A volte, succede, ci sono persone con cui si creano delle distanze. Senza che ci sia un vero motivo, a volte: si passa da una quasi amicizia a una quasi avversione, lentamente, mese dopo mese; ci si incontra e non ci si parla più come prima, passano le stagioni e ci si saluta di corsa, un «ciao» rapido che ha solo voglia di dissolversi al più presto. E non c’è un motivo serio: se non che si sono prese delle distanze, quasi incomprensibili. Finchè un giorno, dopo anni, ci sorprendiamo a cambiare strada, quando incontriamo quella persona, per evitare anche quel rapido «ciao»: e quel giorno scopriamo che la distanza si è consumata, definitivamente.
Ma la vita non fa sconti, a nessuno. E quindi, magari dopo anni, càpita qualcosa, qualsiasi cosa: un matrimonio, un lutto, una sofferenza, un evento imponderabile, magari terribile, che potrebbe cambiare tutto. Che fa venire voglia di dire forte: «Ma che cazzo me ne frega delle distanze… Non c’è nessun motivo per cui mi debba sentire così lontano da te. Ti ho fatto qualcosa? No. Tu hai fatto qualcosa a me? No. E allora, su, basta, lasciati abbracciare, che non c’è motivo per tutto questo essere distanti…»
Ma non è vero, naturalmente. Le distanze ci sono, e punto. Non c’è nemmeno da chiedere scusa, perché non ci sono ragioni di cui scusarsi, che non siano le distanze stesse. E quello che si vorrebbe dire, alla fine, non lo si dice. E si resta impietriti, a sapere che non si torna indietro, che non c’è spazio per un ritorno. E io le ho chiamate distanze, ma forse è solo perché ho paura, perché invece hanno un altro nome queste «distanze»: si chiamano solitudini. Le nostre solitudini. A cui non sappiamo di esserci crudelmente abituati.
complimenti, bel post. molto vero.
RispondiEliminaTi ringrazio molto. Ho esitato a pubblicarlo.
RispondiEliminaCiao Prof. Sì, a volte è proprio come dici tu. Anche perché, per abbattere quelle distanze, basterebbe la semplicità di arrendersi a considerazioni come quelle che hai fatto tu. Però, né la semplicità né l'arresa sono facili... A volte allora bisogna superarle d'impeto. O sperare che quelle circostanze fortuite per un abbraccio si profilino nitide all'orizzonte (e non non giriamo la faccia).
RispondiEliminaCiao, Monica. Girare la faccia è il segno della solitudine. Che poi ho declinato al plurale, apposta, perché mi pare quasi un paradosso.
RispondiEliminaE' una considerazione amara, certo, ma io credo che, sostanzialmente, noi siamo tutti eroicamente votati alla solitudine e soprattutto alla più dolorosa, quella interiore.
RispondiEliminaE' perché -a me pare- noi, disperatamente, desideriamo.
Desideriamo di riscontrare affinità, e quanto più ne riscontriamo l' assenza, tanto più ci allontiamo nel tentativo di conservarne viva, almeno in noi, l' idea di purezza.
Od almeno, è questo che io, personalmente, vorrei scambiare con un amico. Che importanza può avere perdere contatti che non avevano che una flebile, superficiale, voce?
D' altro canto l' hai dichiarato: "Le distanze ci sono. E punto".
Anch' io, in troppi casi, ho dovuto constatarlo. Ma non vedo colpa né attitudine ad una forma di solipsismo: solo, semmai, l' onestà di sancire l' esistenza di un vuoto che comunque c' era, oggettivamente ed a prescindere dalla volontà, tra diverse, e talvolta inconciliabili,indoli.
Davvero importante, a me pare, lasciare comunque aperti gli usci dell' anima, domani...
Non so. Certi contatti, è vero, sono solo flebile voce. A volte, però, si fa sentire un urlo più forte, e più cattivo, che è quello della realtà: e quelle volte si vorrebbe che un contatto ci fosse, anche superficiale, anche flebile. Ma è proprio in quel momento che, punto, le distanze ci sono e dolgono.
RispondiEliminaLe distanze che ti sei presa, eppoi ci rimani male se le amiche organizzano gite fuori porta e non ti invitano: brava, ben fatto. Tanto non ho niente da dire, niente da condividere, nessu "hei lo sai che".
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