giovedì 10 novembre 2011

Andare dappertutto

del Disagiato

Dopo la morte di Marco Simoncelli, già dal giorno dopo per essere precisi, ci sono state tantissime persone che sono entrate in libreria per chiedermi il libro che il pilota scrisse più o meno un paio di anni fa e che si intitola Diobò che bello!. Cosa più che naturale, mi verrebbe da dire. Muore un personaggio dello sport, carismatico, bravo e molto amato, e il libro si rimette in circolazione. La cosa che però mi ha sorpreso è che la maggior parte di queste persone sono in realtà padre e figlio. Non solo, sia chiaro, ma la maggior parte sì. Ecco, io questa cosa non so come vederla; non so bene come interpretarla o giudicarla. Un pilota muore per colpa dell’alta velocità e dell’azzardo e un padre non allontana il figlio dalla velocità e dall’azzardo. Anzi, Diobò che bello (con punto esclamativo). Anzi, come dice Simoncelli nella quarta di copertina del libro, “Già dai tempi delle minimoto mi sono reso conto di una cosa: chi va forte, va forte subito e dappertutto”.

Ho cercato di non farmi impressionare dalla grande partecipazione emotiva di una buona parte degli sportivi italiani, ho cercato di non giudicare quella moto messa accanto all’altare il giorno del funerale, ho cercato, per mezzo di strani principi, di non esaltare le doti sportive del pilota, ma questa cosa del Diobò che bello proprio non riesco a capirla. Una delle frasi più antipatiche che si possano dire è “Se io fossi padre”, senza esserlo. Ma non riesco a trattenermi: se io fossi padre direi, di fronte alla morte di un pilota, che andare forte non significa andare dappertutto. Guarda lì, direi, cosa accade ad andare forte.


Magari sbaglio a pensarla così, e in tal caso vi chiedo di correggermi. Poi lo so che anche camminando per strada si è vulnerabili e pure giocando a pallone e pure giocando a golf e anche stando in poltrona con il telecomando in mano o cucinando. Lo so bene. Allora, forse, a infastidirmi è quel Diobò che bello ripetuto e ricalcato anche dopo una tragedia (tragedia che dimostra quanto la realtà sia diversa e, ammettiamolo, crudele). Forse a levarmi un poco di serenità, in negozio, tra i mille libri, è quell’indicare la passione e la tenacia come virtù. Invece di dire che la passione, magari, andrebbe stemperata per pura e noiosa precauzione. Invece di dire che ad andare veloci si rischia, come si suol dire, la pelle.

Davvero, lo chiedo a voi se il mio è brutto pensare e giudicare. Lo chiedo a voi perché molte volte in libreria arrivano prolungamenti di una realtà che non comprendo. Come in questo caso, visto che non conoscevo bene le doti di Marco Simoncelli, visto che non so nulla di motori, visto che avrò visto in vita mia sì e no tre gare e visto che io non sono mai stato, per temperamento, un essere umano che va veloce (l'ho fatto un paio di volte e mi è bastato) o un essere umano tenace e competitivo. Non ho mai azzardato in vita mia. Le curve, a differenza di Simoncelli, le ho sempre fatte in modo schematico, senza nessuno da inseguire o da distaccare. Sia chiaro, questo non è un post su Marco Simoncelli ma un post sul titolo di un libro che in queste settimane è stato ristampato e che ora ricomincia ad arrivare in libreria e a vendere.

Insomma, mi verrebbe da pensare che questo Diobò che bello (con punto esclamativo) sia leggerezza pagata a caro prezzo, per sfortuna. E poi mi verrebbe da pensare che questa leggerezza stia anche da altre parti. In politica, ad esempio. Ma mi fermo qua, altrimenti rischio di andare oltre e di perdere il filo del discorso. Un filo su cui tutti, veloci o no, camminiamo ogni santo giorno.

10 commenti:

  1. Caro Disagiato,

    ho seguito questa vicenda come tanti, da "fuori", e sono rimasta colpita dalla pacatezza e dalla serenità - se così si può chiamare - dei genitori di Marco Simoncelli.

    Non c'era leggerezza, secondo me, nel suo andare veloce. Lui lo sapeva che poteva succedere, e così i suoi genitori. Lo accettavano, perchè è quello che voleva fare, e lo faceva bene, ma lo sapevano.

    Oltre a essere una assidua lettrice del tuo/vostro blog, sono anche una mammma. Di un maschio. Che ora è piccolo, nemmeno due anni, e vuole guidare il mio scooter quando mi vede arrivare da lavoro. Ecco, ci ho pensato tanto dopo la morte di Marco Simoncelli. E se volesse fare anche lui il pilota di moto?

    Vabbè, spero di no.
    Però è anche vero che un genitore accetta "meglio" (diomio, come si fa a trovare altre parole??) quello che è successo a Marco piuttosto che una stessa morte avvenuta tornando da scuola in motorino.

    In entrambi i casi non hai più la possibilità di vedere crescere tuo figlio. Quello a cui hai insegnato a lavarsi le mani, dire grazie, colorare dentro bordi, mangiare con la forchetta.

