venerdì 13 gennaio 2012

non era mezzanotte

di lo Scorfano


Allora entrai in casa e cominciai a scrivere: «È mezzanotte, la pioggia sferza i vetri». Non era mezzanotte. Non pioveva.
È una frase di Samuel Beckett, tratta da non so dove e citata non so da chi. Ricordo soltanto di averla letta, tanti anni fa quando ero ancora studente, e di non essermela più dimenticata. Lo ricordo perché a volte succede che siano brevi e insignificanti frasi come questa a insegnarci qualcosa, ad accendere quel po' di luce che resta poi, per molto tempo, a guidarci su una strada.

Ed è, questa frase di Samuel Beckett, una citazione che uso spesso (starei per dire «sempre», se non fosse che ho imparato anche a diffidare di certi avverbi, con il tempo) quando in una mia classe inizio a parlare di poesia. «Non pioveva», dico ai miei alunni che si immaginano di dover prendere appunti sul loro quaderno. «Non era mezzanotte», dico con un sorriso che li dovrebbe insospettire. Ma non li insospettisce mai abbastanza, però, e c'è sempre qualcuno, in genere il più ingenuo e il meno timido, che mi chiede: «E perché lo scrive, allora, se non è vero?»


Ecco, rispondo io, quando sono in forma: ecco, è questa la domanda. Solo che a questa domanda non è mica facile rispondere, dico. Perché? Perché gli uomini inventano storie? Perché gli uomini scrivono poesie in cui non c'è nulla di vero? Se avessimo una risposta a questa domanda, saremmo animali evoluti. E invece... E sorrido; e loro che mi conoscono bene, ormai, sorridono con me.

E invece ci diciamo che l'uomo inventa storie e poesie per conoscere, per capire, per interpretare. Che è tutto maledettamente vero, intendiamoci, ma che non basta. E me ne accorgo, che non basta, proprio grazie ai miei alunni quindicenni, ogni volta. Perché qualunque mia risposta a loro (che sono ingenui, in queste cose, e quindi sono affidabili: non come me, che sono vecchio, non come voi, troppo scafati lettori di blog), a loro queste risposte non bastano. Vorrebbero di più, vorrebbero una definizione, qualcosa che sia la verità, qualcosa che si possa appuntare sul quaderno di «poesia» e imparare e poi ripetere all'interrogazione. Perché gli uomini scrivono poesie? Perché la terra è una palla un po' schiacciata ai poli, ecco perché; oppure perché le partite di calcio finiscono al novantesimo, ecco perché. E loro, lo so, ne sarebbero felici.

Ma forse è proprio perché non siamo felici, ecco il perché. O perché, magari, non sappiamo spiegarci l'infelicità o la felicità, per chi è più fortunato. Le ragioni sono tante, provo a dirne qualcuna anche a loro, provo ad ascoltare quelle che loro hanno voglia di provare a indovinare: «esprimere i sentimenti». «non essere soli», «diventare ricchi e famosi» (ci sono metodi più facili e comodi, però), «perché non si sa fare altro», «perché si è tristi»... Tutte cose che vanno bene, dico io. E però? E però non bastano, nemmeno tutte insieme, nemmeno combinate meravigliosamente l'una con l'altra. «Perché poi si muore», mi dice uno sguardo femminile un po' spaventato. Anche per quello, dico io: ma non solo. E forse non è nemmeno così terribile.

Ma è la questione della finzione, quella che proprio non gli va giù. «Se fosse vero sarebbe meglio» mi dice più di uno. Io non credo, invece. Anzi, è proprio perché non è reale che è più vero. Ma spiegarlo è difficile; difficilissimo sbrecciare il muro della loro adolescente diffidenza, impossibile scalfire il mito ottuso e sordomuto della presuntissima autenticità. La realtà vale molto, la bugia non vale così tanto: è questo che pensano e che non dicono. «Se non era mezzanotte, se erano le dieci e mezza doveva scrivere che erano le dieci e mezza... Era più vero». Ma altre volte sarà stata mezzanotte., no? Altre volte la pioggia avrà sferzato i vetri, no? «Sì, ma non vale... Erano altre volte...»

