Come potete ben immaginare da soli, le vicende più sconcertanti e importanti che mi accadono a scuola (o nei dintorni della scuola: intervalli, entrate, uscite), io qui, sul blog, non le racconto. Perché non posso ovviamente, ma anche e soprattutto perché non voglio. Perché le vicende importanti, e a volte anche strazianti, sono carne viva dei miei studenti e delle loro famiglie, perché il solo pensiero di poterle raccontare qui, in pubblico, sarebbe un pensiero infame. Perché certe le storie private degli altri, anche se sono ragazzini, sono appunto private; e io sarei una specie di mostro se, dopo averle raccolte come confidente, le raccontassi poi qui.
Rimangono quindi taciuti tutti gli incontri più intensi tra me, i miei alunni e le loro famiglie. Rimane taciuto lo straziante mal d'amore di un ragazzo di una classe, così come la separazione traumatica dei genitori di un ragazzo di un'altra classe; rimane taciuta la volta in cui una delle mie alunne rimase incinta e volle tenersi il bambino contro il parere dei suoi genitori; o anche, specularmente, la volta in cui una mia alunna rimase incinta e voleva abortire ma senza dirlo a nessuno, nemmeno a sua madre. E poi lo disse a me, e fu a me che toccò, con calma e preoccupatissima pazienza, convincerla che dovevamo per forza parlarne con i suoi genitori.
Ma sono passati ormai tanti anni da queste vicende. Così come tanti anni sono passati da quella volta in cui un ragazzo sedicenne, lo chiameremo Giorgio, non si fece vedere a scuola per quasi un mese. E sarebbe stato anche normale (nel senso che succede piuttosto spesso, purtroppo) se non fosse che un giorno arrivò suo padre e mi confidò che da una settimana non si faceva vedere neppure a casa (telefonava ogni tanto, però), e che lui e sua madre non sapevano cosa fare, volevano andare dai carabinieri ma avevano paura di metterlo nei guai. Mi chiese consiglio. E io ebbi una strana intuizione e, come gli investigatori dei film, gli chiesi ventiquattro ore. Perché mi era venuta in mente una battuta che il compagno di banco di Giorgio aveva fatto pochi giorni prima, vicino al banco vuoto. E da quella battuta mi parve di poter credere che avrei saputo dove trovare Giorgio. E alla fine della mattinata andai nel luogo che avevo immaginato e ci trovai davvero Giorgio, quel cretino. E allora lo invitai a pranzo, e con atteggiamento a metà tra il comprensivo e il minaccioso, lo convinsi a tornare a casa, da suo padre; e poi, nel pomeriggio, ce lo accompagnai, in macchina, facendogli sentire la musica che in quei mesi ascoltavo io e che a lui fece subito schifo.
Sono storie accadute molti anni fa, ma che, secondo modalità e con nomi diversi, continuano ad accadere anche oggi, mentre lavoro, mentre provo a insegnare la letteratura e la grammatica latina e la poesia. Non le racconto mai, praticamente a nessuno. Lascio che si depositino, cerco di essere un testimone comprensivo e accorto, il più delle volte però non servo a niente (la storia di prima, infatti, era un'eccezione). E il più delle volte le confidenze sedicenni, rivelate a me, nell'intervallo, tra lacrime disperate e sedicenni, il giorno dopo si sono già trasformate in risate, in oblio, in qualcosa di altrettanto sedicenne che è la vita che va avanti e fa dimenticare, a quella ragazza che il giorno prima era disperata, il dolore per cui era disperata e me lo voleva raccontare.
Ma tutte queste storie che non racconto rimangono con me, è ovvio. Sono come le tessere di un mosaico, potrei dire. Piccole pietre colorate che io raccolgo dalle confessioni dei ragazzi o dalle confidenze preoccupate delle loro madri, e che mi porto a casa. E per anni ho pensato che queste piccole pietre colorate avrebbero, alla fine, costruito una storia, un percorso, una specie di disegno rivelatore. Non rivelatore dei ragazzi, ovviamente, ma molto più semplicemente rivelatore di me, del mio disegno. La mia storia di insegnante, a volte silenzioso confidente a volte garrulo consigliere.
