mercoledì 2 marzo 2011

privatissimi princìpi

di lo Scorfano

L’altroieri, tra i segnapagine, ho infilato di soppiatto (provocando indignata reazione della mia facilmente indignabile fidanzata) un articolo del “Giornale” di Sallusti, perché parlava di scuola privata. E ieri, sul “Corriere della Sera”, Maria Laura Rodotà ha citato lo stesso articolo (però togliendo nomi e cognomi), con un pizzico di dichiarato fastidio: perché l’articolo del Giornale parlava delle persone di sinistra (o cosiddette tali) che si scandalizzano quando il premier parla male della scuola pubblica, che firmano appelli su Repubblica in difesa della scuola statale (a proposito: ma è una legge della termocontemporaneità italiana che vuole che a un’idiozia pronunciata dal Premier debba sempre corrispondere una idiozia uguale e contraria ideata da Repubblica?); mentre molti dei loro figli frequentano, con straordinario sprezzo del ridicolo, una privatissima scuola paritaria. Non sono tanti, ha ragione Rodotà; ma sono interessanti, è vero. Interessano perché pongono una questione, non tanto di coerenza (chissenefrega della loro coerenza, sinceramente), quanto sulle ragioni della loro scelta.

Ora, io non sarò mai troppo severo con le scuole private e/o paritarie, per il semplice fatto che ci ho lavorato per sette anni e non ci sono stato per niente male. Anzi, per alcune cose, ci sono stato meglio che nella scuola statale (vedi qui). Ma mi chiedo, e me lo chiedevo ancora di più quando ci stavo dentro, cosa spinga tante famiglie a pagare diversi migliaia di euro all’anno per mandare i figli in una scuola privata e magari anche religiosa, che li prepara mediamente meno di una scuola pubblica.

Sono davvero “i princìpi e le idee” di cui ha parlato il nostro premier?           
              No, dispiace ma anche stavolta tocca contraddirlo: quelli che conoscevo io non mandavano i figli in una scuola privata per i “princìpi” o per le idee. Le famiglie che conoscevo io se ne fregavano bellamente dei princìpi: alcune non erano nemmeno cattoliche, neppure ci pensavano. Anche perché, tocca ammettere anche questo, i frati (che gestivano la scuola) non ci pensavano neanche loro a “inculcare” princìpi. Se gli chiedevi  quali attenzioni particolari dovevi avere nel modo di fare lezione, ti ridevano in faccia; se non glielo chiedevi (come ho sempre fatto io), non ti dicevano mai niente.

In quella scuola privata (non un diplomicificio, per niente: anzi, seppure in una città di provincia, una scuola di un certo prestigio e frequentata molto “bene”, come si suol dire) i figli venivano mandati solo perché era più facile essere promossi. Direi che questa era l'unica ragione per almeno il cinquanta per cento di loro: una ragione banale, per niente ideale, ma comunque una ragione. Che, tra l’altro, fu anche il motivo per cui, dopo un po’, scelsi di andarmene.

Ma resta comunque l’altro cinquanta per cento: e, se ci rifletto, mi pare che l’unico motivo che questi altri avevano era un senso di maggiore “protezione”. Forse malinteso, ma comunque tale. La scuola paritaria come ambiente protetto, insomma; una sorta di piccola isola, uno zoo, una zona recintata in cui i figli avrebbero potuto frequentare soltanto i loro “pari grado” (e cioè pari censo, in sostanza; che è anche il contrario preciso del mitico “paritario”, a ben vedere). Niente extracomunitari, niente bullismo (che poi c’era, ma bastava non saperlo), niente occupazioni o scioperi o manifestazioni. Non per ideologia, quindi, ma soltanto per genitoriale apprensione.

Forse era proprio l’idea dell’imprevedibile mescolanza a far loro paura: la scuola statale era il “Bronx”, in cui tutto poteva accadere e si era in balia costante del fato avverso, degli insegnanti in cattiva fede, di un preside disinteressato, dei bidelli che non puliscono le scale. La privata no, la privata rassicurava, la privata era il luogo in cui i “bambini” stavano al sicuro e non si mischiavano con le “cattive compagnie”. E  forse non c’era nemmeno del malcelato razzismo in questo atteggiamento: era solo paura, che è un ingrediente del razzismo, ma da sola non basta.

