Da qualche anno Brescia è un po’ più famosa o nota per via di una serie di mostre importanti che attirano gente da fuori, come diciamo noi che a Brescia ci viviamo. “C’è turismo a Brescia?”, potreste chiedere al mio vicino di casa e lui vi risponderebbe che “da quando il Museo di Santa Giulia sta organizzando mostre di pittori famosi c’è un sacco di gente che viene da fuori”. Ecco, vi risponderebbe così il mio vicino di casa. E se lo domandaste a me vi risponderei la stessa cosa. Recentemente il museo ha esposto i quadri di Matisse. Invece in passato ha preparato le sale del museo per i quadri di Van Gogh, Monet e Turner, attirando così un sacco di gente da fuori: ad esempio da Bergamo, da Venezia, da Milano, da Varese, da Torino e da Lecce. Sì, anche da Lecce. Un giorno un amico di mio fratello ha telefonato da Lecce, dove vive, e ha detto: “Visto che vengo a vedere la mostra di Van Gogh ne approfitto per venirti a trovare”. E mio fratello, naturalmente, si è offeso perché avrebbe voluto sentirsi dire il contrario. Ma questa è un’altra storia.
Però non vengono solo da fuori gli appassionati di arte, ma anche da dentro. A un certo punto, a Brescia, tutti sono diventati appassionatissimi di arte, incredibilmente curiosi del tratteggio e delle pennellate. Il museo Santa Giulia ospita i quadri di Van Gogh? Bene, andiamo tutti a vedere i quadri di Van Gogh. Ci sono da vedere gli incredibili paesaggi di Turner? Tutti in coda per vedere i paesaggi di Turner. Se in questo momento state notando una punta di sarcasmo, o ironia, non state sbagliando. Il fatto è che i bresciani che conosco non hanno mai visto il resto. Non hanno mai apprezzato l’architettura romanica del Duomo Vecchio (neppure io l’ho mai apprezzata però con coerenza non mi sono precipitato ad apprezzare i lavori ad olio di Turner), non sanno cosa sia la Pinacoteca Tosio Martinengo, la chiesa San Faustino in Riposo, il Capitolium e tante altri edifici religiosi e civili e musei, e fortificazioni e strade e muretti e fontane. Non lo sanno per un semplicissimo motivo: non interessa. Che mi pare un buon motivo, anche se contestabile, per non conoscere ciò che ci sta sotto il naso.
Però da quando a Brescia, al Santa Giulia, sono arrivati questi nomi famosi è accaduto che è si è accesa una passione un po’ strana. Io provo a dire la mia e se volete contestarmi contestatemi: è una moda. I miei amici sempliciotti (in questioni di arte, intendo) hanno sentito che tutti sono andati a vedere Matisse e così anche loro sono andati a vedere Matisse. In più aggiungeteci la pubblicità, gli articoli accattivanti di Sgarbi (“della mostra ne ha parlato anche Sgarbi sul giornale”, mi ha detto un mio collega non troppo tempo fa), la ragazza da accompagnare con la quale fare il saccente e poi aggiungete ancora l’amico da Foggia che viene a vedere la mostra (a un certo punto tutti, a Brescia, abbiamo avuto un amico da Foggia da accompagnare alla mostra).
Insomma, per me il successo di queste mostre bresciane è la somma di questi fattori. “Meglio di niente”, può dirmi qualcuno. “Una mostra di Monet nella tua città può essere un modo per capire e comprendere l’arte”. Vero, può essere questo. Però io ho l’impressione che ci sia solo un modo per capire l’arte: studiarla. Certo, avvicinarsi ai quadri è un buon inizio. Però per i miei amici e per gli amici dei miei amici e per quelli che sono venuti da Foggia, si è trattato solo di fare una cosa curiosa, diversa dal solito. Perché per capire l’arte, oltre a studiare, c’è solo un altro modo: studiare.
Brescia, con queste manifestazioni artistiche, non è diventata più “città d’arte di prima”, ma semmai una città nella quale molti vanno a vedere quadri. Che è ben diverso. Finita la mostra, finita la pubblicità, finiti gli articoli di Vittorio Sgarbi, tutto è tornato come prima. Gli amici, secondo me, si sono scordati già tutto. Quello che voglio dire, insomma, è che la conoscenza non è la conoscenza in sé ma il percorso (dio mio come sto parlando) che si compie per conoscere. Non è il quadro ma come si arriva al quadro. È, in parole povere, come si giunge a destinazione.
