«Eppure, voglio crederlo, sono sicuro di crederlo, ci sarà qualcosa che, fatta l’inevitabile tara delle stanchezze, della burocrazia, delle scelte miopi del ministro e dei suoi piccoli servi, fatta la tara anche dei limiti umani tuoi e di chi ti circonda, ci sarà qualcosa che ti rende orgoglioso e fiero del lavoro che fai a scuola, di come lo fai, con i tuoi studenti, no? Io sono sicuro che c’è qualcosa di importante…»
Io lo guardo quasi negli occhi, l’amico di una vita, prima vicino di casa e di giochi, poi compagno di asilo, di scuole elementari e medie, compagno di viaggi adolescenziali e di trasferimento a Milano, l’amico con il quale troppi passi sono stati paralleli per poter essere ora cinico e beffardo o inutilmente sentimentale. Lo guardo e so che una risposta autentica gli è dovuta, perché quarant’anni di passato comune rendono la sua una domanda vera, posta senza retorica, fatta per capire e ricordarsi.
E allora «Non ti stupire» gli dico, «non ti stupire di quello che sto per dirti» , e gli sorrido un po’, davanti al piatto che abbiamo appena finito di mangiare, con un bicchiere in mano. «La cosa che più mi rende fiero di come faccio il mio lavoro, quando arrivo alla fine di una quinta, dopo anni di lezioni e di letteratura spiegata in classe, fatta oggetto di studio e di domande e di valutazione, resa terreno di incontro ma a volte anche di scontro, la cosa che mi rende più fiero, non ti stupire, è contare i ragazzi che vogliono iscriversi a Lettere: e vedere che sono pochi, pochissimi, spesso nessuno. Molti di meno di quelli delle altre quinte. Questo, non te lo nascondo, mi dà molto orgoglio.»
Riccardo sorride e si stupisce, nonostante i miei avvertimenti ripetuti. E io so che anche una spiegazione è dovuta, a questo punto;
e allora gli dico: «Vedi, leggevo in questi giorni, sul blog di uno studioso di letteratura medievale che io apprezzo tantissimo, un post che sostiene l'urgente necessità di istituire il numero chiuso per la facoltà di Lettere: limitare gli iscritti, selezionarli in qualche modo, ridurre il numero di chi vuole studiare la letteratura. Perché l’Italia non ha bisogno di laureati in Lettere, perché non troveranno lavoro, perché molti si iscrivono pensando solo che è una facoltà “più facile”, oppure perché hanno letto una volta un libro di Coelho e hanno pensato di averci “la passione” per i libri e che quella avrebbe fatto di loro degli scrittori o dei giornalisti di successo…»
«E c’è qualcosa di male?»
«No, non c’è niente di male. Ma non ne abbiamo bisogno. Abbiamo invece bisogno di studiosi validi e seri; e poi di una classe di insegnanti di materie umanistiche molto più preparata di quella attuale, che sappia far passare un po’ di cultura letteraria a coloro che non se ne occuperanno mai (e a cui invece sarà molto utile). E per questo ci vorrebbe il numero chiuso (o bocciare i nove decimi degli iscritti, come dice il docente di cui sopra, cosa che non è possibile), per formare queste due categorie di persone, gli studiosi e gli insegnanti, nient’altro. Altrimenti si portano alla laurea in Lettere persone che non hanno mai letto (nemmeno una volta) le grandi opere della nostra tradizione, i classici come Tasso e Ariosto e Petrarca, perché non ne avevano nessuna voglia in realtà e perché non è affatto richiesto dai piani di studi, persone che poi finiscono a fare chissà cosa, e speriamo non a insegnare opere che neppure conoscono. E di questi non abbiamo bisogno, Riccardo.»
«E la tua fierezza?»