E quindi ha ragione Maria Laura Rodotà: queste sono spesso scuole «dove il rigore può diventare un seccante optional; l'importante è che i ragazzi siano bilingui e frequentino bene». È così molto spesso; non mi piace, ma è così. E il bello è che anche le scuole di Stato, in particolare i licei, cominciano a diventare sempre più spesso così: perché le famiglie è questo che, in genere, vogliono: informatica, impresa, inglese e un bel po’ di protezione per i loro rampolli; e anche un paio di stage all’estero, magari, come quello di ieri.

Ma insomma, i princìpi tanto amati (e forse anche inculcati) dal premier non c’entrano nulla, nel complesso; dei princìpi si fa volentieri a meno, quasi sempre. Contano un po’ quando si scende in piazza a manifestare o quando si tiene un comizio davanti ai cristiano-riformisti o quando si firma un accorato appello su un quotidiano on-line; ma contano assai meno quando si deve scegliere la scuola che frequenteranno i nostri figli. Perché i figli sono pezzi di cuore e i princìpi, invece, sono pezzi di niente.
*   *   *

(Ecco, lo so che il finale un po’ ironicamente indignato andava bene, lo so. Ma io non resisto, scusatemi; e poi ci ho la fidanzata indignabile, ricordate?, e devo provocarla, sennò sai la noia della vita domestica… E quindi, per divertirmi un po’, mi tocca aggiungere che non è mica tanto orribile che sia così, che si cerchi protezione, che ci si chiuda in un recinto per stare tranquilli; magari si cresce peggio, immagino di sì; però è molto naturale farlo, e quindi non è tanto encomiabile indignarsi.

Anzi, ognuno a nostro modo, tendiamo tutti a farlo e a essere un po’ così: un po’ che «si sta meglio se stiamo tra di noi», un po’ che «la gente sono tutti ignoranti». È la sindrome del luogo “esclusivo”, quello che conosciamo solo noi e che è meglio di quello in cui stanno tutti gli altri. Ci colpisce, per esempio, quando pensiamo che la libreria di un centro commericale venda libri senz’altro più stupidi di una Feltrinelli, perché è nel centro commerciale, dove vanno tutti e noi preferiamo di no e dei centri commerciali parliamo sempre male; oppure quando frequentiamo con gioia e risate il web, ma abbiamo l’account solo su FriendFeed, perché lì c’è gente in gamba, con cui ci si può strizzare l’occhio e capirsi al volo e darsi virtuali pacche sulle spalle. Non come su Facebook, che è così di cattivo gusto, che è così pieno di gente, che sono così ignoranti e non sai mai chi ci puoi incontrare: qualche screanzato, magari.

E, per concludere davvero, c’è per esempio un tizio, che conosco bene e che stimo anche moltissimo, che si comporta spesso così; è uno un po’ pelato e stanco, che infatti non ha l'account su Facebook, una specie di pirla che non esce mai il sabato sera, da vent’anni, uno che adesso è qui che sta schiacciando i tasti della sua tastiera, chiuso nella sua stanza piena di libri che un giorno ha letto e che ora si è dimenticato. Uno che ora smette anche di schiacciarli, quei tasti, che è senz’altro meglio.)

19 commenti:

  1. All'appello di Repubblica hanno aderito anche Marco Lodoli e Paola Mastrocola: tout se tient.

    RispondiElimina
  2. Tu pensi davvero che Silvio abbia detto quella frase sulla scuola pubblica pensando ai principi da inculcare o alle ragioni delle famiglie che mandano i loro figli nelle scuole private? Da quando Silvio si interessa a principi e ragioni, seppur lontani dai nostri?

    RispondiElimina
  3. @mfisk
    (io, della seconda, moglie di R., non posso parlare per contratto...)

