mercoledì 16 maggio 2012

l'esitazione

di lo Scorfano


«Tu sai perché io porto quest'abito.» E Renzo, sempre così sicuro di sé e baldanzoso, pronto allo scatto di rabbia e anche a mettere la mano al coltello, se è il caso (senza mai tirarlo fuori, diamogliene atto), Renzo che medita vendette e riscatti, Renzo davanti a questa domanda che non è neppure una domanda... Renzo esita. Anche se, lo capiamo subito, Renzo lo sa fin troppo bene perché il padre Cristoforo porta quell'abito di frate cappuccino, quale sia la sua storia lontana. E anche noi lo sappiamo, perché la storia di quel frate quando non era frate ci è stata raccontata da Alessandro Manzoni stesso, all'inizio del romanzo, quando nemmeno immaginavamo che ci sarebbero stati la peste e il lazzaretto e il voto di castità e questo incontro inatteso nel bel mezzo della morte. Ma Renzo comunque esita, non risponde, ci impiega un secondo di più nel necessario. 

Ed è qua che io ho programmato di infilarmi, mentre i ragazzi leggono, ognuno con la parte che si è assegnato all'inizio dell'anno. Ho pensato che è su questa esitazione di Renzo che avrei costruito la mia spiegazione di questo passaggio così difficile del romanzo, la necessità del perdono, l'inutilità dell'odio, il male che non s'ha da fare mai, nemmeno quando lo si subisce in modo così assurdo e prepotente, il male che perseguita per sempre chi lo compie. Ed è dunque adesso che dovrei intervenire. Ma non ce la faccio: e i miei giovani lettori di seconda liceo vanno avanti, proseguono, mentre io ho perso il tempo della battuta, è troppo tardi, non so come mai: mi sono lasciato sfuggire il momento che avevo deciso io che era quello giusto.


«Tu lo sai!» urla il frate, ed è davvero un urlo, che rimbomba nelle mura già calde della nostra aula di scuola pubblica; ed è poi quell'epiteto strano che Manzoni questa volta usa: «il vecchio». Alessandro che chiama padre Cristoforo, il suo eroe positivo, «il vecchio», chissà perché in modo così sfacciato. Ma Renzo, a quel punto, non esita più: e dice che sì, lo sa. Tutti in paese lo sapevano, è evidente; ma un conto è saperlo, un altro ben più terribile conto è il dirlo, a quattr'occhi, davanti a lui, quel vecchio, quel frate che era stato giovane e aveva ucciso, ammazzato, un uomo, uno come noi, forse solo un po' più debole di noi e quindi prepotente, un uomo debole anche quello che si sarebbe poi fatto frate, un uomo così debole da essere capace di uccidere.

E infatti frate Cristoforo dice: «Ho odiato anch'io», e ancora: «l'uomo ch'io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l'ho ucciso.» E tace. E lascia che quel participio passato, così passato da essere immutabile, resti nell'aria, insieme al cuore, il «cordialmente» che sta insieme all'odio. E allora Renzo, con il suo buonsenso così inutilmente umano: «Sì, ma un prepotente, uno di quelli...» E padre Cristoforo, con le parole definitive, quelle che non si possono (direi che non si non «si devono», se sapessi crederci, magari anche solo per trenta secondi) non si possono dimenticare: «Credi  tu che se ci fosse una buona ragione, io non l'avrei trovata in trent'anni?»

Ecco, qui ci fermiamo: su questi trent'anni che fanno di lui, appunto, un «vecchio».

Con un gesto chiedo ai ragazzi di seconda di fare una pausa, deglutisco, cerco di trovare le parole giuste per dire i trent'anni, tutto quel tempo passato a cercare una ragione plausibile, un riscatto, un perdono, che però non sono possibili, non qui, non su questa terra. Nel piccolo silenzio di questa mattina calda di maggio cerco di trovare qualcosa che dica ai ragazzi di seconda che in quei trent'anni c'è tutto il dolore del male fatto, lo strazio indescrivibile del tempo che è passato senza guarire nessuna ferita. Dovrei forse dire loro che «non resta che far torto o patirlo», ma sono piccoli, non lo sanno... E resto zitto, di nuovo.

Eppure, anche se non trovo le parole, mi pare che il silenzio possa dire molte cose. Mi pare che nel romanzo ci sia già tutto, che la voce dello scrittore sia forte e dica quello che deve essere detto senza che io abbia nulla da aggiungere. E provo a non dire niente, per oggi. Li guardo e chiedo: «Avete capito?» (e intendo: avete capito che il male è quello che si fa, sempre e soltanto quello che si fa; ed è quello che non vi dimenticherete mai e vi perseguiterà per sempre, fino all'ultimo dei vostri giorni?). E loro mi dicono «sì» a voce molto bassa, qualcuno annuisce solamente con la testa, non dice niente. E il silenzio è assordante e io non so se hanno davvero capito.

E io allora dico: «Va bene, andiamo avanti».

8 commenti:

  1. Forse certe volte ti sembra di avere avanti sempre la stessa classe - con alunni diversi ma, in astratto, sempre la stessa classe - per cui provi a spiegare gli argomenti di ogni anno in modi diversi; o, come in questo caso, lasci alla capacità dei ragazzi.

    Credo però che i tuoi alunni gioverebbero dei ragionamenti che noi possiamo leggere qui.

    A me gioverebbe. Io però non faccio testo, ho trentasei anni e interessi diversi da un quindicenne.

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    1. Caro Speaker i miei alunni ne sentono molti di più di quelli che scrivo qui, di ragionamenti del genere.. Davvero, tutte le mattine, non faccio altro! ;) (che poi se ne giovino, questo è un altro discorso, naturalmente)

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  2. a volte mi chiedo se don Lisander non abbia costruito tutti i Promessi Sposi a partire da quella frase.

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  3. Non credo abbiano capito.
    La provocazione "non resta che far torto o subirlo" sarebbe stato un buono spunto.
    Mancano a loro quei trent'anni per cogliere il senso profondo di quelle parole,
    per loro non troppo dissimili da qualche dialogo di uno sceneggiato televisivo.

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    1. Io credo che forse qualcuno di loro ha capito. Gli altri, mi sa, capiranno. I trent'anni passano per tutti ;)

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  4. Finalmente.
    E grazie, professo'.

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  5. Grazie per avercelo ricordato anche qui.
    ilcomizietto

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  6. Grazie a voi due, della consueta gentilezza.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)