Quando, tanti anni fa, mi iscrissi alla facoltà di Lettere, inseguendo i miei sogni un po' fanciulleschi sulla poesia che salverà il mondo, mio padre si incazzò.
Cioè, non si incazzò un po', come un padre che dà uno scappellotto al figlio strano, ma migliore di molti altri: mio padre si incazzò proprio di brutto. Per mesi mi rivolse la parola con fatica. Anzi, di più: per anni, praticamente, io e mio padre non ci parlammo. Lui mi manteneva agli studi, forse perché lo credeva un suo dovere, ma era incazzato con me; io lo sapevo, e pensavo che si sbagliasse e mi innervosivo.
Mio padre aveva lavorato in fabbrica per tutta la vita, mia madre era casalinga: io ero il figlio bravo a scuola, il ragazzo promettente, il cui futuro sembrava radioso, pieno di soddisfazioni economiche e di riscatti sociali. Vedere che sceglievo Lettere, cioè un futuro orrendo e povero, mandava in bestia mio padre e lo metteva nella condizione di pensare ai suoi sforzi come del tutto inutili. Era normale. Ed era anche normale che mio padre cercasse qualcuno a cui dare la colpa, qualcuno che in qualche modo mi avesse condizionato: le cattive compagnie, quelle che i genitori cercano sempre per scusare in tutti i modi i loro figli, quelle che poi, nel mondo reale, non esistono mai.
La cattiva compagnia che trovò mio padre fu la mia professoressa di italiano al liceo: e mio padre si incazzò, senza mai dirle niente, anche con lei.
Io non comprendevo questa scelta, francamente. Perché pensavo che la mia professoressa di italiano non c'entrasse davvero niente; e quindi ne ebbi un altro motivo per concludere che mio padre non aveva capito nulla, né di me né delle lettere che stavo scegliendo. E andai avanti per la mia strada, non parlando più con lui e studiando un sacco di cose che a lui parevano inutili. Poi trovai lavoro in una casa editrice e ricominciammo a parlarci, piano piano. E della mia professoressa di italiano del liceo ci dimenticammo entrambi.
Anche perché non poteva certo essere lei, la mia professoressa di italiano che si chiamava Maria, la mia complice: lei faceva solo ed esattamente la professoressa di italiano, senza sgarrare mai, senza mai fare altro che non fosse il suo presunto mestiere: lei era invisibile. Entrava in classe, spiegava, usciva dalla classe. Oppure: entrava in classe, interrogava, usciva dalla classe. Spiegava tanto: molti autori e molti testi. Noi prendevamo appunti, studiavamo tanto, venivamo interrogati. Se non eravamo preparati prendevamo 2 (anch'io, una volta, presi 2). Lei non mi disse mai niente, nemmeno una parola, nemmeno il giorno in cui presi 2: era appunto una professoressa invisibile, che entrava in classe, spiegava, usciva dalla classe., nient'altro.
Solo una volta, mi ricordo, disse una cosa parlando direttamente a me: solo una volta in tre anni. Mi disse, nel mezzo di una lezione in cui io ero a testa china sugli appunti, che aveva letto un libro che l'aveva fatta pensare a me e ai miei temi. Io corsi a comprare quel libro, nel pomeriggio. Lo lessi e mi fece schifo; e non le dissi mai niente. Perché non c'era «dialogo», come si dice oggi (e si diceva anche allora), non c'era proprio niente tra me e lei. Lei spiegava, io studiavo, lei diceva a mia madre che ero un ragazzo in gamba, poi mi interrogava, poi mi metteva un voto, in genere un bel voto, poi usciva dalla classe. Ma non mi disse mai nient'altro: non fece nulla che non fosse il suo (il mio) mestiere, mai nient'altro.
Era il contrario del professor John Keating, la mia professoressa Maria; l'esatto contrario di quel professore dell'Attimo fuggente che trascina i ragazzi dentro i suoi sogni e li affascina con le sue travolgenti emozioni letterarie. Io, dentro di me, pensavo che la professoressa Maria non avesse proprio emozioni. Quando scoprii, in quinta, che aveva una figlia, rimasi molto sorpreso. Era strano, per me, pensare che la professoressa Maria avesse fatto l'amore, almeno una volta, con un uomo.
Ecco perché, quando mio padre la riteneva mia complice, io dentro di me ridevo. Perché non c'era mai stato nessun rapporto tra me e la professoressa di italiano, ed era pazzesco che mio padre non lo capisse. Io non avevo nessun ricordo di lei, nemmeno un episodio, nemmeno un momento in cui avesse scaldato la mia passione adolescenziale. Come potevo avere un rapporto con una professoressa così invisibile?
E infatti, quando poi andai a studiare davvero Lettere all'università, mi parve di imparare un sacco di roba nuova, straordinaria: mi innamorai del fare un po' gigionesco di alcuni professori, fui più entusiasta di prima, mi parve di capire molte più cose di quante non ne avevo comprese prima (e mio padre fu sempre più incazzato, naturalmente). E pensai che stavo finalmente imparando la letteratura, lì, in quelle aule universitarie così stimolanti e piene di gente che come me inseguiva i suoi sogni di giovinezza piena di futuro.