C'è perplessità, in giro per l'aula. Tutto è finto: anche quelli che parlano come se fosse vero, in realtà fingono. I poeti dicono bugie, gli scrittori inventano storie finte. Cosa possiamo farcene di tutta questa finzione? Eppure... Eppure, dico io, è dalle storie finte che noi capiamo, forse, qualcosa della nostra presunta realtà. Di come è, di come potrebbe essere. Costruiamo similitudini, immaginiamo legami tra quella notte e una nostra notte, sappiamo cos'è il buio della mezzanotte quando la pioggia sferza i vetri. Anche se stiamo leggendo d'estate, al sole, su una spiaggia caldissima. Costruiamo una metafora che ci parla di noi, di come siamo, di come vorremmo essere.

Perché gli uomini scrivono storie finte, quindi? Non ho la risposta, ragazzi, mi dispiace. Se avessi la risposta forse non sarei qui, sarei da un altra parte, sarei anch'io ricco e famoso... E invece anch'io, oggi, come voi, stringo nel pugno un niente, non ho la definizione che vi placherebbe, ho in bocca soltanto un «non lo so», come i vostri. Vi lascio con questa domanda, con questa serie di domande, la prossima volta leggeremo una poesia vera (che è senz'altro finta, però) e proveremo a capire in cosa è vera e in cosa è finta, ci proveremo insieme. Ora ho solo il poco tempo che mi serve a scrivervi alcuni versi su cui vorrei che voi rifletteste, che magari ci scriveste sopra qualcosa, quello che volete, un commento, un'interpretazione, una storia, qualunque cosa. Ne parleremo insieme quando ci rivedremo, la prossima volta. Sono i versi di un poeta portoghese che si chiamava Fernando Pessoa. E che ha scritto così:
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che riesce a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
Ciao, ragazzi, ci vediamo martedì.

29 commenti:

  1. Lacomizietta ha già le idee chiare in proposito: perché le storie sono belle. La sua passione per le storie, in attesa di un maggiore affinamento, fa sì che *ogni* storia sia degna di attenzione e di ripetizione, a patto che sia illustrata o recitata dai MaPi. Ecco, scriviamo e leggiamo storie perché sono belle. Che è come dire: "perché sì". Una risposta che le contiene tutte.
    ilcomizietto

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  2. E' difficile con loro perché gli adolescenti sono puri. "Non esiste il ni" - si arrabbiano - "professoressa", quando io rispondo loro in quel modo.
    E di solito a questo dibattito io poi aggiungo quel pezzo di Calvino sul raccontare storie, e quello di Semprun sull'invenzione come conditio sine qua non per raccontare lo sterminio.

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  3. Il fatto è che in realtà era mezzanotte e pioveva. Dove? Nel cuore del poeta. E' finzione rispetto al flusso condiviso del tempo, ma non lo è rispetto alla propria intimità. Se scrivi un verso in cui piove, allora dentro di te sta piovendo. Non ci sono ombrelli che tengano.

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  4. Trovo meravigliosi i versi di Pessoa, li ritengo un ottimo esempio di come funziona la mente umana: funziona per rappresentazioni, per schemi da richiamare, per immagini che non sempre rispecchiano la realtà. L’importante è che la realtà ne venga ben rappresentata, anche se con elementi che alla fine reali non sono. E questo lavoro, se ben fatto, porta al risultato che il dolore finto e quello vero sono la stessa cosa.

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  5. Io scrivo soprattutto per capire meglio, e per non perdere cose importanti.
    Le bugie - le storie finte - per quanto mi riguarda semplicemente "funzionano meglio". Funzionano meglio così come per ricordare un numero si possono associare lettere e parole alle cifre (è una bugia, ma aiuta a ricordare meglio). Funzionano meglio perchè nell'opera di "cercare la bugia giusta" (mica tutte le storie inventate vanno bene...) si fa un certo lavoro, come dire, di "distillazione".

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  6. @il comizietto
    La saggezza infantile della Comizietta è la risposta.

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  7. E grazie per gli altri contributi, apprezzatissimi per un argomento così impegnativo.

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  8. Secondo me la domanda da porre è opposta: ma quando mai le storie che ci raccontiamo sono vere?

    Quando si spettegola, le storie vengono sempre ripulite in modo da suscitare più emozione, in generale sdegno o ilarità.

