Chiara, che è adesso una mia alunna di seconda, l'anno scorso era una primina spaventata, timida e silenziosa. Chiara stava sempre seduta al suo banco, anche nell'intervallo, e parlava solo su interrogazione e, anche in quel caso, con enorme fatica: diventava tutta rossa (lei che è così chiara, non solo di nome), cominciava a balbettare, le venivano le lacrime agli occhi. Io mi rendevo conto che Chiara aveva studiato, quando la interrogavo (l'esperienza a qualcosa, forse, serve ancora) ma quello che ascoltavo era sempre poco, pochissimo. Chiara, mi dicevo, aveva paura.
Ma io leggevo anche i suoi temi, però. E nei suoi temi trovavo invece tutto un mondo che avrebbe potuto sembrare insospettabile a chi si fosse limitato a sentirla non-parlare. Nei suoi temi Chiara rivelava una sensibilità tutta particolare, un'attenzione agli altri, anche nei dettagli, che mi sembrava rarissima, per una ragazza adolescente: visto che, tutto sommato, è proprio l'egocentrismo sfrenato la massima caratteristica di tutti i ragazzini di 14 anni. Ma lei no; lei sembrava diversa, lei sembrava meglio. Lei, nei suoi temi, riusciva (non sempre, ma ogni tanto sì) a scrivere e raccontare quello che non riusciva mai a raccontare quando doveva parlare.
Anche i suoi genitori, che sono sempre venuti in coppia ai colloqui, lo sapevano. Sapevano che Chiara era timida, che era spaventata, che faceva tutta quella fatica a parlare. Io credo che Chiara non nascondesse molto, a casa: credo che raccontasse dei suoi balbettii, delle sue incertezze, magari anche del suo rossore. Magari le lacrime che tratteneva a scuola le uscivano poi, come un fiume, quando era a casa e ne parlava con mamma e papà. Non lo so, ma me lo immagino. E un giorno, infatti, suo padre mi disse, l'anno scorso: «Sa, Chiara dice che lei le fa un po' paura». Dove quel «lei» ero io.
Io protestai, dissi che no, che non doveva avere paura, che io capivo molte delle sue incertezze, che io capivo che. Allora lui si corresse e mi disse che non solo io, che tutti i professori le facevano paura, che la scuola in genere le faceva un po' paura. Ma io, che non mi fido moltissimo delle correzioni, non ho mai saputo quale fosse la verità. Ho provato a stare più attento, più cauto, più misurato possibile: ma Chiara, me ne rendevo conto, aveva paura lo stesso, e parlava sempre poco, pochissimo. E poi l'anno è finito, e Chiara è stata promossa con una sfilza di faticosissimi 6, e con un 7 di italiano, perché, nonostante tutto, secondo me Chiara scrive molto bene. E poi, qualche mese dopo, è iniziata la seconda. E poi, già dai primi giorni, a me è sembrato che Chiara fosse un po' cambiata.
Ma non ho detto niente. L'ho salutata le ho chiesto come fossero andate le vacanze (l'ho chiesto a tutti), lei mi ha detto «Bene, grazie», come più o meno tutti. E poi, un giorno di ottobre, l'ho interrogata di italiano. E, improvvisamente, Chiara ha parlato: cioè ha parlato tanto.
E ha cominciato a dire cose molto belle, a tratti molto acute, sui brani letterari che avevamo letto e sul loro significato. E io la ascoltavo e quasi non la riconoscevo. E mi ripetevo in silenzio, mentre lei parlava piuttosto prodigiosamente convinta e quasi disinvolta, io mi ripetevo: «Lo sapevo, lo sapevo. Lo sapevo che una scriveva in quel modo non poteva restare a lungo così bloccata, io lo sapevo, cazzo, io che finiva così». E poi le ho dato un gran bel voto, che si meritava.
E poi, qualche settimana dopo , sono venuti a colloquio da me suo padre e sua madre e lui mi ha detto: «Lei non può immaginare quanto era felice Chiara il giorno che lei le ha dato quel voto...» E io potevo immaginarmelo, invece, lo avevo anche già fatto, più di una volta: mi ero immaginato il sorriso con cui Chiara sarebbe entrata a casa e avrebbe detto ai genitori di quel voto. Ma al padre non ho detto niente, ho fatto finta di non essermelo immaginato mai, per non togliergli un po' di quella gioia che aveva nel volermi sorprendere. E poi questi mesi sono andati via lisci, con Chiara che ha imparato piano piano a parlare sempre di più anche durante le lezioni, a dire quello che le sembra, a fare domande su quello che le pare di non avere capito, a sorridere quando io o qualche suo compagno facciamo una battuta; e la sua è diventata una delle voci che io sento di più, quando sono in seconda, e a volte sembra davvero un miracolo.
Ma non è un miracolo, naturalmente. E non è nemmeno un lavoro fatto bene, sarebbe troppo facile dirlo. È solo che l'abbiamo aspettata, tutto qui (e forse già questo è la metà di un lavoro fatto bene, ma non è il caso di sottilizzare, però). E c'è dunque che a volte basta aspettare, nient'altro: che i ragazzi non sono tutti uguali, non sono tutti pronti allo stesso momento, e che aspettare, questo verbo così semplice e stupido, diventa il più difficile e intelligente, qualche volta. E non vale solo per la scuola e gli insegnanti, ovviamente: vale a volte anche per i genitori, mamme e papà, che sembrano più impazienti degli insegnanti stessi; e che sulla loro impazienza costruiscono piccoli drammi adolescenziali.
