«È il potere» mi dice Pierpaolo, «è quello che fa la differenza». E io lo ascolto e provo a capire perché e come sia possibile che. E, mentre perplesso provo a capire, mi rendo conto che Pierpaolo non sta del tutto sbagliando, che c’è una palese ragione in quello che sostiene e che forse anche la parola che usa, per qualche strana strada che io non prevedevo esistesse, arriva davvero a essere quella giusta: il potere. Ma è meglio per tutti se torno indietro, nel racconto, a qualche minuto prima.
Siamo in tre, nel salotto di casa mia, è sera e ci siamo bevuti quasi una bottiglia di rum, che hanno gentilmente portato loro. Loro sono Gabriele e Pierpaolo, due ragazzi di ventidue anni, studenti di una quinta che nel 2009 ho con fatica portato all’esame di maturità. Li ho incontrati per caso qualche giorno fa, in paese, e come si fa quando ci si saluta dopo tanto tempo ho detto loro: «Venite a trovarmi una sera, così mi raccontate». E loro, pochi giorni dopo, sorprendendomi anche un po’, sono venuti portando la bottiglia di rum.
Io so per esperienza che queste serate sono quasi “lavoro” per me. Non sempre, ma spesso: perché devo fare domande, dare consigli, interessarmi. Resto comunque il loro prof, anche a distanza di anni. Non significa che non possa essere piacevole o divertente: lo è, sia piacevole che divertente, ma comunque c’è sempre quel po’ di tensione, che rende il piacere una forma leggera di fatica. E quindi, quando suonano alla porta, sono pronto anche a quel po’ di fatica, tutto qui.
Ma loro entrano, passano i minuti e niente: nessuna fatica.
Ascolto parlare questi due ragazzi che a loro volta mi hanno ascoltato parlare per tre anni in un’aula scolastica e mi pare di conoscerli bene, mi pare che mi conoscano bene, mi sento a mio agio, scherzo e non faccio fatica, ascolto e non faccio fatica, racconto di me e non sento nessuna fatica. Quando guardo l’orologio, mi rendo conto che sono passate due ore e non l’avevo mai guardato prima: e mi sorprendo, non me lo aspettavo, penso che due ore sono tante per non accorgersi del tempo che passa.
E quindi, dopo una lieve esitazione, lo dico a tutti e due: «Vi trovo molto cambiati, dopo due anni. È bello stare con voi». Loro forse non capiscono subito; mi chiedono in che senso. Io dico che una volta era molto più faticoso parlare insieme, che sentivo resistenze e reticenze, che c’era una strana tensione che non si cancellava mai, nemmeno se la mattina di scuola era finita e loro comunque scherzavano con me fuori dai cancelli dell’istituto. Ed è a quel punto che Pierpaolo, mentre Gabriele annuisce e conferma, mi dice: «È il potere. È quello che fa la differenza».
E non usa la parola “ruolo” o “mestiere”, non dice “l’età”, non pensa “siamo cresciuti”: no, dice proprio: «il potere». E intende naturalmente il mio potere, quello della persona che comunque interroga, che assegna i voti, che infligge i debiti scolastici, che può promuovere o bocciare. E io, che è sul mio netto rifiuto del potere che ho costruito una specie di identità personale, devo rimanere zitto e devo anche riconoscere che è vero, che hanno ragione, che è quello.
C’è un potere nell’entrare in classe, spiegare, scherzare, essere attento e comprensivo più che si può, e poi interrogare. C’è un potere che rende le parole diverse, le conversazioni diverse, le persone, anche quelle giovani, molto diverse da quello che sono o potrebbero essere. È una brutta cosa, il potere: l’ho sempre pensato e lo penso anche oggi, dopo che loro sono andati via all’una di notte e io mi sono svegliato con il mal di testa per il troppo rum. È una brutta cosa: e rende brutto anche il mio mestiere, qualche volta. Non sempre, ovviamente, ma qualche volta sì. Non accorgermene è solo peggio: perché è potere lo stesso, ma anche inconsapevole.
E allora? E allora niente, in realtà. Il potere è in fondo dovunque, con la sua sottile ombra di prevaricazione e di prepotenza. Sarei stato troppo ingenuo a pensare che non ci fosse nel mio mestiere: è in tutti i mestieri e in tutti i rapporti di lavoro, per definizione; ma è anche nell’amicizia, in tante forme; e poi arriva perfino a essere dentro l’amore, anche dentro l’amore più sincero. È una cosa che abbiamo, che usiamo, che in parte ci coltiviamo. Rifiutarlo per principio, scagliarlo dalle mani, come diceva qualcuno in un facile verso di una facile canzone, è solo un’illusione ridicola: non me lo devo dimenticare.