La scrittura segue meccanismi molto simili. Io all’ispirazione, al momento magico e folle, non ci credo. Imparo molto di più (su me stesso o su quello che accade fuori dalla finestra) non quando voglio scrivere ma quando devo scrivere. La scrittura, per me, è dover per forza dire sempre qualcosa su tutto, è mettermi lì e non sapere cosa dire o scrivere. Spesso si va fuori strada, spessissimo si scrivono cose sbagliate, ma la scrittura, a mio parere, non ha alternative. Io ho deciso di fare un disegnino della mia vita, un bozzetto fedele del negozio, dei clienti, della politica nazionale che influenza me, il negozio e i clienti, e nonostante sia consapevole di essere maldestro e impreciso ho deciso di farlo lo stesso. Di mettermi lì e scrivere, perché per scrivere cose sensate bisogna sedersi e scrivere. Che è come mettersi lì e studiare i quadri di Turner o Matisse o Van Gogh.
Qualche mese fa uno studente romano ha chiesto a Woody Allen un consiglio per scrivere buone sceneggiature e lui ha risposto: "Scrivere sceneggiature. Anche se vi sembrano delle schifezze". Insomma, un po’ c’è da faticare (la scrittura forse sta dentro la fatica) ma a me piace ogni giorno non saper cosa scrivere e poi scrivere. Altrimenti si finisce come i miei amici che vanno a vedere un quadro senza saper nulla del quadro, senza averlo mai considerato prima, senza, diciamo, averci mai sudato sopra. Oppure come mio padre, che qualche mese fa mi ha detto: “Sarebbe bello andare a vedere la mostra di Matisse”, e mia madre dalla cucina gli ha urlato: “Matisse?! Ma se in vita tua hai letto solo la Gazzetta! Fammi il piacere”. E lui naturalmente si è offeso perché avrebbe voluto sentirsi dire altro. Ma questa è un’altra storia.
Qualche mese fa uno studente romano ha chiesto a Woody Allen un consiglio per scrivere buone sceneggiature e lui ha risposto: "Scrivere sceneggiature. Anche se vi sembrano delle schifezze". Insomma, un po’ c’è da faticare (la scrittura forse sta dentro la fatica) ma a me piace ogni giorno non saper cosa scrivere e poi scrivere. Altrimenti si finisce come i miei amici che vanno a vedere un quadro senza saper nulla del quadro, senza averlo mai considerato prima, senza, diciamo, averci mai sudato sopra. Oppure come mio padre, che qualche mese fa mi ha detto: “Sarebbe bello andare a vedere la mostra di Matisse”, e mia madre dalla cucina gli ha urlato: “Matisse?! Ma se in vita tua hai letto solo la Gazzetta! Fammi il piacere”. E lui naturalmente si è offeso perché avrebbe voluto sentirsi dire altro. Ma questa è un’altra storia.
Questo è uno di quei post che invece di un commento mi chiamerebbero un altro post. Me lo metto da parte.
RispondiEliminaI post servono anche a questo, penso.
RispondiEliminaSarebbe bello che fosse così.
RispondiEliminaChe tutti studiassero l'arte.
Ma come si sa, lo studio nasce dall'interesse, dalla curiosità.
E se di quella torta immensa che è l'arte uno non ne assaggia un poco (per colpa sua, o di altri che non gliel'hanno fatta assaggiare), allora ben vengano i "buffet à volonté".
Sperando che nell'ingordigia di arte, nessuno muoia di diabete fulmina[r/n]te. E qualcuno si solletichi il palato con qualcosa che poi comincerà a studiare meglio e più approfonditamente.
Disagià, non rompere le palle e di grazie che non stanno a casa a guardare la tv! Essù! ;-)
RispondiEliminaUqbal
permesso..
RispondiEliminai post emozionali sono sempre stimolanti!
I ragionamenti ben articolati danno utili nozioni, ma le espressioni spontanee di "disagio" sono puro stimolo ad interrogarsi.
Quando il mio amico è diventato buddhista anch'io mi sono chiesto a lungo che necessità ci fosse di partire dalla Puglia (Fg o Le è lo stesso) per contemplare la magia del colore a Brescia.
Poi però ho capito che era necessario, perchè io
da lì ho cominciato ad approfondire il mio essere cristiano, ho cominciato a visitare e conoscere la mia "Brescia interiore".
Un post emozionale è un carro di fieno che nasconde un tesoro, un velo di condivisibile quanto pacato sconforto da cui emerge l'affermazione che il percorso è
conoscenza in sè.
Io però credo nelle folgorazioni, mi piace ricordare che Casaubon in fondo l'alchimia l'ha capita veramente da una banale(?) chiacchierata con Lia sulla paternità. Magari dentro un autogrill della Bologna Taranto l'amico pugliese troverà se stesso nello sguardo di qualcuno,
ed il discutibile motivo del viaggio si trasmuterà in oro nostro malgrado.
Il lavoro ci fa comprendere l'arte, mi associo, ma l'arte ci fa comprendere la vita oltre i nostri sensi, perchè ci pone quesiti.
Per questo trovo che ci sia dell'arte in questo post emozionale.
grazie.
Troppo gentile. Grazie.
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