domenica 5 febbraio 2012

La paglia e il ferro

del Disagiato

Io racconto delle grandi pedalate che faccio lì dentro in libreria ma non è che mi manchino le occasioni, eh. Le occasioni, dico, di girare l’angolo e di fare altro, di realizzarmi finalmente in modo un po’ più consono all’immaginario di mamma e papà, tipo alzarmi, mettere la camicia, la cravatta, salire su una macchina decente per stringere mani e fare contratti bevendo aperitivi e via dicendo. Vabbè, magari questo immaginario me lo sto inventando un pochino io con un pizzico di esagerazione e magari ho visto troppi film dove il libraio è lo sfigato del racconto mentre tutti gli altri sono i potenti o i realizzati, però, dicevo, è capitato eccome di poter cambiare passo. E infatti l’anno scorso un vecchio amico che si chiama Simone e che gestisce una nota agenzia assicurativa scopre che lavoro in libreria. Lo scopre per caso, passando davanti al negozio e voltando la testa proprio mentre io sono lì pendente con una pila di libri in mano. E da quel momento, come è capitato con altri amici ritrovati, è stato tutto un revival, un ricordare i sentimenti che ci hanno uniti e fatto simili e un contare i pesci che stavano nella rete che abbiamo buttato in acqua tanti anni fa. Insomma, ci siamo ritrovati così, per caso.

Sta di fatto che Simone è ritornato e poi è tornato ancora e poi ancora.  E una volta, nei miei venti minuti di pausa, siamo pure andati a berci una caffè. E durante quel caffè Simone mi ha chiesto: “E in libreria come va?”. “Così così. Non c'è più tanta clientela come qualche anno fa, ma rimane che a me il lavoro continua a piacere”. “Non lo lasceresti questo lavoro?”. “Non saprei immaginarmi da un’altra parte, in un luogo diverso da quello di questa libreria”, ho risposto io. E Simone, a questo punto, mi ha fatto la sua proposta.

“Senti, perché non vieni a lavorare con me? Non so quanto guadagni di preciso, ma posso immaginarlo. Ecco, con me guadagnerai di più, te lo assicuro. E starai vicino a me a far decollare una nuova sede dell’agenzia” e poi Simone ha continuato descrivendo il suo lavoro e sottolineandone l’assoluta serietà. E io, ascoltandolo, cominciavo a immaginarmi fuori da quella libreria e con qualche banconota in più in tasca. “Dai, facciamo che ci penso. Intanto ti ringrazio per la proposta”, gli ho detto a Simone prima di tornarmene in negozio. “Pensaci, davvero”, mi ha detto lui.

E ci ho pensato a quel nuovo lavoro e ho deciso che no, che non volevo staccarmi da quel negozio e dai libri e dai clienti. E che quindi non volevo guadagnare di più. “Bella proposta, davvero, ma preferisco rimanere dove sono”, ho spiegato qualche giorno dopo a Simone. E Simone, deluso, mi ha detto questa cosa: “Sei sempre stato pigro”. E allora io ho reagito con un sorriso e con un pugno affettuoso sulla spalla pensando che è vero, che sono sempre stato pigro e che è sempre stato difficile spostarmi dai porti sicuri. Ma poi ho anche pensato a quando da piccolo mio padre mi faceva questa domanda: “Pesa di più un chilo di paglia o un chilo di ferro?”.

“Un chilo di ferro”, rispondevo io. E allora mio padre scoppiava a ridere, mio fratello anche e mia madre mi metteva una mano tra i capelli, come a dire: ti vogliamo tutti quanti molto bene, ti amiamo così come sei fatto. E a forza di affetto e amore e di risate, io ho continuato a pensare e a rispondere che tra un chilo di ferro e un chilo di paglia pesa di più un chilo di ferro. E ancora adesso, se mi fate questa domanda, io vi do la stessa risposta.

E Simone, davanti a quel caffè, è come se mi avesse fatto quella domanda del ferro e della paglia. Perché non cambi lavoro (è da sette anni che te ne stai in quel buco, caspita) e non cerchi di guadagnare di più? Non cambio perché un chilo di ferro pesa di più di un chilo di paglia. E non cambierò idea. Il mio è un irreparabile difetto mentale. Ecco, non so come spiegarmi bene, ma la mia bilancia è parecchio difettosa; ho provato negli anni ad aggiustarla, a toglierle i difetti, ma niente da fare. E quindi me ne sto innamorato del mio lavoro in libreria, dando la stessa risposta, fino alla fine. E quindi, più che altro, accade che il lavoro non lo si vuole cambiare solo per un semplice motivo: per passione. O per affetto, se volete.  Pesa di più un chilo di ferro o un chilo di paglia? 

10 commenti:

  1. Un chilo di passione e amore pesa molto di più di un chilo di soldi. Soprattutto se si considera anche cosa c'è dietro a quel chilo di soldi.

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  2. Momento di assoluta emozione: anche a me mio padre faceva sempre quella domanda, da piccina, e anche io mi sono sempre intestardita a rispondere "il ferro" (che, in realtà, nella mia versione era il piombo), anche dopo tanti anni, anche dopo che avevo capito (con un leggero ritardo sulla media nazionale, credo) dove stava il trucco. E sai, forse, perché? Perché mi sono sempre ostinata a concentrarmi sulla parte che a me pareva più degna di nota, ovvero la seconda, della frase, quella sul materiale (paglia o piombo), e ho sempre un po' snobbato quella prima, sul numero di chili, così banalotta, da problemino di scuola.
    Bellissimo post, ancora una volta.

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  3. Disagiato, tu ti lamenti sempre del tuo lavoro ma non lo lasceresti mai, perché è il tuo lavoro.

    Io sono anni che faccio un lavoro non mio, che non ho scelto io.

    Busta paga o meno, vale di più una vita trascorsa a fare il lavoro per cui ci si sente tagliati. Questo non ha prezzo. E' bello che ci siano persone come, pronte a scriverlo chiaro e tondo.

    "Pesa più un chilo di mele o di pere?" "Di pere, perché hanno la protuberanza" (Realmente accaduto, ma non al sottoscritto).

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  4. Non è che mi lamento del mio lavoro...è qualcosa di diverso che esattamente non so dire. Con ciò rimane che, passione o non passione, il peso della busta paga ha comunque una sua importanza. Non solo per passione si lavora, ecco.

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  5. Non sopporto le massime, ma un'amica mi ha appena inviato questo sms e mi sembra che capiti a proposito:
    "Il segreto della felicità non e' di far sempre cioè che si vuole,
    ma di voler sempre ciò che si fa."
    Pare che sia di Lev Tolstoj, ma ammetto che non ho verificato; tu, anche grazie al tuo lavoro, saprai senza dubbio confermarlo o smentirlo.
    ohana

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    1. Non so né confermare nè smentire. Penso solo che la felicità non esista.

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  6. Ciao Disagiato,

    Ho provato a darti la mia personalissima visione qui:

    http://funtastico.me/la-fune

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    1. Quando ho risposto a Ohana, qui sopra, non avevo ancora letto il tuo post. Ecco, intendevo dire che la felicità sta in attimi o in scintille che svaniscono subito. La dimensione da ricercare come condizione permanenete forse sta proprio nell'equilibrio. E in niente di più.

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  7. Venti minuti di pausa!!!!Troppi troppi!
    Magari più che cambiare il genere di lavboro potresti cambiare il luogo, non ti piacerebbe lavorare in una libreria del centro, una libreria sul lago, una libreria in un vicoletto ciottolato, una libreria fuori dal centro commerciale?

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)