»: non è molto diverso, a parte la reazione della mamma. Ma il desiderio è anche paura, la stessa paura della stessa cosa che desiderano: hanno paura di farsi notare per il particolare sbagliato, di fare la figura degli «sfigati», di avere i capelli messi male o le scarpe per cui qualcuno li prenderà in giro.
E quindi la tentazione fortissima, di molti, è il contrario, il non farsi mai notare: «io non esisto», ti dicono certi sguardi; «io non esisto, non mi chiami, non mi chieda niente, nemmeno il mio parere, soprattutto il mio parere, non mi chieda dove abito e come si chiama mia sorella e quale sport mi piace; mi chieda piuttosto la prima coniugazione, indicativo futuro semplice passivo: quella l'ho studiata bene, quella gliela posso recitare a memoria senza sbagliare nulla, quella non dà problemi, perché quella non sono io. Mi lasci in pace qui nascosto», ti dicono certi sguardi; «mi lasci in pace che non voglio esserci, non voglio che gli altri sappiano che io ci sia, con tutta questa mia insicurezza».
Ma tu sai che non puoi, non devi lasciarli in pace; perché tu sai che, in realtà, vogliono esserci; ed è l'unica cosa che vogliono. Ma sai anche che non puoi farli venire troppo allo scoperto, sarebbe un rischio. Sai che hanno paura e che, per questo, direbbero qualcosa di sbagliato, di ridicolo. Sai che gli altri riderebbero forte, e loro, quelli che hanno paura, non te lo perdonerebbero mai. E allora, con cautela, ci provi ogni tanto. Cerchi un appiglio, qualcosa in comune, una passione; ma a volte nemmeno quella ti aiuta. Ci sono ragazzi che studiano tutto, perfettamente, a memoria, ma che in cinque anni non imparano a esprimere un'opinione, nemmeno una. E «mi lasci solo in pace» ti dicono i loro occhi.
Loro ti guardano spesso con quegli occhi, e tu sai che devi saper cogliere entrambe le cose: la paura e la voglia: la paura di esserci e la voglia di esserci, la voglia di cercarsi un proprio posto nel mondo e la paura di doversi proprio cercare un posto in questo mondo, così strano e difficile. Cerchi di aiutarli, ma non puoi fare molto. Devi saperlo ancora prima di cominciare. Puoi, con i gesti e le azioni, lasciare intravvedere quale sia il tuo posto nel mondo. E poi sperare che basti: che bastino le poche parole che ogni tanto fai dire loro. Che sappiano tenere insieme paura e desiderio, voglia e spavento.
Si chiama adolescenza, ti dicono. Lo sei stato anche tu, tanti anni fa: un adolescente inquieto. Non sapevi, non volevi, ma sapevi e avevi voglia e paura come loro; e ti nascondevi come potevi, anche dietro ai voti belli di latino. Ma forse è il tempo verbale, indicativo imperfetto attivo, anche questa volta, che ti tradisce. Forse non è questione di ieri o di trenta anni fa. Forse la paura e la voglia restano tali, anche dopo anni. Si impara a fare quello che loro ancora non sanno fare come si deve: a mascherarle meglio, sia la paura sia la voglia, a nasconderle in un buco che ci si porta dentro e che inghiotte molte altre cose, i piccoli successi, i fallimenti, i desideri, anche, purtroppo, l'amore (ma non tutto: l'amore, non tutto).
Forse dovresti dire questo, domani, ai tuoi alunni di prima che ti guardano con gli occhi che rivelano la paura e la voglia che invece vorrebbero nascondere: che non si cambia, che non sei cambiato, che anche tu sei come loro, che anche tu hai paura e hai voglia, insieme, come loro, che fai finta, che lo sappiano, che siamo tutti insieme nello stesso mondo strano e difficile, che viviamo con la stessa angoscia e lo stesso buco in fondo al cuore, anche quando facciamo finta che non ci sia, anche quando siamo diventati così bravi a fare finta che sappiamo far finta pure davanti agli specchi...
Dovresti dirglielo, anche se sai che non ti crederanno mai, in nessun modo.
In casa ho quattro occhi che mi guardano spauriti e desiderosi di esserci in qualche modo ( ma in quale modo?...)e che propendono verso l'una o verso l'altra emozione a seconda dei momenti, delle reazioni di noi genitori, degli eventi. Ma di tanto in tanto sembra che trovino una qualche rassicurazione, ...forse proprio in quei rari momenti in cui che si rendono conto che anche noi adulti siamo limitati (e molto!) e a volte spaventati e incerti. Chissà che non avvenga lì il contatto più autentico tra questi due mondi...
RispondiEliminabellissimo questo scritto prof, è il post di una vita
RispondiEliminaComplimenti bell'articolo, l'ho linkato sulla mia pagina, grazie
RispondiEliminaGrazie a voi. Ma tu, plus1, non esagerare... ;)
RispondiEliminaAnche a me sembra bellissimo questo tuo post. E anche io penso che i momenti più belli della mia vita - proprio anche quelli di adesso, quelli che si incidono di più dentro di me, e perciò mi fanno imparare una cosa in più - siano quelli dove mi dimentico che devo mascherare quel vuoto.
RispondiEliminaProprio l'anno scorso notavo come una mia classe prima fosse così agitata all'inizio dell'anno. Poi l'agitazione è quasi scomparsa, e anche io ho pensato che fosse successo per il sentirsi accolti dai compagni (più ancora che da i professori). (Poi quest'anno la classe ha tutt'altra fisionomia e altre problematiche... Non si finisce mai).
Ma il tuo post va più a fondo: il problema non è appena quella classe, ma il proprio posto nel mondo. Ed è vero che l'unica sicurezza in più, da testimoniargli, è l' essere stati accolti a nostra volta.
non ne sono ancora convinto... ci sono persone, poche a dire la verità, che non nascondono, che vivono la loro esperienza quasi al completo, comprese paure ed insicurezze, quelli che sanno piangere sinceramente davanti agli altri, che non provano vergogna per i sentimenti, ecco, ecco, ci sono persone che riescono ad uscire dal buco, dalle paure, dai limiti... nonostante gli altri, essere se stessi, nonostante gli altri, questo è l'obbiettivo... e quando tu sarai te stesso, sarai tu a comandare il gioco, a splendere di luce propria, ad essere ammirato come un totem sacro... con il sole alle spalle... ecco la totalità, una volta che la trovi non te ne liberi più... basta dire sì una volta ed è tua per sempre...
RispondiElimina... che anna era troppo bella per poter essere dimenticata, che stava lì, stagliata davanti al sole della sua memoria...
RispondiElimina...per sempre...
RispondiEliminaLa ricetta giusta resta quella di Monica, comunque: non si finisce mai...
RispondiEliminanon so quanti dei miei proff. ci guardassero e se ci guardavano non so se ci vedessero. O forse eravamo noi un po' ottenebrati, perchè non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere,(tra la paura e la voglia).
RispondiEliminaComunque questo è un post molto luminoso!
C'è (ed è grande) la possibilità che se tu chiedi ai miei alunni, loro ti rispondono che io di loro non penso niente e che non li vedo. E forse è anche normale in un contesto un po' alienante come quello scolastico... Spiacevole, ma difficilmente evitabile.
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