lunedì 24 ottobre 2011

daniele, che è scappato via

di lo Scorfano

Il sondaggio sulla discriminazione omofoba nelle scuole, pubblicato da vari siti in questi ultimi giorni, non dice nulla di nuovo. O meglio: non dice niente che una persona minimamente attenta che viva in una scuola non potesse già sapere per conto suo. La discriminazione omofoba, nelle scuole, esiste. A volte è feroce, altre volte silenziosamente strisciante, ma esiste. I ragazzi che si scoprono omosessuali in questi anni delicati temono il giudizio dei compagni e tacciono. E tacendo ovviamente soffrono. E poi, siccome soffrono, studiano poco e male e i prof li sgridano. E i prof non sanno quanto loro, in realtà, stiano soffrendo.

E invece no, i prof lo sanno fin troppo bene: solo che non sanno esattamente chi, perché nessun ragazzo lo dice. Oppure provano a indovinare, a volte ci azzeccano (magari ci azzeccano spesso) ma questo non basta né a risolvere il problema né a renderlo meno doloroso. Il prof, cioè io in questo caso, si guarda intorno, nelle sue classi, e si immagina benissimo che il tale o il tal altro stiano soffrendo per questo determinato motivo; il prof parla con le madri e i padri di quelli che immagina che; ma da loro non ottiene nulla: non sanno nulla, non dicono nulla. Il prof resta zitto, allora; e il ragazzo resta solo.  

Ci sono gli psicologi, in tutte le scuole, anche nella mia. Ma i ragazzi non vanno a confidarsi con gli psicologi della scuola, mai: perché non si fidano, perché sono ragazzi e sono spaventati, perché comunque non risolverebbero il problema. Perché poi a cambiarti nello spogliatoio della palestra con gli altri ci vanno loro, non lo psicologo. E le botte e le battute se le beccano loro, non lo psicologo. I ragazzi vanno dallo psicologo della scuola solo quando non ne hanno bisogno (o quando li costringe la collega imbottita di antidepressivi, che ne costringe molti); e ci vanno, per lo più, per perdere mezz'ora di lezione, che non fa mai male.

E io, che sono il prof, posso solo cercare di indovinare. Poi, per il resto, faccio finta: non chiedo, perché non saprei come chiedere, non parlo, perché ho paura di fare danni, non interferisco, perché so che non potrei in nessun modo aiutare nessuno. Facciamo tutti così, quelli che sappiamo. Poi, lo so, ci sono anche i colleghi che se ne fregano e non sanno e pensano che l'omosessualità sia una roba che vive ai bordi notturni delle strade. Però, vabbè, quelli sono quelli: poveri storditi.

Gli altri, noi, quelli che sappiamo, tiriamo a indovinare: spesso io ci azzecco, altre volte no, altre volte vengo sorpreso da rivelazioni e coming out fatti dopo anni. Ma, è ovvio, anche se ci azzecco, non serve a niente. Vedo ragazzi sedicenni soffrire per chissà cosa, vedo genitori preoccuparsi di droghe e cattive compagnie; vedo mutismi e solitudini, angosce, leggo temi con parole pericolose, come fuga e suicidio, cerco di essere comprensivo, pronto all'ascolto, e discreto. Ma non basta, lo so; e spero soprattutto di non fare danni. E un po', giustamente, mi sento anche in colpa.

Ma a volte, l'ho già detto, capisco e capisco bene. Mi è successo con Daniele, per esempio, sette o otto anni fa. Daniele era arrivato in una mia seconda provenendo da non mi ricordo quale scuola; promosso, con bei voti, ma fuggendo da quel luogo. Era cupo, bravo a scrivere ma pigro, strafottente nel suo non badare a nulla e avere sempre l'aria di esser preoccupato per qualcos'altro. Ci scontrammo subito: scrivere bene non bastava, gli dissi; c'era molto da studiare, 4 di latino è un voto che alla fine dell'anno pesa, è l'ora che ti dai una svegliata, smettila di sbadigliare durante le lezioni, non sei qui a dormire aspettando che passi la mattina. Lui aveva occhi azzurri molto belli e mi rispondeva solo con sorrisi beffardi. Io cercavo di non perdere la calma. Ma intanto cominciavo a sospettare.

