di lo Scorfano
«L'insegnamento è, per sua stessa intima natura, un mestiere destinato al fallimento. Chi comincia a insegnare senza saperlo è destinato, per sua stessa intima natura, a essere un pessimo insegnante».
Queste due righe furono le parole con cui mi accolse, 17 anni fa, sulla porta della scuola privata che mi aveva appena assunto, il vecchio frate, professore di italiano e latino, che doveva farmi da "tutor" nei primi mesi della mia esperienza lavorativa. Era un uomo (lo scoprii nei mesi successivi) straordinariamente colto e brillante, un personaggio quasi d'altri tempi, nella sua sobria umiltà e nella sua sottilissima ironia. Io, ve lo confesso, non le capii subito, quelle parole. Anzi, vi confesso anche questo, ancora oggi faccio fin troppa fatica a capirle. Ma, con il tempo, ho anche elaborato uno stratagemma, che mi aiuta a ricordarmele.
Perché, dentro di me, 17 anni dopo essere stato, per la prima volta, assunto come insegnante di italiano e latino, penso che il vecchio frate avesse ragione, quel giorno. E che avesse soprattutto ragione nel dirle a me, quelle parole:
io, giovane entusiasta e pieno di energie , pronto all'insegnamento come se fosse l'unica cosa che nella vita valesse la pena di fare, scattante come un corridore che pensa che la corsa sarà lunga ma vittoriosa.
Mi aveva assunto lui, il vecchio e sobrio frate, dopo un lungo colloquio; forse perché gli era piaciuto il mio curriculum universitario e dantesco, non so. E forse, oltre alle ragioni per cui mi aveva assunto, aveva anche colto in me il pericolo di un entusiasmo mal riposto, di una vocazione che non teneva conto dei troppi ostacoli della professione, di una corsa troppo frettolosa e, quindi, destinata all'inciampo. E, comunque, quella mattina di settembre di diciassette anni fa, mi gelò sulla porta della sua scuola (la mia scuola, per i sette anni successivi) con quelle parole; che infatti (mi siete in questo momento testimoni) non ho mai dimenticato.
Oggi, quando mi capita di pensarle, sorrido. E poi mi faccio questo pensiero, ogni volta: che è il mio stratagemma. Penso a tutte le lezioni che, in questi 17 anni, mi sono piaciute, tra quelle che ho fatto. Ce n'è stata una recentissima, per esempio, una lezione in una quarta liceo, da cui sono uscito soddisfatto: ed è stata una lezione dialogata, una di quelle che da sempre preferisco. Io leggo un testo, io offro qualche spunto, io lancio qualche sasso (metaforico). Poi uno di loro interviene e dice una cosa, un'osservazione, un'idea, magari nemmeno troppo corretta. Ma io su quello costruisco il resto, tutta la lezione.
E poi interviene un altro e fa un'altra osservazione, collegata alla prima. Io la raccolgo, la alimento e cerco di metterla a frutto. A questo punto interviene una terza ragazza, una che ha idee diverse: e dice quali sono le sue idee diverse. E io so che posso combinarle con le idee dei due precedenti, perché il testo dice entrambe le cose, il testo è per sua natura ambiguo e polisemico, il testo offre spunti e percorsi anche contraddittorii.
E poi interviene un quarto ragazzo, e poi chiedo a tutti di dire la loro, e allora ce n'è un altro ancora che prova a parlare, e poi di nuovo il ragazzo che aveva parlato per primo, e poi ancora la ragazza, ma questa volta, subito dopo di lei, prende la parola anche una seconda ragazza. E su quelle loro osservazioni io riesco (non sempre, ma a volte sì) a costruire un percorso interpretativo del testo che volevo leggere, lo costruisco grazie a loro e davanti a loro, e tutto mi sembra perfetto: sono queste, più di tutte le altre, le lezioni che mi piacciono, e a volte ci riesco e quelle volte durano un attimo, le lezioni (per me) perfette, lo spazio di uno schioccare di dita in un piccolo concerto di voci che trovano la loro armonia dentro il testo che gli occhi percorrono.
E poi suona la campana ed esco soddisfatto. Ed è a quel punto che mi torna in mente, qualche volta, il vecchio frate che mi disse quelle parole sul mestiere dell'insegnamento. E in quel momento di vuoto, mentre ancora ho in faccia il sorriso ebete della lezione venuta (forse) bene, penso ai ragazzi che sono intervenuti. E li conto. E sono sei, al massimo sette, qualche volta addirittura dieci. Ma basta. Ma gli altri quindici o venti? Gli altri hanno taciuto. Gli altri hanno aspettato che passasse, gli altri non vedevano (forse) l'ora che finisse, gli altri, per quanto sollecitati, non hanno detto niente. Gli altri hanno taciuto.
Penso agli altri, ogni volta: lo faccio come se fosse un'amara medicina che devo prendere. So che mi fa bene. Me lo insegnò tanti anni fa, sulla porta della mia prima scuola vissuta da insegnante, quel vecchio frate.