Non era vero, naturalmente. Ora che ci ripenso da lontano, vedo bene che i tre quarti di quello che so riguardo alla poesia me li ha insegnati la mia professoressa di italiano del liceo. Spiegando e interrogando, con pazienza, invisibilmente. Vedo bene, solo ora, che la sua invisibilità è stata il regalo più grande che poteva farmi, e anche quello più costoso, per lei come per me. Lei c'era, lei parlava, lei non si è mai messa in mezzo tra me e la scrittura, tra me e i libri, tra me e la poesia, tra me e le mie passioni di ragazzo. Lei si faceva invisibile, ogni mattina. Lei me le lasciava tutte, che fossero tutte mie, le mie passioni. E mi chiedo oggi quanto sforzo possa esserle costato, quella invisibilità così priva di riconoscimenti; mentre il professor Keating, beato lui, negli stessi anni, beato lui, raccoglieva consensi inauditi e spettacolari, tra tutti i giovani studenti di quasi tutte le materie; me compreso, naturalmente.
Ora ci ripenso e mi dico che non so nemmeno se la professoressa Maria sia viva o morta, mentre scrivo: la sua invisibilità non si è mai incrinata, nemmeno dopo. Andai a trovarla un paio di volte, alla fine del liceo, seguendo il rito che unisce molti studenti di vent'anni. Poi smisi. Poi la incontrai per caso in una piazza della mia vecchia città, dieci anni fa: era invecchiata ma mi riconobbe subito. Le dissi che insegnavo: lei mi chiese se ero contento, io le risposi di sì. Mi disse che le faceva piacere. Mi disse anche che c'era stato un mio tema, una volta, che lei non si era mai dimenticata. E mi citò l'inizio di una cosa che io avevo scritto, da studente del liceo, e che nemmeno mi ricordavo di avere scritto.
Poi non l'ho più vista. So che non sono invisibile come lei, quando insegno. So che non ne sarei capace e un po' mi dispiace, anche se forse è giusto che ognuno provi a fare il meglio di se stesso, nel suo proprio modo. E un'altra cosa che adesso so è che mio padre aveva avuto ragione, a considerarla mia complice. Non a incazzarsi con me, in questo senz'altro no: ma a capire che lei, la professoressa Maria, c'entrava, eccome se c'entrava... E quindi oggi, anche senza sapere se sia viva o morta, volevo dirglielo, dopo tanti anni passati a non dimenticarmi: la ringrazio di tutto, professoressa.
forse sbaglio, ma da quel poco che ho capito della scuola, i migliori professori non sono tanto quelli che insegnano una materia, ma un metodo per capirla o anche semplicemente un approccio ad essa. e tutto ciò -a anni di distanza- sento di averlo trovato nell'entusiasmo che trasmettevano alcuni, nel rigore che imponevano altri o nella libertà che concedevano altri ancora
RispondiEliminaTu pensa che io e mio padre non ci parlavamo anche se avevo scelto l'indirizzo di studi che voleva lui: ingegneria, per firmare i suoi progetti. Poi morì e io mi son ritrovato a dover gestire una vita che non avevo scelto.
RispondiEliminaSuppongo che non ci dirai a quale autore e libro ti paragonava :^)
Ma che pezzo bellissimo!
RispondiEliminaMarco87
adesso però sono curiosa di sapere di quale libro si trattava...
RispondiEliminama il libro adesso ti piacerebbe?
RispondiEliminatra i più belli, ora a caldo mi verrebbe da dire il più bello, dei post che hai scritto. sono commossa, tanto. banalmente dico che ognuno di noi ha avuto un prog. gigione, uno stronzo, uno affabulatore, uno narciso, e uno invisibile così. grazie alla mia invisibile io so dall'età di tredici anni cos'è un complemento di limitazione, (oppure letto integralmente i promessi sposi capendo quanto fossero il vangelo indiscusso della lett. italiana. all'epoca non davo alla cosa alcuna importanza, forse neanche sapevo di saperlo, e in ogni caso anche a me quella donna perplimeva: aveva un uomo? e si "baciavano???"
RispondiEliminascorfano, è bellissimo sto post, davvero. è bellissimo il tono, molto volutamente naif, molto sospeso. ti ho adorato mentre leggevo.
ESIGIAMO il titolo del libro. Bellissimo post.
RispondiEliminaBellissimo post. Grazie.
RispondiElimina@frank
RispondiEliminaIo sono d'accordo con te. E penso che sia improtante avere prof molto diversi uno dall'altro, proprio per quello. Per vedere (e imparare, e giudicare) approcci molto diversi.
@laura
RispondiEliminaGrazie molte, per i complimenti. E per i complementi, anche, in particolare quello di limitazione ;)
@Speaker, lanoisette, .mau., e Tinni:
RispondiEliminaCerto che siete proprio curiosi, eh...