C'è una poesia di Montale che lo dice. Che dice come il prodigio del fantasma che ci salva possa celarsi dentro i piccoli pezzi di storie che in qualche modo non sappiamo mettere insieme ma che d'improvviso, per una ventata violenta della vita, trovano una loro rivelatrice sedimentazione:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
E per anni io ci ho creduto: ho pensato cioè che tutto questo mio ascoltare e questo loro parlare e piangere non sarebbe stato invano. E che quelle storie, quegli atti che il futuro si ostinava a volere scancellare nella mia memoria avrebbero invece trovato un senso, uno sviluppo; magari una musica che si sarebbe finalmente accordata nelle mie orecchie. E che quello sarebbe stato il senso della mia fatica e della mia, cosiddetta, passione.
Mi sbagliavo, naturalmente. Gli anni hanno cominciato a passare e le mie piccole pietre colorate hanno cominciato semplicemente a perdersi. Le sentivo cadere dalle tasche bucate del mio vestito logoro in certe mattine d'inverno, quando la possibilità di vedere un obiettivo era sempre meno chiara. Ho cercato di riparare le mie tasche, ho cucito e rammendato. Ma le cuciture non tengono e i rammendi cedono, molto presto. Le storie, che non racconto qui sul blog perché sarebbe un atto infame, le storie non trovano senso: si perdono, restano un poco per aria e poi si dimenticano, le facce cambiano, le voci si confondono, le melodie svaniscono, nulla si compone.
Per tanto tempo mi è sembrato triste che tutto questo accadesse. L'ho vissuto come un fallimento mio e della mia passione, cosiddetta. Oggi, da un po' di tempo a questa parte, non lo trovo più così triste o preoccupante. I prodigi (anche quelli montaliani) non avvengono, non nella mia vita almeno (magari nella vostra, chissà). Ma il suono di quelle pietruzze colorate che trovano la loro strada tra le pieghe delle mie tasche (la mia memoria), tra una cucitura malfatta e un troppo vecchio rammendo, quel suono argentino di pietre che tintinnano per terra, quello oggi mi pare un bel suono. È una musica, in qualche modo. La musica di una strada che forse non ha senso ma che è la mia, quella che faccio tutte le mattine e tutti i giorni. E in qualche modo, quella musica scordata di storie che finiscono nell'oblio più completo e che si perdono, è la sola musica capace, paradossalmente, di tenermi ancora un po' di compagnia.
bello
RispondiEliminaMi mette tristezza pensare che queste storie, semplicemente, passino. Ragazzi che guardi negli occhi tutta la mattina, per anni, e poi non vedi più. Quando ti vengono trovare, se non ricordo male, tu non sei entusiasta, perché pensi che ormai facciate parte di due mondi diversi.
RispondiEliminaCavolo, Scorfano, un po' mi ricordi me stesso, visto che ho cambiato città una dozzina di volte. Dopo qualche anno si comincia a diventare un po' cinici, per non affezionarsi a nessuno.
Tocca farsene una ragione, Speaker. Poi ce ne sono alcuni con cui rimani legato per sempre (con uno ci ho aperto addirittura un blog, per esempio;)), ma questi pochi non cancellano quei molti che non sai che fine abbiano fatto...
EliminaSpesso ci soffermiamo sul dolore, sulle cose spiacevoli della nostra vita, è difficile sapere cosa ci rende felici, quali sono le cose belle e dargli un nome. Bisogna avere equilibrio, fare pulizia mentale. Io non ne sono capace, per esempio, ed invidio lo Scorfano che ci riesce così bene (e che lo scrive così bene).
RispondiEliminaDiciamo che ci provo, non molto altro ;)
EliminaHai ragioni, è questa la musica che ci gira intorno. Ed è bello sapere che a un certo punto ne rimane solo questo stralunato tintinnio.
