Io e una collega qualche giorno fa abbiamo discusso. Anzi, non abbiamo discusso, abbiamo litigato per una scemenza che in realtà non è una scemenza ma che a pensarci bene è una scemenza. Potevamo evitare la discussione, forse. O invece no, la nostra discussione è stata la somma di parole non dette in passate per non litigare e quindi, inevitabile, ecco la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non vi dico la questione, il motivo scatenante, l’inizio della crepa. Non capireste, tanto è sciocco ed esile il movente che mi ha portato a dire alla mia collega questa cosa: Non permetterti di dirmi quello che devo fare con quel tono. L’ho detto con la faccia rossa, il dito alzato e, penso, una vena della fronte gonfia. Ecco, le ho detto questa cosa e, non lo nego, secondo me ho fatto benissimo a dirglielo. Quando è troppo è troppo. E mentre le dicevo quelle parole ero contento, soddisfatto. Finalmente, dicevo a me stesso. Finalmente sto buttando fuori la rabbia che ho qui nello stomaco da un po’ di tempo. Lei, dopo che le ho sputato addosso il mio veleno, mi ha risposto con parole spigolose, con la faccia rossa, alzando il dito e con la vena della fronte gonfia.
Poi io e lei abbiamo fatto pace. Per qualche pomeriggio ci siamo guardati con la coda dell’occhio e in quelle ore silenziose pensavo che più passa il tempo e più guardo gli ombrelli, le facce, le mani, le caramelle, i seni, il cielo, le nuvole, i gatti, le strisce pedonali, i bicchieri, i piedi, le vetrine e i ponti con la coda dell’occhio. Non conficco più i miei occhi in niente, guardo solo con la coda dell’occhio. Pensavo questo, ecco. Ma non è vero niente, lo pensavo solo per riempirmi il cervello di qualcosa, per scacciare la rabbia e l’immagine della mia collega rigida e tesa che se ne stava lì davanti a me a sistemare e vendere libri brutti. Io continuo noiosamente a guardare le cose come sempre e non con la coda dell’occhio. Ma ieri con la coda dell’occhio ho visto la mia collega sorridermi.
Allora io ho girato il mio sguardo verso di lei e le ho restituito un sorriso imbarazzato, inclinando un po’ la testa, guardando un po’ di qua e un po’ di là. Abbiamo fatto pace. Io le ho descritto i suoi torti, lei mi ha descritto i miei torti e poi ci siamo detti altre cose che hanno spiegato o simulato comprensione. Ma è successa anche una cosa strana. Prima di risolvere definitivamente la questione lei si è ricordata di quella volta, un anno prima più o meno, in cui io le avevo detto una cosa brutta, che l’aveva fatta arrabbiare. “Sai”, mi ha detto lei, “ricordo ancora quella volta che mi hai detto che sono introversa, che sto sempre sulle mie, che è difficile capire quello che provo o penso”. E io, detto questo, me ne sono rimasto a bocca aperta per riacciuffare con la memoria quel momento, quelle parole. Ma niente. “Sei sicura che fossi io?”. “Sì’, sì, eri tu, e ancora mi bruciano quelle tue parole”.
Ho pensato, prima di tutto, che non fossero parole cattive, che non ci fosse alcun motivo per offendersi ma ho anche pensato, poi, che non potevo averle dette per il semplice motivo che l’altro giorno, lì, davanti a lei, quelle cose dette un anno prima non le pensavo. “Ma io non mi ricordo di averti detto quelle cose, davvero”. “Io sì e, credimi, mi avevi ferito”. Naturalmente voglio crederle. Quelle parole devo averle dette; e devo anche, chissà perché, aver ferito la mia collega. Solo che non mi ricordo nulla. E non mi ricordo nemmeno la circostanza e non mi ricordo la sua faccia e non mi ricordo il tono e non mi ricordo la reazione e non mi ricordo la mia bocca che si muoveva per dire “introversa”, “provo”, “penso”. Nulla, niente di niente. E mi chiedo quante parole e quanti affondi nella mia vita devo essermi perso per strada, durante il tragitto da là a qua. E chissà come mi guardano gli altri e manco so perché e chissà se ora tutti quei biglietti di sola andata e gli addii possono trovare in queste ultime righe una risposta. Anche solo un pezzettino, un brandello di risposta che spieghi, che rimetta grammatica nell'ordine sparso dei miei affetti.
Hai fatto bene, io avrei accompagnato il tutto con un gesto di mano, o anche solo di un dito, per dire. Basta trascinarsi i malumori, non siamo mica gente che se la prende se un cliente ci rimprovera noi, vero?
RispondiElimina;)
RispondiEliminaLa seconda parte del post mi ha fatto pensare molto.
RispondiEliminaHo pensato spesso ultimamente a come le frasi che noi pronciamo per affondare un colpo, quelle che crediamo possano rimanere impresse, non necessariamente riescono a farlo.
Spesso la gente si ricorda, nel bene o nel male, delle cose più quotidiane che diciamo.
E questa secondo me è una cosa bella.
...mi sa che ci voleva...!
RispondiEliminaOppure era un modo per dirti facciamo la pace ma sappi che hai ancora da farti perdonare qualcosa e io invece sono stata così brava da far finta di niente per tutto questo tempo...anche se mi hai fatto male...
RispondiEliminaCosì facendo ti ha fatto nascere un sottile senso di colpa che farà in modo che tu da quel momento in poi tenterai di essere più comprensivo e cauto onde evitare di ferirla nuovamente...
Ma forse oggi sono particolarmente negativa (e a disagio) e vedo la malizia anche dove non c'è...
chissà quante di queste parole dal peso specifico sconosciuto mi perdo per strada ogni giorno...
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