«La mia fierezza viene dal fatto che, io credo, io voglio credere, faccio quel test di ingresso senza che mi sia richiesto: e lo faccio senza bocciare o escludere nessuno, in realtà. Lo faccio semplicemente rompendo le palle (questa è l’espressione giusta, non ce ne sono altre) sulla letteratura come nessun altro insegnante che io conosca: insistendo sui dettagli, sulla necessità delle conoscenze minuziose, facendo pure la critica delle varianti, non lasciando passare mai un dettaglio che sia uno, pretendendo la parafrasi perfetta di ogni verso di Dante, sempre, non dando pace a nessuno… Insomma, facendo capire a loro che non si studia letteratura solo perché “ci hai la passione” e ti piace scrivere e non sei bravo in matematica: e che la passione senza fatica (senza la voglia di fare tanta fatica) è un orpello di cui nessuno sa cosa fare. Ed è inutile, alla fine dei conti. Mentre gli studi letterari sono roba seria e faticosa, che richiede disciplina e sacrificio. E io rompo loro talmente le palle che alla fine solo pochissimi si iscrivono a Lettere: e, in genere (con qualche eccezione, purtroppo), sono quelli molto motivati, che aspirano davvero a fare ricerca o a insegnare letteratura in futuro; quelli che la passione ce l’hanno a prescindere, che non ne possono fare a meno. Non quelli che scrivono poesie la sera perché non c’era nessuno con cui andare al cinema a vedere Avatar. Tutto qui. Ecco, di questo sono fiero, puoi giurarci.»
«Ma sei sicuro?» Ed è uno sguardo a metà tra il benevolo e canzonatorio, quello che vedo nei suoi occhi: «Sei sicuro che sia per questo motivo che non si iscrivono a Lettere? E se invece fosse perché non sei capace ad appassionarli?»
Io rido: «Può darsi, Riccardo» dico prendendo in mano un bicchiere, «può darsi che sia così, ma non credo… Altri elementi mi fanno pensare che non sia così… Però, anche se fosse, pazienza: sarei orgoglioso della cosa sbagliata, ma pazienza. Io non voglio che si appassionino un po’, tutto qui: e un insegnante, se tu non ci metti del tuo, può solo farti appassionare un po’. Io voglio che, per quelli che ne faranno una scelta di vita, la letteratura diventi o una malattia o niente. Non c’è altro modo in cui io riesca a concepire una scelta così folle e senza senso come quella di studiare i poemi cavallereschi di Tasso e Ariosto nel 2011: una patologia da cui non si può guarire. Se si tratta solo di un po’ di febbre… be’, quella passerà alla svelta. Faranno altri mestieri, guadagneranno più soldi, leggeranno qualche libro ogni tanto. Perché, te lo dico come ultima cosa, la letteratura è un mestiere piuttosto privo di senso: mentre è un hobby meraviglioso. E prima di scambiare un hobby così bello con un mestiere un po’ deludente, be’, insomma vale la pena di pensarci sul serio».
«Non lo so» mi dice lui, «io a volte rimpiango di non aver studiato certe cose. Non so mica se mi convinci… E comunque ne avrai anche altri di motivi, per sentirti fiero, no?»
«Quello che ti ho detto non ti basta?»
«Mica tanto.»
«Ecco infatti, lo sapevo: nemmeno a me.»
E allora Riccardo ride e io so che non c’è più bisogno che dica niente. E che forse non c’è nemmeno il bisogno di sentirsi fieri di qualcosa, in certe serate così lontane dal lavoro che facciamo. Ci versiamo il vino, piuttosto: e lì dentro ci vediamo tutto, il passato, il futuro, le passioni, quelle solo superficiali e quelle che invece ci hanno trascinato fin qui, questa sera. Ci beviamo il vino e, per qualche minuto, finalmente, non abbiamo bisogno di essere fieri di niente.
Non credo che i tuoi studenti non si iscrivano a lettere perché giunti all'esasperazione o perché distrutti dalle letture "diverse". Forse non si iscrivono a lettere perché ciò che dici nel post, a loro lo hai già fatto in qualche modo capire. Forse hanno imparato che è possibile amare la letteratura anche seduti su un banco della facoltà di economia o di medicina. Forse hanno capito che non era il loro destino, in quanto ci sarebbe stato qualcuno molto più adatto per seguire quella vita.