RispondiEliminaScorfano ogni tanto mi fai piangere, lo sai vero? Ma è solo perchè i tuoi racconti a volte collimano così bene con la mia esperienza e di quei sassolini è piena la mia storia professionale, e sono lì, ogni tanto i miei pensieri ci giocano per poi rimetterli lì al loro posto dove devono stare e tornano a volte utili, e a volte no, quando si riprensentano le stesse storie.
RispondiEliminaNaturalmente, questo post nasce anche dal fatto che in questi giorni mi sta capitando, in una mia classe, una cosa assolutamente inquietante e che non posso raccontare qui; ma che mi agita non poco. Ve la dirò fara cinque o sei anni, facciamo così ;)
Eliminase hai paura che i sassolini si perdano, scrivi un diario sul tuo pc. Per il resto, non mi preoccupo delle "confidenze" dimenticate dopo 24 ore: ai giovani restano comunque.
RispondiEliminaPsiche
RispondiEliminaCredo che quella musica non ti faccia soltanto "un po' di compagnia", ma piano piano, nel tempo, sia diventata la melodia su cui impercettibilmente si accorda il ritmo del tuo cuore, del tuo respiro... Intendo dire che se ora sei ciò che sei, è anche (soprattutto?) perché la tua storia si è incrociata con quelle storie; perché magari ripensando a una risposta che hai dato - proprio quella e non un'altra - hai potuto conoscere aspetti di te che forse neppure immaginavi; perché anche se ora ti sfugge il nome o la fisionomia della persona, quella determinata esperienza ti ha emozionato, ti ha cambiato, ti ha fatto crescere - e ora sei più ricco. Penso che questo sia il prodigio, che in realtà nulla si perde.
Speriamo che sia come scrivi tu. Benchè, ti dico la verità, non sottovaluterei affatto il concetto di "un po' di compagnia" che (lo puoi immaginare: l'ho scelto apposta come finale) a me pare già una gran bella cosa (e molto più importante di quanto si pensi).
EliminaPsiche
EliminaCerto! E mi fa molto piacere rendermi conto che avevo sottovalutato quel "po' di compagnia".
Scorfano ci stai prendendo in giro o io non capisco?
RispondiEliminaDici di non raccontare certe storie e invece le racconti eccome, già in questo post ce ne dai una bella fetta. Guarda che se non scrivi i dettagli non è che sono meno storie. E guarda che di queste storie puoi scrivere benissimo, basta romanzarle un poco e renderle anonime.
Tu qui di storie ce ne racconti molte e, certo, non hanno un senso, una musica comune, ma questo non è un problema. Un senso ci può essere in un romanzo, forse, non nella vita reale. Nella vita reale il senso ce lo dobbiamo mettere noi. E qui ritorni tu, che di senso a queste storie ne dai il giusto. Infatti noi leggiamo con piacere i tuoi post, che se fossero senza senzo nessuno leggerebbe.
Scorfano, sinceramente non capisco questo tuo "volare basso", "sminuirti". Non dico di essere acquila, ma almeno non struzzo, ecco. :-)
ilcomizietto
Lungi da me l'idea di prendere in giro chicchessia (e tantomeno te, ci mancherebbe). In realtà molte storie non le racconto, perché, come ho scritto, sono "carne viva". Quelle accennate in questo post, per esempio, sono tutte vecchie di più di dieci anni.
EliminaMa il punto è che in questi giorni mi stanno accadendo fatti difficili e poco comprensibili, con ragazzi e famiglie. E non posso raccontarle, perché romanzarle non basterebbe. Il rischio di svelare la vita privata (e anche gli strazi e le sofferenze private) di qualcuno di loro sarebbe troppo alto, e io non me la sento. E allora mi sono chiesto quanto mi sia rimasto di altre storie simili capitatemi in anni passati. E mi è nato il post.