Non gli dissi mai niente dei miei sospetti, ma forse lui a un certo punto capì. Il suo atteggiamento migliorò, mi salutava gentilmente, a volte alzava la mano per chiedermi qualche precisazione. Aveva sedici anni, Daniele, un padre che non aveva mai conosciuto, che era fuggito via chissà dove, appena lui era nato. E lentamente cominciammo a capirci e a stimarci. Poi l'anno finì, lui fu promosso piuttosto bene, io (che non sarei stato più il prof di quella classe) lo salutai l'ultimo giorno di scuola con una pacca sulla spalla, senza sapere che non l'avrei mai più visto, nemmeno nell'intervallo. Lui mi sorrise. Poi cambiò scuola di nuovo, anche tra la seconda e la terza, andò in città, ebbi qualche notizia di lui ogni tanto, ma poca roba. Se n'era andato.

Oggi mi rimangono solo pochi ricordi di Daniele: due in particolare. Un giorno i ragazzi quella classe, che era una gran bella classe, cominciarono a sgridarmi: sì, erano loro che sgridavano me. Perché fumavo troppo. Deve assolutamente smettere, prof, mi dicevano. La aiutiamo noi. Ce lo prometta... Io promisi. Poi riuscii a cambiare discorso, e ci fu la lezione normale. E poi, alla fine della lezione normale, mentre stavo uscendo, mi fermò Daniele e, senza che gli altri se ne accorgessero, piantandomi i suoi begli occhi azzurri in faccia, mi disse: «Non smetta di fumare, prof. Potrebbe ingrassare». E se ne andò, sempre sorridendomi.

L'altro ricordo riguarda la fine di quell'anno. La classe era così particolare che accettai di uscire con loro a mangiare una pizza, cosa che non faccio mai, per la fine dell'anno. A un certo punto, durante la cena, Daniele venne da me e mi disse che stavano facendo uno scherzo alle altre due prof lì presenti: e che lo scherzo consisteva nel fingere che lui, Daniele, fosse gay. Mi chiese di stare al gioco. Io gli promisi che sì, che l'avrei fatto. Ma sapevo, ne ero ormai certo, che il gioco era un altro: che Daniele stava fingendo di essere quello che era, che fingeva di fingere di essere gay. E mentre lui ancora mi guardava, capii anche un'altra cosa: che anche lui sapeva che io sapevo. Che stava anche fingendo di non sapere che io sapevo, mentre anch'io facevo finta di non saperlo.

Era venuto da me a dirmi dello scherzo, aveva tirato dentro solo me: non poteva essere un caso. Io avevo capito, lui aveva capito che io avevo capito, tutti e due fingevamo di non avere capito, lui intanto fingeva di non essere quello che era. Fu strano, ma forse non c'era altra strada per capirsi, che non fosse quella lì: contorta e spaventosamente inutile. Poi la serata finì, le due colleghe si incazzarono con me perché le avevo prese in giro in combutta con gli alunni e per qualche mese mi salutarono a malapena. Poi la serata finì e io non vidi più Daniele, che si era a sorpresa trasferito ad altra scuola. Ed era di nuovo sparito.

Infine, qualche settimana fa, sono venuti a scuola a trovarmi due suoi ex compagni di quella seconda piuttosto lontana: due ragazzi universitari, più che ventenni, che mi raccontavano dei loro studi e delle loro fidanzate, al bar della scuola. Ho chiesto notizie di qualche altro ragazzo di quella classe, di cui non avevo più saputo niente. E poi, quasi come un fulmine notturno, uno di loro mi ha detto: «Se lo ricorda Daniele?... Ecco, Daniele era gay, lei lo sapeva? E ha conosciuto un ragazzo svedese, un'estate, e ora si è trasferito a Stoccolma, e vive laggiù con lui. Dice che là si sta meglio, ogni tanto torna a trovare sua madre, ma dice che in Italia non ci tornerà mai più, che è troppo un posto di merda...»

Io, da quel giorno al bar della scuola, ogni tanto penso a Daniele, che è scappato a Stoccolma. Mi dico che sono felice per lui, anche se mi dispiace per noi. Per noi Italia, che non siamo stati abbastanza pronti a non farlo soffrire. Scriveva bene, Daniele. E forse vorrei dirgli che, appunto, mi dispiace; che potevamo tutti e due non fare così finta, che potevamo anche parlarci. Anche se so che era impossibile: che lui non avrebbe mai detto niente a me, così professore, lui così alunno sedicenne spaventato e arrabbiato. E allora vorrei dirgli che spero che a Stoccolma vada tutto bene, così lontano, che glielo auguro di tutto cuore, davvero.