RispondiEliminaM.
Se anche fosse come dici tu (cosa che non ritengo impossibile), sarei comunque contento. "Fiero" è una parola grossa; contento è la parola perfetta.
RispondiEliminaSecondo me l ragioni sono prettamente materiali , fare lettere oggi significa una vita da precario a 1200 euro al mese , in una società in cui il successo si basa sulla lunghezza del conto bancario e dove addirittura i ministri della repubblica consigliano facoltà che diano immediato sbocco lavorativo e logico che i ragazzi oggi si facciano 2 conti anche contando che lettere (penso) sia pure poco spendibile all'estero.
RispondiEliminaN.s
@N.s
RispondiEliminaIn realtà le facoltà di Lettere sono strapiene, questo è il punto (lo dice bene Claudio Giunta nel suo blog, che però oggi è irraggiungibile). E immagino non ti sia sfuggito il particolare che "nelle altre quinte" la percentuale di chi si iscrive a Lettere è molto maggiore che nelle mie. Certi calcoli (quelli che fai tu, che pure sono esatti) i ragazzi non li fanno: o per miopia, o più frequentemente perché non gli importa.
bravo, come sempre.
RispondiEliminaGrazie, gentilissima Tinni.
RispondiEliminaTra l'altro la mia esperienza mi dice che Lettere e Filosofia è strapiena, ma soprattutto di studenti che provengono da scuole diverse dal classico, dove bene o male un'idea di cosa sia la filologia, la critica letteraria ecc te la fai.
RispondiEliminaA Lettere oggi la gente si lamenta e si stupisce che ci sia il latino; pretende di fare esami tipo "storia della lingua italiana" senza sapere il latino. È pieno di gente che non ha idea e soprattutto il sistema nel suo complesso accoglie e coccola queste persone.
Io non ho mai sentito nessuno lamentarsi che a Ingegneria ci sia matematica, o a Medicina chimica. E nessun professore in quelle facoltà si sognerebbe mai di fare corsie preferenziali per chi - per esempio - viene dal classico e non è esperto in quelle materie.
E in più imbrogliano i ragazzi, facendo prospettar loro possibilità lavorative che non esistono nel mondo reale. Ha ragione lo scorfano, se davvero vuoi fare Lettere devi anche volere fare l'insegnante o il ricertore. Ma questo non te lo dicono, naturalmente, perché hanno bisogno degli iscritti, di fare volume, di fondi eccetera.
Alle spalle di chi poi si trova a vivere con stipendi ridicoli.
Di quello che scrivi tu nel tuo ultimo paragrafo dice bene Claudio Giunta, nel suo blog. Sulla scuola di provenienza, hai parzialmente ragione: perché è ovvio che chi viene da un classico ha meno strada da fare; ma spesso è la motivazione autentica che fa la differenza. Se hai voglia di studiare, impari il latino anche a 20 anni. Se ne hai voglia, però: qui sta il punto.
RispondiEliminaDammi un parere da addetto ai lavori: non credi sia data troppa poca rilevanza alla letteratura del 900 e a quella contemporanea? O le cose sono cambiate da quando eravamo studenti noi alle superiori, quando si arrivava sempre di corsa a Pavese e Vittorini e a malapena si leggeva qualcosa integralmente? Vogilo dire: i ragazzi sentono più vicina la letteratura in quanto storia di una civiltà o in quanto espressione del presente? Quanto questo incide sulla scelta della facoltà? Eh, quante domande... p.s. certo che parlare di queste cose a cena con uno che al massimo avrà fatto le industriali... :-)
RispondiEliminaNOn credo che incida, onestamente. Comunque si fa molta fatica ad arrivare agli anni Settanta, ancora oggi: diciamo che il limite a cui arrivo io sono Sciascia e Pasolini, negli anni buoni. Dopo, vale a dire per gli ultimi trent'anni, il nulla. Però è vero che dal punto di vista letterario siamo molto prossimi al nulla, a mio parere.
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