giovedì 21 aprile 2011

Come bestie

di Sempre un po' a disagio

Alla famiglia Bashir, che abita nella palazzina di fronte alla mia, è capitato qualcosa. L’abbiamo capito tutti (e per tutti intendo noi che abitiamo in questa via) e non in troppo tempo. La famiglia Bashir è indiana ed è composta da mamma, papà, un bambino di circa dieci anni e da una bambina di circa cinque anni. Li ho sempre visti nel cortile, al supermercato, per le strade del paese, in posta e a dire il vero non ci siamo mai scambiati una sola parola o un cenno di capo. Siamo corpi che si spostano e che si osservano da un balcone o da una finestra, niente di più. Però è chiaro che papà Bashir ha trovato un lavoro o, diciamo, un lavoro come si deve. Lo si capisce dal fatto che il loro posto macchina ora non è più vuoto, ma riempito da un’utilitaria usata ma in buonissime condizioni. Ma lo si capisce anche dal fatto che ogni sabato pomeriggio dal bagagliaio della loro utilitaria escono tre o quattro borse Esselunga, che ora i due bambini vestono meglio di prima, che in cortile c’è un pallone bellissimo e che a calciare questo pallone ora sono quelle scarpette che ad ogni movimento del piede accendono delle lucine rosse.

Papà Bashir ha trovato lavoro come trasportatore di damigiane, di lattine e casse d’acqua. Circa un mese fa l’ho visto entrare nella via con il suo lungo camion mentre i figli e la madre lo attendevano a bocca aperta e un poco impressionati. Credetemi, vi assicuro che in quel momento tutti e quattro si sentivano diversi, come avessero evitato una strana linea d’ombra, come se finalmente anche loro potessero essere collocati in una fascia di reddito dignitosa (o semplicemente in una fascia di reddito). “Bene”, ho esclamato nella mia testa. E mi sono pure detto che di loro non conosco nulla ma che sono contento di questa novità, della macchina, delle scarpette con le lucine rosse e di tutto il resto. L’integrazione è tornare a casa con quattro borse Esselunga? Sì, è anche questo, per me. 


Papà Bashir, come dicevo, entra nella via con il suo lungo camion pieno di bottiglie o damigiane. Poi il camion lo lascia davanti a casa sua, un po’ in mezzo alla strada (davvero troppo stretta per lasciare un camion), e in piena curva (dove, appunto, si trova casa sua). Un’altra macchina, quando entra nella via, fatica a passare ed è costretta quindi a fare un paio di manovre per andare oltre il camion. Sta di fatto che due settimane fa qualcuno deve averglielo fatto notare, a papà Bashir. Così lui ha provato a mettere il camion nel parcheggio che sta un poco più avanti. Ma il camion è lungo e anche in quel parcheggio intralcia il passaggio delle macchine che arrivano dalla mia palazzina e, insomma, il camion è finito ancora sulla curva e in mezzo alla strada. Il camion dà parecchio fastidio, me ne rendo conto pure io. Infatti anch’io, porco di un cane, devo fare un paio di manovre per entrare nella via e tornarmene a casa. Alle dieci di sera, dopo sette ore di centro commerciale, l’ultima cosa che voglio fare prima di tornare a casa mia è fare un paio di manovre per colpa di un camion parcheggiato sulla curva. Tralascio il fatto che il camion riparte alle cinque del mattino facendo un casino infernale. Tralascio, che è meglio.

La scorsa settimana, parecchio incazzato perchè lo stipendio faticava ad arrivare sul mio conto corrente, entrando nella mia via ho picchiato lo specchietto della macchina contro questo cazzo di camion. Nulla di grave, solo un live tocco, però “porca di una puttana, il camion potrebbe pure spostarlo, cazzo” E allora mi sono messo a fare le consuete due o tre manovre, in preda alla stanchezza e alla povertà, e con la coda dell’occhio ho visto nel buio e nel cortile dei Bashir le lucine delle scarpette del bambino, che mi guardava, e io, stanco di quelle manovre, ho pensato con rabbia “che cazzo hai da guardare indiano di merda!”. E devo averlo pensato così forte che lui ha smesso di guardarmi ed è rientrato in casa, lasciando nel mezzo del cortile la palla.

Io invece ho parcheggiato la macchina, sono entrato di corsa in casa e la prima cosa che ho fatto è stato di controllare, via internet, lo stato del mio conto corrente, che diceva che il mio stipendio era arrivato. “Olè”, ho urlato sentendomi ancora ricco. E solo in quel momento, anzi, solo un secondo dopo aver letto la cifra 1150 €, mi sono reso conto di tutto. Di quanto ci vuole poco per diventare come bestie schifose e affamate.

13 commenti:

  1. Questo post merita di essere letto nelle scuole. Diventera' una traccia per un compito di italiano, intanto.

    (E mi piace anche l'opus sectile, non che c'entri niente)

    RispondiElimina
  2. Mi odieranno in parecchi (e ricorderanno solo le volgarità, temo).

    RispondiElimina
  3. No, scusa, denigravo me e non certo i tuoi alunni.

    RispondiElimina
  4. si si si bellissimo come traccia, bravo Francesco Rocchi!!!!
    Sempre un po' a disagio ultimamente sta raggiungendo vette di poesia inaudite (sarà il senso di precarietà che gli conferisce la sua bizzarra connessione internet?)
    p.s. posso pubblicizzarlo su facebook, dove vivo con la mia reale e non tinnica identità??

    RispondiElimina
  5. Sono il più grande poeta morente del mio quartiere, questo è fuori di dubbio :)

    A parte gli scherzi, ti ringrazio e di questo post fanne quello che vuoi. Per me è un onore.

    RispondiElimina
  6. Adesso che sei tornato ricco, pero', promettimi che non ti compri le scarpine con le lucette rosse, dai.

    RispondiElimina
  7. "L’integrazione è tornare a casa con quattro borse Esselunga?"
    Sì.

    RispondiElimina
  8. Bellissimo. E anche molto ma molto vero.

    RispondiElimina
  9. Leggo solo ora ma mi accodo ai complimenti: bravo. Dritto nel segno.

    RispondiElimina

(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)