E poi anche un'altra cosa vorrei dirgli, l'ultima: «Non ho mai smesso di fumare, Daniele, anche se ci ho provato: non ce l'ho mai fatta. Però, con gli anni, qualche chilo di troppo l'ho preso lo stesso, mi dispiace».

19 commenti:

  1. Bellissimo post.

    Io a Stoccolma ci penso anche senza essere gay, ogni tanto...

    La mia domanda polemica è: serve a qualcosa sgridare?

    Uqbal

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  2. Grazie.
    Sgridare serve sempre, a volte più a volte meno. Con me, meno; ma per colpa mia ;)

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  3. Riformulo

    Sgridare non nel senso di far notare gli errori. Nel senso di mostrarsi arrabbiati (ripenso anche al post dell'altro giorno).

    Uqbal

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  4. Be', mostrarsi arrabbiati è sempre una debolezza, naturalmente; a volte inevitabili, in quanto per definizione siamo fallibili e mortali. Ma, in questo senso, non serve naturalmente a nulla.
    Però, in questo post, sono i ragazzi che sgridano me... (nel senso che mi fanno notare un mio errore, e pure grave).

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  5. Ecco, mi sembra che tutto sommato ci troviamo! Io intendo dire che fare leva su un senso di colpa controriformistico non ha senso.

    Per quanto riguardano i ragazzi che sgridano i prof.:

    a) Io sono un anti-fumo militante e non ti ho rotto le palle solo perché hai chiesto pubblicamente pietà! ;-)

    b) A volte capita anche a me, e generalmente quando sto facendo le cose che a me sembrano proprio più "liberali", più "creative", meno impegnative. Mi rimproverano perché non si ritrovano nello schema...vogliono il pugno di ferro, salvo poi (anzi proprio per) lamentarsi...curioso, no?

    Uqbal

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  6. quanta delicatezza e intelligenza nel fare il tuo lavoro. Passare di qui e leggerti, spesso, mi dà fiducia. Grazie.

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  7. La storia di un ragazzo che a sedici anni scopre che la sua sessualità è orientata verso persone dello stesso sesso non sarebbe in sé un problema, se non fosse che, come giustamente sottolinei tu, deve scontrarsi con il dileggio e la sfida dei compagni di classe e di spogliatoio.
    A quell’età essere virili e maschi a tutti i costi è quasi un obbligo per i ragazzi. Sono appena rientrato dalla pausa pranzo, e mi sono imbattuto in una scenetta che mi ha fatto un po’ sorridere ma che nasconde tutta la durezza di questo tipo di atteggiamento: un ometto di circa quindici anni, appena uscito dal liceo, incontra una coetanea e le fa un maschio cenno con il capo dall’altro lato della strada. Sottolinea la sua virilità con una aspirata così forte e decisa dalla sigaretta che porta tra le labbra che ho quasi paura che collassi. Poi offre malvolentieri il viso al doppio bacio di saluto, non prima di aver inondato la compagna con una nuvolona di fumo, a rimarcare ancora di più la sua maschia supremazia.
    Ma dalla scena traspariva chiaramente la recita, la consapevolezza di un ruolo studiato a tavolino, in anni e anni di osservazione da dietro le quinte dei modelli più grandi.
    Il problema è proprio la standardizzazione del ruolo, del modello da seguire: appena sei fuori dal modello ti becchi parolacce e risatine malevole.

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  8. @minnelisapolis: grazie ;)
    @aaqui: hai colto il punto, infatti; che è anche la ragione per cui io, insegnante, posso fare assai poco: perché il problema non si pone con il mondo adulto (quello si porrà dopo, e saranno guai), ma soprattutto con il mondo dei coetanei, a volte ben più spietato (e senz'altro più conformista)

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  9. @aaqui

    In realtà, secondo me, un tempo era anche peggio. I tempi in cui l'omo era omo e la donna donna erano anche quelli in cui dovevi ostentare una virilità camionera a tutto tondo e non ti era dato di piangere o di emozionarti o di parlare dei tuoi sentimenti: cosa che oggi anche ai giovani etero è concessa.
    La scena che hai descritto faceva molto anni '50, molto bulli e pupe.