Il libro era La storia infinita, di Michael Ende. Non l'ho mai più riletto. Non mai nemmeno voluto guardare il film. Magari adesso mi piacerebbe, non lo so. E in ogni caso, non so perché, non voglio saperlo...
nella versione originale (che posseggo, anche se non ho mai letto :-) ) La storia infinita è scritto con inchiostro rosso e verde, mentre nella traduzione italiana si è scelto di usare font dritto e corsivo. Magari è quello che ti ha fatto peggiorare il giudizio :-)
RispondiElimina(scherzi a parte, credo che l'accostamento sia dovuto alle due parti che si compenetrano, anche se dopo pagina 100 o giù di lì ne rimane una sola... e mi sa che sia quello uno dei motivi per cui a te non è piaciuto)
Io mi ricordo perfettamente che quello che avevo comprato all'epoca (e che non posseggo più: immagino sia in Liguria, in qualche scatolone) aveva le parti in rosso e verde. Non mi ricordo perché non mi piacque e forse ora mi piacerebbe. Ma il rosso e il verde mi insospettirono, di questo ne sarei abbastanza certo...
RispondiElimina@.mau.
RispondiEliminaIl te in grassetto faccio finta di non averlo visto, per amicizia. ;)
mica volevi che io avessi scritto "a tu"?
RispondiElimina(comunque il grassetto era in contrapposizione alla tua insegnante, io quel libro l'ho trovato neutro)
(vabbè. mi piacciono così tanto, 'ste cose, che non c'ho voglia di dire proprio niente, se non che vorrei avere qui, ora, una birra da aprire e da bere alla tua salute con un sorriso ebete stampato in faccia e lo sguardo perso nel vuoto)
RispondiElimina@Leonardo
RispondiEliminaFacciamo che un giorno ce la beviamo davvero una birra, alla nostra salute. Facciamo a metà strada, nella bassa bresciana in mezzo alla nebbia. ;)
Toccante. Io invece vorrei sapere l'incipit del tuo tema che la colpì tanto da ricordarsene anni dopo....
RispondiEliminaSu quello, davvero, mi chiedi troppo. Non ne conservo il più pallido ricordo...
RispondiEliminami informo sullo stato di salute della prof e poi ti dico
RispondiEliminaNo, scusa. Ho visto solo ora il libro "citato". "La storia infinita" di Ende....non è un semplice fantasy, è molto di più, è molto più profondo e dice delle cose inedite sulle dinamiche della mente umana. Ti consiglio sommessamente una rilettura, sono convinta che lo apprezzeresti di più....ciao :)
RispondiEliminaAnche io ho avuto un prof. invisibile. Bravissimo. Mi ha insegnato matematica e fisica. E grazie a lui ho fatto lettere (non in contrapposizione, ma perché mi ha insegnato a scegliere, invisibilmente). E ho imparato a non ostentare il consueto disamore per la scienza dei letterati.
RispondiEliminaAnche io lo rividi una volta, dopo che già me ne ero fuggita a Hogwarts, cambiando città.
E poi gli ho dedicato il mio primo libro.
A questo punto, cara 'povna, tocca a te svelare quale sia questo tuo primo libro...
RispondiEliminaEh beh, pur consapevole che in rete l'anonimato non esiste, rivendico il diritto all'avatar (niente fiction, comunque, solo banale critica letteraria!)
RispondiEliminaEddai, su: proprio perché è critica letteraria, non vorrai negarmi questo piacere...
RispondiEliminaIo al liceo non ho avuto un professore di lettere invisibile. Era visibile eccome, e si faceva sentire anche abbastanza bene. Un professore fermo, deciso, chiaro, e io, manco a dirlo, non lo sopportavo: un 6- al primo tema, a me, che con le parole ho sempre creduto di essere insuperabile. Non ho mai avuto la forza di ricredermi e mollare: ho continuato a scrivere temi, molti più di quelli da lui richiesti, solo per fargli ammettere che ero brava.
RispondiEliminaAlla fine credo, anzi, so di esserci riuscita, e non c'è stata soddisfazione migliore per me del sentirlo parlare del mio tema di maturità anche alle altre classi.
So che è a causa sua che ho scelto di fare quello che faccio. E non smetto di ringraziarlo, mai, nonostante tutta la fatica.
Dimenticavo: non si entra in casa d'altri senza una presentazione. Mi chiamo Veronica, e ti leggo da un po'. Quasi sempre in silenzio, ma non stavolta.
Grazie, Veronica, di avere rotto il silenzio per raccontare di questo prof "visibile".
RispondiEliminaConfermo quel che ho già scritto, in proposito: non esiste un modo, ne esistono molti. Ognuno congeniale a chi lo applica. Poi, è vero, esistono anche i fancazzisti della cattedra: e quello è l'unico non modo.
In fondo, con il post di oggi, volevo solo dire questa cosa: che non esiste il ritratto perfetto del professore "bravo".
Come concordo, Scorfano. E ognuno la strada la trova da sé, che porta all'isola che non c'è... Nel senso che non si potrà mai 'imparare' da un professore che si stima o si è stimato per imitazione del suo modo di fare. Ma solo capendo che si era costruito un modo, e mettendosi di impegno per costruirsi il proprio.
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