    Se a casa devo raccontare quanto è terribile il prof. Scorfano e quante nefandezze compia contro i poveri studenti innocenti, subito la verità va a farsi benedire, sacrificata all'efficacia. E non solo per calcolo, ma anche per estetismo. Tant'è vero che anche quando, nelle storie, si parla bene del prof., ci dev'essere da qualche parte un Gano o un Sacripante che faccia del prof. non uno bravo, ma un eroe (forte, bello e ganzo, per riprendere Cirano, che in tutto questo c'entra molto).

    Se papino deve raccontare alle creature come ha conosciuto mammina, non può dire semplicemente: "Boh, c'ho provato, m'ha detto bene...". Deve invece distribuire glitter a piene mani e infilarci un po' di destino o predestinazione.

    Ah, ecco, mò mi viene la sintesi: le storie sono sogni, a volte anche paurosi, e i sogni son desideri. Che i sogni devono essere veri?

    Uqbal

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  9. E comunque una storia vera, raccontata, non è più vera.

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    1. In effetti, anche questa ha perso per strada un bel po' della sua verità ;)

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  10. ciao,
    mi ricordo che una volta mi accennasti a Montale(?) che in una poesia parlava di cani e non li aveva?
    Ricordo bene? Il post mi ha acceso questo flash.
    Come mio contributo, mi limito solo a dire che i bei versi di Pessoa scontano pur sempre la fatidica domanda: perché?
    Il 2012 ci restituisce uno Scorfano in piena forma, anche se con toni dalla sfumatura diversa rispetto a prima. C'è qualcosa che è successo, secondo me...

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    1. So tratta, credo, di uno dei Mottetti della raccolta Le occasioni. In quel testo Montale parla di due sciacalli al guinzaglio. Al momento di pubblicare la sua Opera omnia, Contini chiese al poeta una spiegazione di quell'apparizione e Montale, in una lettera, raccontò che in realtà si trattava di un solo sciacallo, ma che per questioni metriche (per farsi venire l'endecasillabo) aveva dovuto farli diventare due.

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  11. La finzione arriva dopo che la storia si è compiuta veramente. Il finto dolore è la maledizione del poeta, la sua indiscussa verità.
    Grazie per i versi di Pessoa.

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  12. nonostante tutto frank13 gennaio 2012 alle ore 16:17

    l'arte in generale secondo me è così, è una pulsione che mescola moltissime variabili, l'istinto, la natura umana, le emozioni, il vissuto e altre che adesso francamente non ho voglia di elencare... e insomma ci commuoviamo di fronte alla settima di beethoven, è uno ti potrà anche dire il perchè (magari dal lato scientifico), ma il vero perchè lo sai solo tu... un po' come la vita, perchè siamo al mondo? chi ci ha creati? ma se sapessimo davvero la risposta, e questa non ci piacesse, significherebbe che la nostra esistenza all'interno di questo universo non ha significato? questo è uno dei motivi per i quali io penso che la maggior fonte di risposte per noi, siamo noi stessi...

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  13. nonostante tutto frank13 gennaio 2012 alle ore 16:19

    io lo so che vado sempre fuori tema prof, ma perchè vado fuori tema?

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  14. @Uqbal: il grande Francesco Orlando ricordava che tutto quanto diciamo in forma comunicativa di racconto ha un tasso di letterario e, dunque, di finzione.

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  15. perchè ... "mi dice che la mia anima ha un'ombra" così Gregory Corso sulla poesia.

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  16. buffo. io sconvolgo gli alunni quando do le tracce dei temi, soprattutto quelle che traggono spunto dall'esperienza personale, e dico che sono liberissimi di raccontarmi balle, basta che lo facciano bene.

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  17. Lanoisette

    Io ho avuto classi di eccellenti narratori ed altre in cui proprio non c'era verso. In una quinta ginnasio una ragazza era in grado di farmi ridere nei suoi temi non perché scriveva strafalcioni, ma proprio perché era brillante, mentre un'altra m'ha fatto squagliare quando ha immaginato di visitare la sua stessa città, ridotta ad una specie di atlantide, su un sottomarino giallo.

    Uqbal

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  18. Perché l’unica cosa che ci accomuna tutti è il vuoto che abbiamo alle spalle, l’assenza di uno scopo e di risposte la cui ricerca diventa, di conseguenza, lo scopo stesso. Scopo a cui alcuni rispondono con l’arte, altri con i soldi, altri ancora inventando storie.