    RispondiElimina
  4. Comunque, nel merito, devo confessare che dopo sei anni di scuola del figliuolo, e sei anni nel corso dei quali almeno uno degli insegnanti arriva un mesetto dopo l'inizio delle lezioni, e deve ricominciare daccapo colmando i buchi dell'insegnante precedente, ecco che allora un qualche dubbio si fa largo nella testa del genitore: il quale persiste nel preferire la scuola pubblica in quanto supportato da un'adeguata ideologia (e fors'anche da un portafoglio leggero), ma ben comprende i dubbi di coloro che hanno un'ideologia meno spiccata (e fors'anche un portafoglio più spesso)

    RispondiElimina
  5. @ilcomizietto (e anche per mfisk)
    nemmeno io ho dubbi sulla cattiva fede del premier. Ma mi premeva scrivere il post, per almeno due motivi:
    1. sgombrare il campo (o la mia testa) da ragioni pretestuose e false, per ragionare con calma;
    2. mettere in evidenza che appunto si può essere di sinistra quanto si vuole e poi scegliere una scuola privata per il figlio: perché le ragioni non sono ideologiche, semplicemente.

    RispondiElimina
  6. 3. CI avevi la fidanzata indignata.

    RispondiElimina
  7. PS: che la scuola privata "prepari mediamente meno" (come ho scritto sopra) è un dato di fatto desunto da qui.

    RispondiElimina
  8. io le conosco bene, le scuole private del premier, come la scuola in cui finivano tutti i bocciati danarosi del mio liceo e in cui lui ha mandato il suo ultimogenito...

    RispondiElimina
  9. Nella mia immaginazione le scuole private del mondo anglosassone sono associate all'eccellenza, tanto che per entrarci il portafoglio gonfio non basta, bisogna avere un discreto cervello e/o una bella dose di muscoli da mettere al servizio dello sport preferito della scuola.

    Come mai in Italia, invece, la scuola privata è associata o ai preti o ai diplomifici? (O le scuole private di eccellenza sono rare o inesistenti. Comunque un bel mistero.)

    RispondiElimina
  10. Scrivo un po' di aneddotica, e sottolineo fermamente che sono cosciente del valore dell'aneddotica.

    A 11 anni dovevo cominciare le medie. Le medie del mio paesello erano conosciute per partorire gente male istruita, parola di una zia maestra elementare (statale) e di tutte le colleghe.

    I miei, a cui non è mai fregato niente dei vestiti firmati o delle macchinone, ma che ci tenevano a darmi un futuro, hanno deciso che le medie del paesello non facevano per me. E mi hanno mandato in città. Alla scuola privata dei preti, proprietà del vescovo. Era la scuola dove studiavano anche i futuri preti, e fu - in tutta onestà - un'ottima scuola. Ci facevano studiare, ci facevano rigare dritto.

    La disciplina c'era ma era ragionevole. L'atmosfera era rilassata, ma ci si doveva alzare in piedi quando entrava il professore e anche quando entrava il bidello. In segno di rispetto.

    Dovevamo avere tutti lo stesso diario, perché non si doveva perdersi dietro alle vanità. La scuola è una cosa seria. La religione entrava soltanto nell'ora di religione, ma non ho ricordi di cosa si facesse. Credo si cominciasse con una preghiera al mattino, ma alle elementari statali si faceva lo stesso, non sono rimasto traumatizzato.

    C'erano due o tre messe all'anno da seguire obbligatoriamente, ma capitemi - vengo dalla campagna veneta, dovevo andare a messa tutte le domeniche, una messa in cattedrale col vescovo era un diversivo, più che un dovere.

    A 14 anni ho deciso di non continuare lì e di andare alla statale. Perché sì, perché pensavo che la privata fosse il piccolo mondo della bambagia, perché pensavo che la vita vera fosse alla statale e tutte ste cose.

