Quello che accade in libreria spesso ha dell’incredibile. Io di questa straordinarietà dei fatti me ne accorgevo i primi due anni di mestiere, quando cominciai seriamente ad avere, con molta ingenuità nelle tasche, a che fare con la gente (che sono i clienti). Poi, passati più o meno i due anni, lo stupore e la sorpresa sono andati diminuendo e alle strane richieste dei clienti mi ci sono abituato, come molto probabilmente un insegnante si abitua a certi tic comportamentali dei suoi alunni o un come un medico può abituarsi alle nevrosi dei propri pazienti. Ci si abitua, insomma. Ci si anestetizza per mestiere. Parecchi mesi fa mio fratello è venuto a trovarmi in negozio e dopo aver sentito un cliente rivolgersi a me in modo per nulla urbano (senza introdurre la richiesta con un saluto o una parola di cortesia, utilizzando un paio di volte gli imperativi “prendi”, “porta”, "fai" e utilizzando le mani per dirigere i miei movimenti), ecco, vedendo questo mio fratello è rimasto a bocca aperta e mi ha detto: “Ma a quello non gli dici niente?”. “A chi?”, gli ho risposto e lui, allora, mi ha descritto la scena come io ho fatto con voi ora. Non mi ero accorto della brutalità di quel cliente. “Mi sono abituato”, ho spiegato in fine a mio fratello. Mi sono abituato perché ci si abitua a tutto. Anche alla miseria, come diceva Raymond Carver in una poesia che, chiedo scusa, non trovo più e non riesco a segnalarvi.
Da quel momento, però, ho raddrizzato un pochino la schiena e sono stato più attento a non farmi assalire degli eventi quotidiani, quelli che capitano così tante volte che poi neppure li vedi più. Da quando qualcuno ha visto quello che mi capita tutti i giorni, e soprattutto è stato capace a vedere una tra le tante storture del mio mestiere, mi sono dato coraggio. Se ora un cliente è maleducato sto in guardia, utilizzo un tono difensivo, dignitoso, oppure, come è capitato qualche settimana fa con un cliente appena uscito dalle caverne, faccio notare la mancanza di rispetto. Ecco, faccio questo perché qualcuno mi ha fatto notare che la mia dignità era brandelli, che mi stavano trattando davvero male. Insomma, mi ero abituato alla maleducazione e agli incontri brevi e incivli imposti dagli affari di negozio.
Questo era solo un esempio. Ma se a voi racconto quello che mi capita in libreria è perché non voglio abituarmi a quello che capita in una libreria. Questo è il motivo principale per cui scrivo nel blog aneddoti e vicende più o meno serie o più o meno intime: per non ritenere normale tutto quello che mi passa davanti agli occhi, in libreria, durante i miei turni di lavoro. Altrimenti mi ci abituo. Altrimenti finisce che mi si rompe la cintura, mi cadono le braghe e io neanche me ne accorgo.
Tutto questo parlare per fare un po’ di chiarezza con me stesso, prima di tutto, e poi con voi. E anche per dirvi che gli aneddoti da bar che vi racconto, che le barzellettine simpatiche che ogni tanto di domenica metto sul piatto prima o dopo pranzo sono vere. Spesso incredibili ma vere. E se le racconto è per non abituarmi e per raccontarvi l'aria che tira in una libraria e in un centro commerciale (e per sapere se la cintura si è rotta e mi stanno cadendo le braghe).
A questo punto mi faccio da solo la domanda (antipatica): “Sei un po’ arrabbiato perché qualcuno ti ha detto che quello scrivi non sempre è vero”. Sì, un pochino. In verità questo post poteva essere sintetizzato così: “Credetemi, io non racconto bugie. Amatemi”. Ma siccome sono consapevole che molte cose hanno dell’incredibile e che molte cose (e lo dico con presunzione, lo ammetto) le può comprendere con complicità solo chi in una libreria ci lavora, ho preferito argomentare, dirvi perché scrivo quello che scrivo in questo piccolo e umido angolino che mi ritaglio tra un turno di lavoro e l’altro. E il motivo, appunto, è per non abituarmi. Per non vivere solo e incompreso.
Ma davvero era necessario? Noi ti amiamo già :-)
RispondiEliminaE ciascuno di noi, nella sua libreria, negozio, scuola, ospedale, ha il terrore di abituarsi. Credo.
"Amatemi" era un rinforzo necessario per il post ;)
RispondiEliminaIo lo chiamo viaggiare.
RispondiEliminaStando in un negozio se uno vuole può farlo continuamente osservando quanto diversi tra loro siano gli umani e soprattutto capacitarsi di quanto sia profondo il canyon che li divide culturalmente.
Si risparmiano un sacco di soldi :-)
Capisco quello che vuoi dire e io questa osservazione la faccio più o meno tutti i giorni. Però poi questa cosa dell'osservare gli altri, del notare le differenze, diventa un mito, una cosa molto romantica da raccontare agli amici. Lavorare stanca tantissimo e lo sguardo si indebolisce. Non si nota più il canyon di cui tu parli. Ecco, scrivere forse serve a tenere accessa una fiammella negli occhi, a ripassare la lezione, a capire per l'ennesima volta cosa è giusto e cosa non lo è.
RispondiEliminaChi trova inverosimili le cose che scrivi non ha un lavoro a contatto con le persone, altrimenti avrebbero anche loro una piccola o grande collezione di casi umani
RispondiEliminaForse non si era capito, ma anch'io lavoro in un negozio Ed è proprio quest'idea del "viaggio" che contribuisce a tenere accesa la mia fiammella, così come il blog al quale affido le mie impressioni.
RispondiEliminaIn soldoni, ti capisco benissimo e condivido tutto ciò che hai scritto.;-)
Bravo sempre, D.
RispondiEliminaParlarne!
Questo fatto dell'abituarsi - al peggio! - mi fa rabbia. Ma davvero, rabbia rabbia rabbia! In tutti i contesti. E quando posso, quando sento che devo farlo (scuola, ragazzi...) provo a lottare. Seppure, forse, vanamente! ("la prof A. vuole cambiare il mondo" Spiego che non è così, che invece del mondo *loro* devono conservare il buono, non abituarsi al brutto, devono volersi, pretendersi, migliori, e, visto che sono il nostro futuro, devono costruire un mondo migliore!)
g
Fegatellomaipiù
RispondiEliminaAvevo capito e il tuo "viaggio" è più o meno simile al mio. Sottolineavo, però, che la stanchezza spesso si deposita anche in negozio e quindi si smette di viaggiare e le parole si bloccano.
giovanna
RispondiEliminaMi viene da dire una cosa brutta, però. Mi viene da dire che l'abitudine, tutto sommato, è fisiologica e un pochino serve a difendersi. Però, come hai detto tu e come ho scritto io, è meglio adoperare degli accorgimenti per riprendere spirito e senso critico. Che con l'abitudine si rischia di diventare anche orbi e insensibili.
A difendersi? Ci puoi contare. Io sento colleghi che dicono, calmi, non soffrono: "ah, i ragazzi non studiano, non si interessano, i livelli si abbassano..., la scuola non ha mezzi" Io invece dico, soffro e mi rodo il fegato: "porcamisera, ma perché oggi i raga...., perché la Scuola, l'istruzione è così trascurata...!?!"
RispondiEliminaE poi quei ragazzi, sarà che sono ancora piccoli, che non pretendono niente! Ho scordato di scriverlo prima, gli dico che devono pretendere da noi adulti....
g