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  19. Oh cielo, la poesia di Pessoa è qualcosa di splendido. Grazie (anche per il resto, ovvio).

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  20. Ciao prof! Perdona se mi collego solo ora... Gennaio, per alcuni prof, è arduo!
    Hai posto sul piatto qualcosa di davvero interessante. Nei miei primi anni di insegnamento, la questione era per me davvero pressante. Quando cominciavo a spiegare Dante, prima di arrivare alla Commedia, le domande fioccavano già numerose con la Vita Nuova: Gemma, Beatrice, le donne schermo, la donna gentile... che spazio avevano avuto davvero nella vita di Dante? E allora, Beatrice è stato davvero il suo amore più grande? Davvero la forma più alta di amore conosciuta di Dante è stata quella descritta dopo l'incontro con le donne gentili? Ecc.Dovevo dare risposta prima a me stessa che ai miei alunni!
    E io, col passare degli anni, ho cominciato a dirmi che quello che Dante ha voluto lasciarci scritto è proprio quello che ci ha lasciato scritto (scusa l'espressione lapalissiana). Cioè, che grazie a Dante, noi conosciamo una realtà che è quella di un amore così, è una Beatrice così, sono donne gentili con certi connotati... I desideri che lui ha voluto fissare in quelle figure sono realtà (per lui, e per noi).
    Che poi, non poche cose a proposito le aveva già dette Svevo nella sua Coscienza di Zeno.
    Anche se amo Dante mille volte di più...

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  21. "La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzo, gridando al lupo al lupo, uscì di corsa dalla valle di Neanderthal con un gran lupo grigio alle calcagna; è nata il giorno in cui un ragazzo arrivò gridando al lupo al lupo, e non c’erano lupi dietro di lui" questa citazione di Nabokov è quella che uso alcune volte per addentrarsi nel paradosso della rappresentazione, ben espresso dai bei versi di Pessoa, deviando talora per Magritte : "Ceci n'est pas une pipe" e che qui acquista senso ulteriore quasi come chiosa all'asserzione di Guglielmo.(Nessun lupo alle spalle)
    Tuttavia, perchè c'è sempre un tuttavia per la poesia, mi piace e condivido quel che scrive Ardesia: Saba parla di poesia onesta...

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  22. domani rispondono i ragazzi: ci fai sapere spero?

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  23. Una precisazione sulla citazione di Beckett mi sembra doverosa. Forse non cambia la sostanza del tuo post, però, per amore della filologia, ecco qua.

    La citazione non appare così "unita" come l'hai riportata: "Allora entrai in casa e cominciai a scrivere: «È mezzanotte, la pioggia sferza i vetri». Non era mezzanotte. Non pioveva."

    Tra la prima parte "Allora entrai in casa e cominciai a scrivere: «È mezzanotte, la pioggia sferza i vetri»." e la second parte "Non era mezzanotte. Non pioveva." ci sono ben 100 pagine di romanzo!

    Il romanzo in questione è "Molloy".
    La prima metà della citazione, «È mezzanotte, la pioggia sferza i vetri». Non era mezzanotte. Non pioveva.", è l'incipit della seconda parte del romanzo di Beckett, il racconto del detective Jacques Moran che ha ricevuto l'incarico professionale di cercare Molloy.

    La seconda parte del romanzo inizia così:
    "È mezza notte La pioggia sferza i vetri. Sono calmo. Tutto dorme. Tutta¬via mi alzo e vado alla mia scrivania. Non riesco a dormire. La lucerna diffon¬de una luce ferma e dolce. L'ho regolata. Durerà fino al mattino. Sento il gufo reale. Che terribile grido di guerrat Una volta l'ascoltavo impassibile. Mio figlio dorme. Che dorma pure. Verrà la notte in cui anch'egti, non riuscendo a dormire, si rizzerà e si metterà al suo tavola di lavoro. Io sarò dimenticato. La mia relazione sarà lunga. Forse non la porterò a termine".

    Poi ci sono circa 100 pagine in mezzo.
    E si conclude così:
    "Allora rientrai in casa e mi misi a scrivere: è mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva."

    Marco

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    1. Questo cambia effettivamente un po' le cose. Io non ho mai saputo da dove venisse quella citazione, come ho anche scritto. Grazie per la precisazione filologica.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)