    Però nel caso di Marco sanno che ha fatto quello che voleva fare, era felice delle sue scelte e della sua vita. Non so. La vedo così. Magari sbagliamo in due :)

    abi

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  2. Sono moglie di un padre con la passione per il motociclismo, passione che è riuscito ad infilare tra i geni che ha dato in dote a nostro figlio.
    Mio marito è anche una persona molto prudente, non guida mai oltre i limiti di velocità, è rispettoso delle regole e anche questo dev'essere passato perchè il quattordicenne di casa si infila volontariamente il casco anche per farsi un giro in bici.
    Eppure di fronte alla morte di Simoncelli, che li ha colpiti profondamente, non li ho mai sentiti esprimere qualcosa che assomigliasse, anche solo da lontano ad un: "Epperò, cavolo, anche lui, sempre al limite, doveva darsi una regolata".
    Hanno passato un giorno senza fare alcun commento e poi, quando ne hanno iniziato a parlare, lo hanno fatto con cautela, per poi arrivare al: "Epperò, è morto facendo quel che voleva". C'era una sorta di ammirazione.
    Che, come te, ho faticato a capire.
    Però, vedi, mio marito in realtà non stava dicendo a nostro figlio: "Quello è un grande perchè ha lanciato la moto a velocità folli, perchè ha piegato all'inverosimile e fa niente se è morto, è morto da figo". Io credo che quello che ha cercato di dirgli è: "Tu continua ad essere prudente e rispettoso delle regole. Però se c'è qualcosa che senti giusto, che senti tuo, allora vivilo fino in fondo".
    Stava insegnando a mio figlio la forza dell'entusiasmo usando un dramma che lo aveva colpito. Non gli stava certo dicendo di andare a schiantarsi in moto o con qualunque altro mezzo.
    Di fronte a quella morte, gli ha detto "Vivi!".
    Non in contrapposizione e nemmeno in emulazione. L’episodio di Simoncelli era solo un esempio abbastanza forte ed abbastanza vicino a mio figlio da fare da ponte comunicativo.
    Come vedi faccio fatica anch’io a spiegarmi ma, a sensazione, non mi è sembrata leggerezza.

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  3. Sono padre e lo direi, anzi lo dico, che se uno fa una stupidaggine, stupidaggine resta, anche se è il Papi in persona che la fa (la Mami non sbaglia mai) :-)
    ilcomizietto

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  4. E' un po' come lo stay hungry stay foolish
    Quando muori da fenomeno, anche qualche sciocchezzuola detta, diventa oro

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  5. abi
    La cosa che più mi ha impressionato è stata la pacatezza del padre. La mia senazione, che poi è una sensazione da persona maligna, è che anche il funerale fosse un'occasione di festa.

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  6. Franca B
    Non so se è solo una questione di prudenza e regole. Quello che voglio sottolienare è che non sempre l'entusiasmo giova alla salute (in senso ampio). Ecco, quello che mi lascia perplesso è che nonostante la tragedia o anche un semplice fallimento (più o meno importante) c'è chi rilancia invece di fermarsi. L'argomento è assai diverso, ma tempo fa su questa cosa scrissi due righe:

    http://sempreunpoadisagio.blogspot.com/2011/06/facce-da-moggi.html

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  7. ...è quell’indicare la passione e la tenacia come virtù. Invece di dire che la passione, magari, andrebbe stemperata per pura e noiosa precauzione". E "Quello che voglio sottolienare è che non sempre l'entusiasmo giova alla salute (in senso ampio)."
    D'accordissimo. Che poi vabbè mi è venuto in mente, scontato, l'Ulisse dantesco; che sì, è ammiratissimo, ma, come si sa, punito per le sue personalissime e genialissime virtù. E insomma poi esse chi te pare, ma certe cose, pure se sono estetistiche di un'estetica perfetta e impressionista e vitalistica e quello che vuoi, "so'sbagliate", punto. Non è rigidità o moralismo, è "noioso" buon senso. Parlo per me, naturalmente.

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  8. questo post mi ha fatto subito pensare a philippe petit, (ovviamente per la foto che l'accompagna) e al libro di McCann, che ho amato oltre misura.
    anche quello che ha fatto petit è "assurdo". rischiare la vita per non si capisce bene cosa (una passione, uno sport, una sfida). epperò dietro queste imprese spesso si cela il lampo del gesto gratuito di inaudita bellezza. io non amo le moto nè le macchine (così rumorose!) ma resto a bocca aperta come un cartone animato quando mi trovo davanti all'uomo che sfida i propri limiti, e vince, o perde, ma comunque ci consegna, a noi "umani", gesti che non sapremmo/vorremmo/potremmo mai compiere ma la cui bellezza (che non sempre sappiamo riconoscere) talvolta somiglia alla poesia.

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  9. Hai ragione. Per questo ho sottolineato, un po' da vigliacco, che il post non è su Simoncelli e lo sport che praticava, ma più che altro su quello che poi gli è girato attorno, senza la cautela del caso.

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  10. È la passione. È il meglio un giorno da leoni che cento da pecora. È l'inseguire un sogno. È il vivere sul filo del rasoio. Se Simoncelli si fosse piegato alla volontà dei soliti genitori possessivi ed egoisti, probabilmente avrebbe fatto l'impiegato o il manovale, al massimo il gelataio, visto che era l'attività di famiglia. Forse avrebbe trascorso qualche decade in più in romagna, ma quanto avrebbe vissuto? Quanto sarebbe stato vivo, privato della sua passione?

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)