    Sono finito al classico. (preciso che ho le carte per insegnare lettere al classico, quindi non parlo per saccenteria) Alla statale mi hanno insegnato forse un terzo delle cose che avrebbero dovuto. Di quel terzo, una buona metà era semplicemente sbagliato. Alla statale ho scoperto che esistono varie forme di nobiltà, oltre che a quella di sangue e di censo. Esiste la nobiltà di essere figli di sindacalisti, o di colleghi amici. Ho visto che le persone giuste vengono promosse a prescindere, dal ginnasio alla maturità, e che le persone giuste si trovano i commissari che dettano gli scritti dell'esame. Ho visto insegnanti entrare in classe e non fare niente per un'ora o due. Niente, nemmeno leggere il giornale. Ho visto professori dormire, ho visto professori vantarsi di insegnarci fregnacce inenarrabili. Sarà stata colpa della burocrazia e del ministro di turno e dei tagli di cui ci si lamentava, ma io sono abbastanza sicuro che invece fosse proprio colpa dei docenti.

    Sarà anche vero che le private sono un mondo chiuso, ma francamente io alla statale ho visto cose che in retrospettiva sarebbe stato meglio non vedere. L'assoluta mancanza di una qualunque forma di disciplina, controllo, monitoraggio degli studenti sfociava nell'idiozia, perché tante volte ho visto gente arrivare a tanto così dal lasciarci la buccia che tutto il corpo docente era a rischio galera (e giustamente, IMHO).

    I miei genitori hanno allora pensato che forse non era il caso di rischiare anche con il secondo figlio, così mio fratello si è fatto medie e superiori alla privata dei preti. Onestamente non so se lì promuovessero con più facilità. Può anche essere. Però mio fratello ha studiato sempre più di me e ha completato l'università con profitto. Magari promuovevano quelli giusti, però se non altro davano un'istruzione decente a tutti quanti.

    Nella stessa città c'è una privata arcinota per essere il posto dove paghi, fai 5 anni in uno, sei promosso e hai il diploma. Tra l'altro una mia amica ci lavora e so dall'interno che la scuola è un diplomificio per fondazione, proprio. Nemmeno è religiosa, poi, è proprio lì solo per far soldi.

    Forse tante famiglie preferiscono tenere i figli nella bambagia piuttosto che nella jungla. E non saprei dar loro torto.

    RispondiElimina
  11. @Tommy
    Tutto quello che scrivo io su questo blog è fondato sull'aneddotica, per cui la tua vale tanto quanto la mia, è ovvio.
    Quel che racconti della tua esperienza alla scuola privata è sostanzialmente coincidente con quello che ho vissuto io. Peraltro io parlo di Lombardia orientale, dunque assai vicina e simile alla campagna veneta.
    Per quanto riguarda la scuola statale, invece, ho esperienze diverse. Come studente, innanzitutto: il mio liceo di provincia ligure mi ha insegnato molte cose; alcuni professori che ebbi dovrei ancora ringraziarli (ma saranno morti, e non l'ho mai fatto). E anche come insegnante, ora, non mi riconosco in quello che tu racconti; a parte forse la mancanza di disciplina, che è piuttosto diffusa e passivamente accettata come naturale.
    Non si possono confutare le esperienze, è ovvio: l'unica cosa che vorrei sottolineare, del tuo intervento, è che è vero che, quando c'è una colpa, quella è degli insegnanti. E converso, anche i meriti (quando ci siano) sono spesso soltanto meriti degli insegnanti.

    RispondiElimina
  12. Anche io mi ritrovo in quello che dice Tommi, e in parte anche tu, soprattutto per la mia esperienza come insegnante. Ho lavorato 9 anni nelle private (girandone diverse, specie all'inizio), e ci si può ben rendere conto della distanza tra diplomifici e paritarie di altro stampo. Quello che chiedevo ai miei studenti, ora che insegno nella scuola statale, è lo stesso di quel che chiedevo nel privato: con la differenza che nel privato i genitori (per apprensione - tanta - o per abitudine) generalmente chiedono di più alla scuola; così il preside chiede di più ai docenti (anche proprio in termini di progetti, possibilità di recupero, ore aggiuntive da trascorrere a scuola...)e il prof deve saper rendere ragione più da vicino di quel che fa.
    Ora che sono nello Stato, tutto è lasciato molto di più a me. Vedo tanti insegnanti che a fine anno non soppesano più tanto i voti dati durante l'anno (anche nello stato, promuovere mette al riparo da molti problemi...), così come altri invece non smettono di aggiornarsi, o capire come rinnovarsi (per sé e per i per i propri studenti), o come raggiungere anche quegli alunni che rischiano di perdersi per situazioni famigliari davvero complesse.
    Non in tutte le scuole private si ribadiscono valori e principi (o comunque, non in tutte vengono applicati, anche se ribaditi; e ti dirò, lungi dall'ipocrisia: meglio almeno indicare anche solo teoricamente i disvalori come tali...).
    Pregi e difetti sono in entrambe. Io ho scelto lo Stato appunto perché volevo che l'esempio di quei bravi prof che hanno toccato la mia vita nella scuola statale potesse essere una opportunità per quanti più ragazzi possibile, e non solo per alcuni. La differenza la fanno i professori, perché i ragazzi sono ragazzi dappertutto...