Poi, vorrei dire a Gabriele e a Pierpaolo, io continuo ostinato a pensare che inseguire il potere e godere del proprio potere sia una perfetta ricetta per l’infelicità, questo sì: ma illudersi che non sia lui a inseguire noi e a tenderci tranelli, be’, questo non si può proprio fare, sarebbe da stupidi.
Vorrei dirla loro con chiarezza, questa cosa che penso. Ma, nel frattempo, il discorso serale è anche cambiato: stiamo parlando di basket e di spirito di squadra, loro mi spiegano che cosa sia il pick ’n’ roll (non l’avevo mai capito bene), io mi verso un altro goccio di rum, il tempo continua a passare rapido e non c’è fatica che io senta, sto bene, sono felice di averli conosciuti, che siano stati i miei alunni, che a volte non ci siamo capiti ma che comunque ora siano qui a parlare nel salotto di casa mia, a volte accade che gli incontri con le persone siano incontri bellissimi e non conosco niente di meglio al mondo di quando questo accade. E anche questo fa la differenza, e non me lo voglio dimenticare.
[MODE ZEN ON]
RispondiEliminaSapere non usare il proprio potere è il potere più grande.
[NODE ZEN OFF]
i due hanno ragione. Ma non credo affatto che ci fosse cattiveria in loro né prima né adesso (a meno che tu pensi che abbiano voluto farti ubriacare apposta): era la semplice constatazione di un fatto. Ed essersene accorti, forse confusamente a 19 anni ma certo esplicitamente a 21, non è affatto banale.
Beh, non dovevano essere male, questi studenti.
RispondiEliminaLa relazione docente-alunno non è paritaria: io in classe devo essere obbedito.
Meglio saperlo che illudersi di praticare una democrazia che non esiste. Il rischio poi è di sbroccare tutto insieme.
Il discrimine io credo sia un altro: a scuola il potere lo sto usando per i miei studenti (come il medico che dà medicine amare) o me ne sto inebriando per celebrare me stesso?
Uno scrittore danese Hans Scherfig ha scritto un bellissimo romanzo scolastico (in it. La Primavera scomparsa) in cui il prof. di Latino si considera l'ultimo dei Cesari, il padrone della classe e il sole intorno al quale essa deve girare.
Lo ammazzano con un dolce avvelenato nel primo capitolo, ma da quella classe verranno cmq fuori pessime persone (oltre che un assassino).
@.mau.
RispondiEliminaA me il tuo MODE ZEN ON è piaciuto molto. Forse anche troppo.
I due hanno ragione sì. Per questo mi sono un po' perplesso.
@Rocchi
RispondiEliminaCerto che è come dici tu. Edè anche come dice Schefig, infatti. A me aveva fatto la stessa impressione il film di Haneke, Il nastro bianco.
Son d'accordo con Stefano (e anche con te, quando dici che la deriva del potere è sempre in agguato). Però, appunto, direi (con Stefano): il potere è esattamente come la libertà: libertà "di far cosa"?, potere "per far cosa"? Per questo a me piace chiamare questo potere "responsabilità". E poi... ho in mente una bella citazione della scuola raccontata da un ragazzo, una volta divenuto scrittore famoso: la cerco, e con calma te la trascrivo.
RispondiEliminaComunque, la celerità con cui sono venuti da te vuol dire che il tuo potere ha costruito qualcosa che sta (nonostante qualsiasi considerazione). Insomma, non solo non è un ostacolo, ma può costruire!
Sì, hai ragione: il termine "responsabilità" è più pertinente. però loro lo sentono come un "potere" e anche questa percezione è molto pertinente: dice tante cose, insomma.
RispondiElimina(Non ho mica capito chi è Stefano, però, perdonami.)
Non sono d'accordo, ma il mio pensiero è ancora verde.
RispondiEliminaForse è solo una questione di termini.
Ci penso ancora un po'.
Non so se ho ben capito su cosa non sei d'accordo...
RispondiEliminaNon sono d'accordo sul fatto che la differenza la faccia "il potere".
RispondiEliminaL'intervento, come sempre, mi piace. Ci devo pensare più del solito, però :P
La differenza la fa il potere nel senso che un rapporto ne è condizionato. Pierpaolo (Gabrile molto meno, va detto) si sentiva condizionato da quello che percepiva come mio potere su di lui. La differenza, l'altra sera, consisteva nel fatto che lui non percepisse più questo "potere" da parte mia.
