mercoledì 26 gennaio 2011

pifferi

di lo Scorfano

Leggo, in quinta, una notissima lettera aperta di Elio Vittorini a Palmiro Togliatti. Siamo dentro la settimana del “recupero” e quindi dovremmo fermarci a recuperare (poi nessuno recupererebbe niente, va da sé, ma fermarsi è obbligatorio): però, in quinta, non ho nessuna insufficienza e quindi , obbligatorio o meno, non ho niente da recuperare; studiano tutti, non ci posso fare niente.

Perciò ho pensato di fare un mini-percorso di approfondimento sul neorealismo, che a maggio si fa sempre fatica: ho parlato dei sogni post-resistenziali, della cultura dell’«impegno» e della letteratura militante, di Sartre e della rivista il «Politecnico». Abbiamo visto un film di De Sica; e ho provato a spiegare cosa possa essere un clima culturale diffuso, come quello che appunto chiamiamo «neorealista»; a loro, poveri ragazzi del terzo millennio, che vivono un clima che è soltanto sottoculturale e che fanno fatica a comprendere persino le parole che uso.

E allora, quando ho definitivamente capito che il mio lessico e i miei gesti non potevano bastare, ho pensato che le parole vere dei protagonisti veri di quel clima culturale sarebbero state meglio delle mie. Per forza, ho pensato. E ho scelto di leggere con loro la lettera che Vittorini scrive a Togliatti:  
      quella, pubblicata appunto sul «Politecnico», in cui Vittorini parla del significato della cultura e dello spirito critico, della necessaria autonomia del pensiero culturale rispetto alla pratica politica.

«Non siamo qui per suonare il piffero alla rivoluzione», scrive Vittorini. E rivendica la propria indipendenza, l’indipendenza della letteratura, la sua necessaria libertà di criticare. E io leggo («niente piffero per la rivoluzione») e i ragazzi (alcuni di loro) si guardano e ridacchiano. Li guardo anch’io e mi fermo. Chiedo cosa li faccia ridere. «La parola piffero» mi dice Luca. «La parola piffero è un po’ ridicola. Non la usa mai nessuno». Penso che è in effetti è vero e mi rilasso e sorrido un po’ anch’io. Poi, per fare una battuta, aggiungo: «Pensavo vi facesse ridere la parola rivoluzione…»

E sorrido di nuovo, ma questa volta nessuno sorride con me. Mi guardano perplessi, anzi. E anch’io mi sento perplesso come loro, d’improvviso. E chiedo: «E cosa ne pensate quindi della parola rivoluzione?» Ma loro non pensano niente: mi guardano e tacciono. Muti, ostinati, quasi irritati davanti alla mia domanda, forse un po’ preoccupati.

E io dico: «Lo sapete, vero, che ancora pochi decenni fa i vostri coetanei non parlavano d’altro che di rivoluzione… Lo sapete, no?» Annuiscono. «Lo sapete che, per esempio, in questi giorni, in Tunisia…?» Ma nessuno parla. È come se la parola rivoluzione, un sasso tirato da me che pure non avevo intenzione di tirare nulla, li abbia colpiti e costretti al mutismo.
I miei alunni, miei ragazzi del Duemila, che davanti alla parola rivoluzione finalmente pronunciata come se riguardasse loro, tacciono, annichiliti. Forse anche un po’ feriti. E nemmeno io so più cosa dire: aspetto, provo a continuare a leggere la lettera di Vittorini, ma mi inciampo su alcune sillabe, non so più cosa volevo dire e perché volevo dirlo. E loro se ne stanno a testa quasi bassa, come se qualcosa fosse successo che non vogliono vedere, o far vedere.

Poi suona la campanella e finisce la lezione e anche la mattinata. Siamo tutti stanchi e torniamo a casa. I ragazzi scendono le scale a coppie e a gruppetti, parlando delle solite cose di cui si parla mentre si esce da scuola. Qualcuno, più nervoso, le scende da solo e va bene lo stesso. La parola rivoluzione non significa nulla ed è giusto così. La parola piffero fa ridere, perché ha un suono buffo e non si usa quasi più. Forse la usano i pifferai, mi dico io. Forse non tutti ridono. Ma i miei ragazzi, bravi e studiosi ragazzi del terzo millennio, sono già lontani, ognuno verso casa sua, ognuno dietro chissà quale pifferaio che suona chissà cosa e chissà chi è.

6 commenti:

  1. E se forse non seguissero nessun pifferaio?

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  2. Non lo so, è possibile. Io li vedo così spaesati, come se la realtà che li circonda fosse incomprensibile. E la mia paura è che lo spaesamento possa provocare la tentazione di seguire il primo che passa. E' solo una paura, però, lo ammetto.

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  3. Rivoluzione è una parola che una volta uno sentiva dagli adulti (pazzi! cosa credete, di fare la rivoluzione?). Ma ormai, chi ne parla più?

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  4. Io mi ricordo che l'aggettivo "rivoluzionario" era ancora in voga quando facevo le superiori io. Tipo "cultura rivoluzionaria".
    Poi non lo era affatto, ma questo è altro discorso.

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  5. mi hai ricordato la mia quinta liceo.. :)

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  6. Immagino di averti ricordato quando eri tu in quinta liceo...

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)