Io rimango sempre perplesso sull'insegnamento della letteratura ai ragazzini.
RispondiEliminaCome si può comprendere un testo che parla di una storia d'amore sofferta se non si è mai avuta esperienza di qualcosa del genere? Ti ci puoi avvicinare se hai vissuto qualcosa di simile sulla tua pelle, ma non è la stessa cosa.
Inoltre devi metterci che tu, Scorfano, sei un appassionato, cioè il tuo piacere per le pagine dei classici è molto al di sopra della media, sicuramente perché hai una sensibilità maggiore della "plebe" (me compreso).
Lascia perdere la "plebe", Speaker. ;)
RispondiEliminaE pensa che i ragazzi, quando ho posto loro la questionen di cui parlavo ieri, a proposito di Ariosto, mi hanno risposto che non riescono ad apprezzarlo perché lo sentono "troppo vicino". Ma non ho mica ben capito cosa intendessero...
Anche a me le lezioni dialogate son quelle che piacciono di più. Per questo spero che tutte le mie lezioni siano un dialogo (implicito) con loro: cercando di tener conto di quello che, alla loro età, pensavo; di quello che io ho capito (in questi anni di scuola) essere importante, e quindi studiando la strada da percorrere in quell'intersezione di tempo, spazio e cuori che è una classe.
RispondiEliminaUn ricordo personale: SSIS di alcuni anni fa, tirocinio in una quinta liceo (io assisto alla lezione di un professore, su Ungaretti). Non ho la preoccupazione di far lezione, né di curare l'ordine (che tanto spazio occupano nella mente dei prof). Osservo e basta. Vedo un prof che spiega, parla di guerra, di poesia. I ragazzi si dimenticano di me, estranea. Gli occhi di tutti bevono le parole di quel professore (neanche prendono appunti). Lì ho capito di più perché per me insegnare è una dei mestieri più impagabili del mondo... (e, infatti, mai pagato abbastanza...)
Quanta verità! Non so se aggiungere ahi noi ...
RispondiEliminaLo S, mi ritrovo in ciò che scrivi. Grazie!
(anche quelle "belle" lezioni, sebbene io faccia matematica e scienze alla sc. media: e quelli che non partecipano attivamente??? già ...)
g
@Speaker
RispondiEliminaE' un errore frequente quello di pensare la comprensione direttamente collegata all'esperienza. Tecnicamente oserei dire che leggere Ariosto è già una "pre"-comprensione di quei sentimenti/emozioni che poi si proveranno per esperienza. Ma forse è più giusto dire che è già piena comprensione, nel senso che si comprendono quei sentimenti, quelle emozioni, che un altro ha provato...altro con cui prima o poi avranno a che fare.
LA FRASE DEL FRATE
RispondiEliminaVorrei spezzare una lancia in favore dei "silenti", di quegli studenti che sembrano dormire o poltrire o vivere in un mondo dei sogni.
Ho scritto "sembrano" perchè ad uno sguardo più attento magari ci si potrebbe rendere conto che anche se silenziosi la loro attenzione è grande, i loro occhi non si staccano dalla figura del professore che spiega o dalla figura dei loro compagni che hanno trovato lo spirito giusto per intervenire e dire la loro.
Ho scritto "sembrano" perchè anche io ero fra loro, anche io seguivo la maggior parte delle volte le lezioni senza dire la mia, senza sgomitare per intervenire, ma comunque con il piacere dell'ascolto, con il grande piacere di sentirmi parte di un gruppo "vivo", di una comunità per quanto piccola e ristretta che respirava insieme il sapore delle idee, dei pensieri, dei sogni. Come all'unisono.
Caro Prof, come tu hai la frase del frate a farti compagnia lungo gli anni che scorrono veloci anche io ho una immagine nella mente che mi accompagna lungo la via. Il tuo scritto ha fatto nuovamente tornare vivido alla mente il ricordo: è l'immagine di un'ora di assemblea di classe, senza professore, autogestito da noi studenti di quarto liceo scientifico.
Ebbene, durante questa fatidica ora di assemblea di classe io seduto dopo l'ultima fila di banchi, in fondo alla classe, con la schiena e lo schienale della sedia appoggiati alla parete con i cappotti, la sedia sulle due gambe posteriori, io in silenzio me la "godevo", intendo dire che il mio pensiero, il mio sentimento, il mio "essere uno" con i miei compagni di classe in quel preciso momento era PERFETTO. Si può dire in "comunione"?
Come uno stato di "beatitudine". Un pò come la tua "lezione perfetta". Ci sono di questi momenti benedetti, eccome se ci sono!
Ed il bello è che ce li ricorderemo per tutta l'esistenza.
Marco
P.S.
In pratica non sarebbe impossibile dare voce a tutti tutti gli studenti in quei pochi minuti di lezione? Non si creerebbe un pò di confusione?
@Fil: non lo definirei un errore, piuttosto un limite di alcuni di noi.
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