Quando sono entrati in negozio mi sono subito ricordato di loro. Come potevo non ricordarmi di loro? Lui, sua moglie e sua figlia sono tre indiani appena usciti da un fumetto di Corto Maltese o da un romanzo di Salgari. Lo dico per via dei vestiti, dei sandali, dei turbanti e della parlata per nulla inquinata dall’italiano. Sta di fatto che li riconosco e so già che tra poco lui verrà a chiedermi quello che gli avevo promesso tempo fa: un dizionario tascabile di Urdu. “Capo”, urla già all’entrata, “arrivato vocabolario?”: “Ah, vocabolario di Urdu” rispondo io sorridendo e loro tre, come fossero al mercato, si mettono a lanciare verso il soffitto urla di allegria per il fatto che li ho riconosciuti, che mi sono ricordato delle pratiche commerciali che ci legano e chi ci fanno esseri umani un poco più vicini e amici.
Perché certi stranieri, soprattutto quelli che hanno la pelle scura, in negozio sono molto amichevoli o molto duri per il semplice fatto che questo hanno imparato a lezione, e cioè o essere amichevoli o essere duri, senza aver la possibilità di praticare l’arte della mezza misura, senza poter destreggiarsi nello stile detto “sfumatura”. Insomma, li porto tutti e tre davanti ai vocabolari e gli metto in mano, all’uomo scuro come il babau, il piccolo vocabolario di Urdu. Se lo gira un po’, guarda il prezzo, lo sfoglia, stropiccia un po’ i muscoli della faccia, avvicina il volume agli occhi della moglie, poi a quelli della figlia, scuotono tutti la testa, borbottano e poi mi lui mi dice: “No, capo, questo non ha inglese”. E allora io chiedo cosa intenda e lui mi dice che vorrebbe oltre alle parole italiane e urdu anche quelle della pronuncia inglese e io dico che non ho capito, allora lei mi indica un punto della pagina e, insomma, tutti e quattro facciamo teatro e sceneggiata.
Alle spalle dei tre indiani, e quindi di fronte a me, un signore attende che suo figlio finisca di sfogliare un libro sui dinosauri e lo fa guardandomi negli occhi. Io, nella confusione che si è creata per colpa d’incomprensione e disguidi linguistici, ho il tempo di guardare i suoi di occhi. E lui guarda i miei e io i suoi e lui i miei e io i suoi e solo quando disegna sulla sua faccia un sorriso capisco cosa sta succedendo. Sta succedendo il razzismo. Anzi no, scusate, sta succedendo, tra poco, la complicità tra razze.
In quel momento, stretto da tre indiani, con una madre, la mia, che è stata ragazza madre, con un secondo padre arrivato un po’ dopo, con una vita fatta da tante case cambiate, affitti non pagati, quartieri nuovi ogni due o tre anni, solitudine, amicizie, solitudine, amicizie, e tanta rabbia per un mondo che va alla rovescia e la macchina scassata e le rate per quella nuova e la spesa, le tasse e la puzza di pelle marocchina nei treni e una vita di amori finiti, squarciati, decomposti e di una laurea mai presa, ecco, in quel momento tutte queste cose si sono unite e io ho pensato di sorridere al signore che con quel suo sorriso, e sapete di cosa parlo, mi stava dicendo: “Vengono qui a far casino, questi”. Volevo farlo, il sorriso, per complicità, per sentirmi meno solo, perché ne ho passate di cotte e di crude, perché il mondo è brutto e se non ci aiutiamo tra di noi cos’altro dovremo fare? Volevo creare comprensione in un mondo di incomprensione.
Ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perchè ho capito che quello è il razzismo. Perché quella è la linea che non bisogna oltrepassare, anzi, alla quale non bisogna neppure avvicinarsi se si vuole essere un essere umano non razzista. Evitare l’occasione, non tendere la mano alla provocazione, neutralizzare questo genere di complicità. Perché poi finisce che io chiedo il tuo sorriso razzista e tu lo chiedi al tuo vicino di casa e il tuo vicino di casa al collega di lavoro e, insomma, si finisce per essere tutti quanti gente che nella vita ne ha passate di cotte e di crude e che la soluzione è un sorriso complice dentro una libreria o un autobus e poi il mondo diventa un mondo di persone che sorridono alle spalle di tre indiani e a me, un mondo di persone che sorridono alle spalle di tre indiani non piace. Fa paura. Perché poi il sorriso degenera, cambia forma e umore, perché poi, siccome nella vita ne abbiamo passate di cotte e di crude, il sorriso diventa coltello.
Esagero, scusate. Mi sono fatto prendere un pochino. Il fatto è che sono stato contento di non aver risposto a quel sorriso, sono stato, e lo sono tuttora, felice di averlo reso un sorriso banale. Innocuo. “Fammi un sorriso, non ti costa nulla”, mi diceva mio padre. Già, non costa nulla, ne svendiamo ogni giorno di sorrisi, ne distribuiamo a sacchi pur di avere qualcuno vicino, pur di avere un pugno di amore e complicità. Ma non la mia e non di questo genere. “Vuoi vocabolario Urdu o no?! Non capisco!”
Da lontano ho visto la scena, ora l'ho vista da vicino.
RispondiEliminacazzo, bello 'sto post.
RispondiEliminabravo
variabile
Sì, seri è meglio a volte
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