Credo sia stato alla fine degli anni Novanta: successe che i titoli di prima pagina del Giornale di berlusconiana proprietà cominciarono a iniziare tutti con un verbo. E il soggetto, sottinteso, era sempre lo stesso: “loro” («Vogliono tassare il pane»; «Ci toglieranno la seconda casa», «Metteranno le mani nelle tasche degli italiani» ecc., tanto per dire). Loro, il soggetto sottinteso, eravamo noi, cioè quelli di sinistra o di centrosinistra o antiberlusconiani, in qualche modo; quelli che stavano con Prodi. Io rabbrividivo davanti a quei soggetti inespressi ma non capivo bene il perché. Rabbrividivo e basta, quasi senza coscienza di farlo.
Oggi, passati molti anni, so perché rabbrividivo, l’ho capito. E so che è un brivido fuori moda, il mio, ma continuo a provarlo.
Per esempio lo provo identico davanti alla parola “primarie”, che anche in questi giorni sta facendo tanto discutere, a Napoli come a Bologna; e che ancora di più sarà usata e farà discutere quanto più si avvicineranno le elezioni vere, che mi sembrano quasi inevitabili ormai.
Non che io provi ribrezzo per le primarie di coalizione, ci mancherebbe; semplicemente non sono mai, nemmeno una volta, andato a votare e continuerò a non farlo. Ma mi pare, però, che le primarie (e il dibattito che intorno ad esse ferve) siano soltanto un piccolo pezzetto, quasi un effetto collaterale, di un problema più grande, che riguarda appunto le coalizioni: il quale problema più grande, nella sua interezza, si chiamerebbe, secondo me, bipolarismo e, in seconda battuta, sistema elettorale maggioritario.
Intendiamoci, non mi chiamo Pierferdinando e non ho mai pensato con simpatia a nessuno che in tal modo si chiamasse. Ma a me pare che è da quasi vent’anni che ci arrovelliamo intorno alle stesse questioni e che non riusciamo a uscire dal cul de sac in cui ci siamo cacciati, quando abbiamo deciso che un sistema elettorale proporzionale non sarebbe più bastato per il nostro modernissimo paese. E che nemmeno una soglia di sbarramento al 4 o 5 per cento sarebbe bastata: bisognava essere maggioritari, a tutti i costi, senza esitare: e soprattutto bisognava essere bipolari. O da una parte o dall’altra, come gli americani. Che però sono diversi da quello che siamo noi, parecchio.
(Io fui invece parte di quella risibilissima minoranza che votò No al referendum nel 1993, in realtà: fummo degli sparuti nostalgici, meno del 18%, e questo mi scoraggiò non poco, lo confesso. Seppi in quel momento [con l'abrogazione della legge elettorale del Senato veniva doppiato il successo che si era avuto nel 1991 con il voto per la preferenza unica, rovesciando definitivamente il principio proporzionalistico a favore di quello maggioritario] che non avrei più avuto una rappresentanza politica come la chiedevo; anche perché pochi mesi dopo comparve Berlusconi con la sua «Forza Italia». E sono date che non mentono, secondo me; coincidenze di tempi che dovrebbero fare riflettere un po’ di più.).
Da quell’anno è stato tutto un precipitare, politico e civile, fino a oggi. Ed è senz’altro vero che di questo precipitare il berlusconismo è stato un ingrediente essenziale e decisivo, un lievito potentissimo; ma non è stato l’unico. E se è stato così potente, è anche perché proprio Berlusconi, meglio di tutti gli altri, ha saputo interpretare al meglio l’essenza del dividersi in due “poli” (del buon governo, della libertà), per come essa si può incarnare in un paese come l’Italia: nello scontro frontale, senza esclusione di colpi, nell’urlo che prevarica ogni argomento, nello slogan che sostituisce la realtà.
Perché, lo confesso, a me pare che l’Italia non sia affatto un paese adatto per un sistema maggioritario e un parlamento bipolare; noi non abbiamo una storia che ce lo consente. Siamo un paese di campanilisti e di tifosi, in cui i nostri vicini sono sempre dei “nemici”, in cui è normale e fisiologico che qualsiasi conflitto degeneri in scontro e in battaglia. Lo siamo da un millennio almeno: è il nostro patrimonio genetico collettivo. I fiorentini contro i pisani, gli interisti contro i milanisti, i bergamaschi contro i bresciani, il nord contro il sud: l’altro è sempre il peggio, l’altro va annientato, l’altro non capisce niente. Da sempre e chissà ancora per quanto.