Non sto sminuendo nessuno, spero. Anzi, sto raccontando di come ciò che si perde ha, nel suo perdersi, un suono che non ci lascia del tutto soli.
Forse questo post richiederebbe maggiore discutosità (cit.).
EliminaPrima non ti ho detto che mi è piaciuto. :-)
ilcomizietto
Forse sì, forse la "discutosità" (immagino chi sia la neologista...) aiuterebbe ;)
EliminaTutto questo sottacere le vicende dei ragazzi, ed il tono generale, mi fa pensare che sei più interessato alle TUE reazioni emotive che alle vicende dei ragazzi. Sembri troppo "delicato", perdonami la franchezza (o cinismo?). Un buon insegnante dovrebbe essere come un buon medico, coinvolto ma fino ad un certo punto, deve essere lucido per poter diagnosticare bene.
RispondiEliminaE tu sembri più mamma piangente che guida equilibrata.
Come insegni, dal punto di vista disciplinare, e - soprattutto - come valuti i ragazzi?
Io, qui, sul blog, che non è scuola ma blog, sono interessato alle mie vicende, per definizione: quelle infatti voglio raccontare.
EliminaA scuola faccio il mio mestiere.
Bello, Scorfano, ma non è una sorpresa del resto.
RispondiEliminaAnche io mi sono sempre trovato a disagio a scrivere le storie degli altri. Se proprio ho voglia di farlo (perché penso possano trasmettere qualcosa e arricchire chi legge come hanno arricchito me) le stravolgo al punto che non resta quasi più niente della storia originale, a parte il messaggio di fondo.
A rileggerti presto, con il solito piacere.
Grazie Prof. per la tua discrezione e perché ci parli della musica che ti accompagna con lucida e misurata compostezza. Grazie perchè cogliamo l'allegria di queste note quando c'è, mentre in altri momenti ne percepiamo la profonda tristezza e turbolenza. Il tutto con il massimo rispetto da parte tua nei confronti dei sentimenti dei tuoi alunni.
RispondiEliminaGrazie a te, Rose.
EliminaEssere insegnante vuol dire sapere di essere periferici.
RispondiEliminaI ricordi che lasciamo ai nostri studenti sono frammenti, nel migliore dei casi qualcosa che abbiamo detto, talvolta qualche espressione della nostra faccia, generalmente qualche nostro intercalare -che scopri di avere quando i ragazzi imparano a farti il verso, anche benignamente-.
Li riforniamo anche di aneddoti che racconteranno, a sé e ad altri, migliaia di volte, piegandoli alle necessità del racconto finché di noi non rimarrà quasi nulla di riconoscibile, se non il nome (anche perché raramente -anzi, mai- gli studenti sono nella posizione o in grado di capire i loro docenti -e va bene così).
Noi siamo necessariamente più analitici, e i nostri ricordi dei nostri studenti sono più simili a incisioni che rimangono sospese sulla parete della nostra memoria finché non vengono sostituite da altre.
Se e quando riemergono, per un incontro casuale o per qualche altra ragione, quel che ci stupisce è che dietro un ricordo fumoso rievocato a fatica ci sono anni interi della nostra quotidianità, che in quel momento arrivava a sembrarci anche invadente, e che poi ha fatto largo ad altro, come sempre.
Comunque, andare a cercare studenti smarriti nelle nebbie dei bassifondi, con le canoniche 24 ore di tempo, si addice al prof. Bogart che va a scuola con trench e sigaretta...e spero anche cappello a tesa larga calato sugli occhi...
Uqbal
io mi sono accorta cammin facendo che tasche buone per tenere le pietruzze colorate non ne ho. Sono già bucate in partenze e cerco di stare lontana dalla possibile confidenza dei ragazzi, non dopo aver operato per due anni allo sportello d'ascolto con adeguata supervisione. Ai miracoli montaliani non credo nemmeno io. Credo al tuo modo leggero (ma non) di farmi riflettere sul nostro mestiere.
RispondiElimina(troppi non in questo commento).