RispondiEliminaIntendiamoci, a me scoccia non poco che sia così. Non vorrei che fosse così e faccio anche di tutto perché lo sia il meno possibile. Ma evidentemente non ci riesco del tutto. E i voti li devo dare e a volta sono anche brutti voti.
Il potere, il tuo potere in particolar modo, porta dietro con se anche la responsabilità (dare voti, anche brutti voti). E' per questo che il potere è anche un onere. Ti faccio una domanda provocatoria: non è che quello che ti spaventa è in realtà la responsabilità?
RispondiElimina(Io mi ci ritrovo un sacco in quello che dici. Anch'io rifuggo il potere, e mi preoccupo di non approfittarmene nei confronti degli studenti. Credo sia anche perché in realtà rifuggo le scocciature, e mi fa paura il pensiero che un giorno mi possa innamorare del potere e fregarmene della responsabilità. Con gli anni ho imparato ad accettarlo, ed adesso mi da meno fastidio di una volta. Spero di non essere peggiorato troppo nel frattempo)
La neppure tanto sottile differenza tra "potere" (che ha soltanto accezione negativa -e ce l' ha a prescindere-) e "rispetto delle regole" -che in un qualsiasi consorzio umano può essere discussa e concordata- potrebbe aiutare ad uscire dall' empasse.
RispondiEliminaA ben guardare, gli studenti stessi, più orientati oggi verso la qualificazione dei meriti, non saprebbero che farsene dei professori sessantottini che elargivano i "sei politici" e si fumavano le canne in classe con lo spirito del "tuttiugualiallegramente": si tratterebbe solo di sviscerare il concetto, magari andando a considerare ciò che la Storia successiva ha visto accadere...
@Knulp
RispondiEliminaRispondo alla tua domanda: non credo. Benché sia sempre difficile giudicare e valutare i propri timori, non credo che sia quello. C'è una cosa che mi disturba, non una cosa che mi spaventa. Mi disturba il fatto che mi venga attribuito un "potere", quando io non penso di averlo. Mi disturba anche (ed è peggio) pensare di non averlo quando è ovvio che ce l'ho. E mi disturba dimenticarmi (non so quanto coscientemente) di averlo e che i miei rapporti con loro siano viziati da questa loro percezione del mio potere sulle loro vite. Credo che sia questo il punto.
La responsabilità invece mi piace e non mi fa molta paura. So che è il mio mestiere, me lo sono scelto, me lo tengo ancora volentieri.
@sirio59
RispondiEliminaSì, quel che dici tu è vero e giustissimo. Ma è molto difficile da fare all'atto pratico, nella quotidianità. I ragazzi sono giovani: vivono come sopruso (a volte) anche solo l'evidenza del limite di un qualche lavoro. E poi ci sono gli errori: che tutti fanno (quando fanno qualcosa) e che costano molto cari, anche in termine di condivsione del potere, appunto.
Ecco la citazione che ti dicevo prima; secondo me, quando parla di "superiorità", si allude qui a un altro aspetto del "potere" contenuto nel tuo racconto:
RispondiElimina"La diversità degli insegnanti (…) è la prima forma di molteplicità di cui si prende coscienza nella vita. Il fatto che essi ci stiano davanti così a lungo, esposti in tutte le loro reazioni, osservati ininterrottamente per ore e ore, oggetto dell’unico vero interesse della classe, impossibilitati a muoversi e dunque presenti in essa sempre per lo stesso tempo, esattamente delimitato; la loro superiorità di cui non si vuole prendere atto una volta per tutte e che rende acuto, critico e maligno lo sguardo di chi li osserva; la necessità di accostarsi ad essi senza rendersi le cose troppo difficili, dato che non ci si è ancora votati al lavoro in maniera esclusiva; e poi il segreto in cui rimane avvolto il resto della loro vita, in tutto il tempo durante il quale non stanno recitando la loro parte davanti a noi; e ancora, il loro susseguirsi uno dopo l’altro, nello stesso luogo, nello stesso ruolo, con le stesse intenzioni, esposti con tanta evidenza al confronto – come tutto questo agisce e si manifesta, è un’altra specie di scuola, del tutto diversa da quella dell’apprendimento, una scuola che insegna la molteplicità della natura umana, e purché la si prenda sul serio anche solo in parte, è questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo.” (Elias Canetti, la lingua salvata)
[Su Stefano, chiedo venia: nella mia frettolosità, intendevo dire Francesco Rocchi... :-)
Bellissima citazione (Canetti è uno scrittore che ho sempre amato molto...); sto quasi pensando di usarla come traccia da assegnare ai miei studenti, tra qualche giorno. Grazie.
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