    RispondiElimina
  13. La scuola,la fanno gli insegnanti, pubblica o privata che sia. Cioè io: questo un po' mi angoscia, giusto che si sappia.

    RispondiElimina
  14. Sì, però l'articolo de Il Giornale è urtante, come al solito.

    1)Non si vede però perché il presupposto per il finanziamento alle private debba il disprezzo per le pubbliche. Strafinanziare le private e bastonare le pubbliche NON sono facce della stessa medaglia.

    2) Moretti, Rutelli o chi so io possono anche mandare i figli alle private. Ma che c'entro io con Moretti e Rutelli? Saranno fatti loro? Posso rimanere della idea, o Moretti ha squalificato anche me?

    3)Ma cmq c'è incoerenza tra mandare i figli alle private, spendendo del proprio, e dire che cmq l'istruzione va garantita a tutti? Secondo me, no.

    4) Come si fa a farsi assumere nelle private? Io sono disposto ad uno stipendio di palta, pur di sapere che in tale scuola non me ne devo necessariamente a giugno...ci pensate? Un triennio portato avanti tutto da me? Mi brillano gli occhi...

    5) Uovo di colombo. Sapete come funzionano i test IELTS, per la certificazione d'inglese? Non bocciano nessuno. Si limitano a misurare quanto inglese sai da 1 a 9. Agli esami di stato possiamo fare lo stesso. Tutti passano, ma magari con voti di schifo. Tanto le università serie non tengono in nessun conto il voto di "maturità". Se uno si rende conto di essersi diplomato male, o di essere davvero troppo 'gnorante, studia per conto suo o torna a scuola. Se uno invece pensa di essere un incompreso, allora probabilmente andrà benissimo ai test d'ingresso...

    RispondiElimina
  15. Francesco: il Giornale quello sa fare, urtare per mezzo della più scadente retorica da bar. Tanto paga pantalone :-)

    Comunque l'idea di non bocciare e dare semplicemente un voto da 1 a 10 è insieme semplicissima e intelligentissima. Mi sembra quasi strano che non la si proponga più spesso.

    In più gli studenti che non hanno voglia di far niente, siccome tanto saranno promossi lo stesso, non si dovrà più fermare la classe per colpa loro (piaciuto l'anacoluto manzoniano?). Il prof spiega, chi studia e ha voglia bene, chi no no, tanto alla fine ci si arriva comunque.

    Sai che mi piace proprio?

    RispondiElimina
  16. ... ed io che pensavo non ci fossero più gli anacoluti di una volta!
    @Professo'
    Non ti angosciare: rischi di fare male ;)

    RispondiElimina
  17. Ma sì, ora che ho letto l'articolo della Rodotà devo dire che ha proprio ragione. Ci si iscrive in quelle scuole lì perché fa bene frequentarsi tra simili, così come si compra la mozzarella in via xyz perché è "quella buona". E poi chissene se magari la mozzarella la lasci andare a male nel portabagagli della macchina.
    Con un portafoglio pieno questo e altro.

    p.s. dov'è il blog dello scorfano dello chateaubriand, che ci rashomonizza il loro viaggio a...insomma, dov'è che vanno loro?

    RispondiElimina
  18. Che sollievo non essere la sola a non ricordare più nulla dei libri letti anche con tanto piacere!
    grazie anche solo per questa confessione!

    RispondiElimina

(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)