Berlusconi ha interpretato assai bene questa debolezza tutta italica: e ha cominciato a parlare di “comunisti”, di “complotti”, di “partito dell’amore” contrapposto al “partito dell’odio”. Ha cominciato a parlare di “loro”, che eravamo noi. Era tifo, non più appartenenza politica: e infatti si cominciò a discutere di discesa in campo, come se fossero squadre di calcio, davanti alle quali lo scontro è tutto emotivo e il compromesso impossibile. E, intendiamoci, me piace molto pensare, quando guardo una partita della mia squadra del cuore, che gli altri, di qualunque orribile colore siano vestiti, siano degli incapaci, ingannatori, simulatori e fetenti; e che il calcio di rigore non ci sia mai e l’arbitro sia cornuto. Mi piace insultarli e vederli sconfitti; mi piace addirittura vederli perdere quando giocano contro una squadra inglese. È una partita di calcio, però.
Non mi piace affatto, invece, sentirmi costretto a farlo quando in ballo ci sono il governo e le sorti del paese. Che è il mio, come è il loro; ed è un posto in cui sto meglio io se stanno meglio anche loro (banale, lo so, ma inevitabile). Eppure ultimamente mi ci hanno costretto: a fare il tifo, a sperare nello sfascio, a considerarli nemici e fetenti. E, scusatemi se vi sembrerò superficiale, ma a me sembra che gran parte di questa costrizione venga proprio dal sistema bipolare: o di qua o di là; e quelli di là sono tutti delinquenti ladri e assassini. E se Fini non è più di là vuol dire che è di qua, a prescindere dal suo evidentissimo e inaccettabilissimo passato. E quindi o di qua o di là, sempre e comunque, anche alle primarie, anche dentro le coalizioni. Come se il compromesso, il massimo comune denominatore, il bene di tutti (che è anche la rinuncia a una parte del bene mio personale) fossero un dettaglio. Come se non fossero l’essenza ultima della politica.
Perciò mi capita di trovarmi a pensare che starei così bene se non ci fossero gli altri, “loro”, quelli che non stanno dalla mia parte; e che vorrei tanto che venissero annientati, che sparissero, e non pensarci più. Ma non spariranno, nemmeno se sparirà Berlusconi. E soprattutto, devo sapere che, quello che io penso di “loro”, lo pensano anche “loro” di me; il che è un bel guaio, visto che abitiamo nello stesso paese, che è il mio paese, ma è anche il loro.
Rassegnati: è una battaglia persa. Ma noi siamo tignosetti lo stesso.
RispondiEliminaI pisani sono, invece, l'eccezione che conferma la regola: hanno contro anche e soprattutto i livornesi.
RispondiEliminaIn questo momento, tuttavia, non esiste un terzo polo in grado di incarnare lo spirito labronico.
Se avessi potuto votare, all'epoca di quel referendum, sarei stato sicuramente dalla parte di quegli sparuti nostalgici.
Anche io faccio parte di quel 18% ed ho smesso di tifare per una squadra di calcio dopo l'Heysel
RispondiEliminaTanto per non smentirsi, nemmeno oggi.
RispondiEliminaTitolo dell'editoriale di prima pagina del Giornale, a firma di Porro: "Vogliono rubare nomine e impresa"; e sul Tempo, sempre di oggi: "Pensano alla purga fiscale".
Rabbrividisco ancora.
♪ ... dai manichei che ti urlano
RispondiEliminao con noi o traditore
libera non domine ♫
("nos" domine, ovcors)
RispondiEliminaNon so di chi sia. Provo con Guccini...
RispondiEliminaEsatto.
RispondiEliminaVuoi che te la canti tutta? ;)
(mi prendi in giro, vero?)
anche io ero in quel 18%. E anche io capii allora che ero azionista (o mazziniana, che è la stessa) cosa, e quindi minoritaria, piccolomaestrista e perdente per il resto della vita.
RispondiEliminaUn po' rido: perché negli ultimi due mesi ho conosciuto diverse persone che frequentavo solo in quanto blogger (non faccio nomi, perchè alucuni sono qui sopra) e tutti mi hanno confessato di essere stati in quel 18%. Forse è stato quello il vero spartiacque.
RispondiElimina18%? Così tanto? A me sembrava fossimo molti di meno.
RispondiEliminaEravamo quelli. E siamo rimasti ancora quelli, tra l'altro, anche vent'anni dopo.
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