    Poi io sono intimamente convinto che il maschio, a qualsiasi età ed epoca, sia più stupido della donna: il testosterone ottenbra le facoltà intellettive dalla pubertà in poi. I maschi a scuola e nella vita non sanno fare a meno di pisciare qua e là per marcare il territorio. Non sarà un caso che a scuola infatti le ragazze vanno meglio...;-).
    C'è quel quid hemingwayano che ci porta a fare fesserie anche quando sappiamo che sono fesserie...

    Uqbal

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  10. Negli ultimi anni, invece di pisciare qua e là (metaforicamente) , i ragazzi maschi sputano tantissimo, dovunque. Immagino anche in questo caso per marcare il territorio; ma non metaforicamente, però.

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  11. Verissimo quanto dici, ciò che l'insegnante può o non può, per i motivi che dici.
    L'insegnante può solo dire, dirglielo proprio, al ragazzo che, lui capisce, intuisce o prova a indovinare, soffre: guarda, se vuoi, io ci sono. Invitarlo a fidarsi, forse lo si aiuta a soffrire un po' meno... Forse!

    g

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  12. @Giovanna
    Infatti, così: niente altro. Con un bel senso di impotenza e di colpa che ti accompagna fino a casa.

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  13. ho avuto un deja vu leggendo questo post

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  14. Hai scritto uno di quei post che mi rileggerò pezzo per pezzo. Perché questa dell'omofobia a scuola è una delle cose su cui più mi arrovello, perché, come dici, è uno dei casi in cui per una serie di motivi tu insegnante senti le mani legate. Penso che oltre a quello che descrivi a scuola ci sia una omofobia noncurante, quella degli alunni, dei genitori, dei colleghi. Quella che fa più male perché crea quell'anti-humus per cui poi non si fa coming out a scuola.
    A scuola noi ne riuscimmo parlare per davvero solo con l'Onda (tanto per cambiare). Andammo a vedere Milk, e dopo e prima parlammo di tante cose senza troppi giri di parole. Ma loro erano loro, noi, insieme, eravamo noi.
    E poi restano memorabili la grazie di Rotondo tra i Maculati. Passo un attimo in classe, durante l'ora di disegno, e rotondo alza la mano: "Prof. visto che c'è lei mi può accompagnare fuori?". Mio sguardo stupito. "No, le spiego, sul muro accanto alla quinta hanno scritto una parola che in sé non è un insulto con accanto il nome di uno; ma io credo che loro l'abbiano messa lì con intento di essere bulli e la stiano usando come insulto e io vorrei prendere la spugna e il detersivo e andarla a cancellare".

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  15. @'povna
    Infatti ci ho messo molto a pensarlo e molto a scriverlo. Perché è uno di quegli argomenti delicati, di cui a scuola non si parla mai, per comodità.

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  16. Ma perchè questi benedetti psicologi a scuola possono ricevere solo durante l'orario delle lezioni? Da me c'era addirittura una persona incaricata di andare a chiamare il ragazzo in aula all'ora dell'appuntamento. Sfido che poi in pochi ci vanno, non sarebbe meglio organizzare un servizio che funzioni al termine della giornata?
    Perchè ogni tanto una chiaccherata con una persona discreta farebbe bene a tutti...

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  17. un mio collega ha fatto mettere in ginocchio quattro alunni che sbeffeggiavano di continuo un compagno dandogli del gay, e li ha 'convinti' a sbattersi la testa al muro recitando un mea culpa ogni volta che picchiavano la testa. l'hanno smessa. non solo, si son guardati bene anche solo dal lanciare occhiatine di scherno. era una mia classe ed ero intervenuta più volte con reprimende e discorsi, ma evidentemente ci dovevano 'sbattere la testa'.
    l'anno dopo, in terza, quei ragazzetti eranno cresciuti e certi discorsi erano fattibili e comprensibili non più con la paura ma col cervello.
    anna

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  18. @Lorenzo
    Forse sì. Forse fuori dall'orario scolastico andrebbero a parlarci i ragazzi che hanno davvero voglia di trovare un orecchio attento e discreto e non quelli che hanno voglia di perdere un po' di lezione. Non è impossibile.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)