E insomma, facilissime morali a parte, la storia continua l'altroieri mattina, per caso, quando sono passato in un corridoio, per andare nella mia quarta, e ho visto Chiara seduta in un angolo, da sola. E avevo paura a chiederle se le era successo qualcosa, perché so che è comunque timida e magari si sarebbe sentita in difficoltà. Ma non ho fatto neppure in tempo a pensare la mia paura che lei mi ha visto, mi ha fatto un enorme luminosissimo sorriso, si è alzata e mi è venuta incontro e mi ha detto: «Buongiorno prof, come sta?» E io quasi non la riconoscevo. E poi mi ha raccontato quel che faceva lì da sola (aspettava un'amica, le lezioni per loro erano già finite), e poi ci siamo salutati e io sono andato in quarta contento che quella fosse stata Chiara e che fosse stata così, sorridente.
E poi, infine, perché ne manca ancora un pezzo, stamattina sono entrato in seconda, li ho salutati, ho aperto il registro di classe e stavo per firmare la mia presenza quotidiana, quando ho visto una nota, scritta dal mio collega di chimica. La quale nota diceva: «L'alunna Chiara R. esce dall'aula non autorizzata e si presenta mezzora dopo, senza motivo». E io ho pensato a come era Chiara l'anno scorso, sempre al suoi posto terrorizzata, e a come è diventata quest'anno, che esce senza permesso, e non sapevo bene cosa pensare e un po' mi sono sentito male. E poi ho alzato lo sguardo e l'ho sgridata, a voce alta. E non mi sono fermato nemmeno davanti alle sue scuse. E l'ho sgridata di nuovo, serio in volto: perché non si va in giro per la scuola durante le lezioni e bisogna impararlo. Punto. E lei ha abbassato lo sguardo, un po' rossa.
E forse Chiara non saprà mai quanto è bello per me vederla così, e doverla sgridare per questo. E sapere che poi, durante la lezione di italiano, la sua sarà comunque una delle prime mani ad alzarsi per fare un'osservazione, per chiedere un chiarimento, per dire cosa ne pensa. Lei non lo saprà mai, ma va bene lo stesso, davvero: adesso lo sapete voi, ed è anche per questo, infatti, che scrivo un blog.
OK Scorfano. Se il tuo intento era farmi commuovere ci sei riuscito. Mi sono innamorato di Chiara.
RispondiEliminaho sorriso e sorriso leggendo la storia di Chiara la farfalla.
Eliminacome sarebbe stato bello se mio figlio nei suoi anni di liceo avesse trovato un prof come te, Scorfano, disposto ad aspettare.
Sei sempre un drago quando affronti queste storie.
RispondiEliminaTu pensi che il cambiamento di Chiara sia stato così, un'evoluzione naturale? O che ci sia qualcosa dietro? Tipo qualcosa che l'ha sciolta, intendo.
Ricordo che io in prima media ero un bravo bambino. Pure in seconda. Poi in terza ho fatto teatro e ho iniziato a fare casino. Il mio professore diceva che il teatro mi aveva rovinato, e che mi salvava solo il fatto che andassi bene a scuola.
Questo pezzo mi ha ricordato quello che secondo me è il tuo articolo più bello apparso su questo blog, tra quelli che ho letto: quello del colloquio con il padre del bambino che aveva un talento speciale nello scrivere. Come s'intitolava? Non ricordo più.
Il pezzo a cui ti riferisci si intitolava "un gesto". Il bambino però era un ragazzo di sedici anni. Se lui sapesse che lo hai chiamato "bambino", avresti un nemico in più ;)
EliminaOps, hai ragione! :)
EliminaGrazie, Sco'!
a un certo punto ho sentito i brividi, chiaramente.
RispondiEliminaAnche io sono contenta quando succede alle mie Chiare. Ma - domanda cattiva - alla collega di chimica, sulla nota, lo hai segnato con la penna rossa l'errore di ortografia? Perché io di solito lo faccio (e lo avrei fatto). E non perché mi disegni stronza qualcun altro. Lo sono proprio di mio.
RispondiEliminaL'errore (anche se tutto sommato veniale) è satto lasciato lì tra virgolette, apposta, per i più maligni...
EliminaLa correzione di un collega è un piacere sottile che però non mi concedo, se posso evitarlo. Anche perché la correzione sarebbe la vendetta non del professore che è in me, ma del pierino...
EliminaUqbal
Uqbal: hai ragione, è assolutamente del Pierino (e però con certi professori, delle volte...)
EliminaScorfano: veniale se non fosse che proprio in quel momento, in quel ruolo, in quell'occasione vanifica tutto quanto, o quasi (almeno secondo me).
Scusate l'ignoranza, ma quale sarebbe l'errore di ortografia?
EliminaConosco, credo, una sensazione simile.
RispondiEliminaHo un figlio molto tranquillo e riservato. A casa le occasioni in cui si fa una risata le ricordiamo come eventi rari.
Un paio di mesi fa è stato espulso dalla classe.
Perchè rideva.
A parte il fatto che non riesco neanche ad immaginarmi la scena.
A parte che ho invidiato profondamente quella professoressa che l'ha visto ridere talmente tanto da doverlo allontanare dall'aula.
Ma doverlo rimproverare mentre il cuore dentro esultava è una delle esperienze più surreali che mi siano capitate.
Bravo!
RispondiEliminaChe palle quando i tuoi post finiscono.
RispondiEliminaTroppo buono, Giovanni...
Eliminaecco, fai davvero il lavoro più bello del mondo
RispondiEliminaLeave me alone, Frank ;)
EliminaEh beh! touché, o come si dice da noi, pigghie, e port' a ccas'...;-)
EliminaUqbal
Psiche
RispondiEliminaCaro Prof. Scorfano,
quanto hai raccontato mi sembra una delle risposte più efficaci al post sul "mestiere più bello del mondo". Credo che l'aspetto più appagante del tuo lavoro (e del mio: sono psichiatra) stia nel veder cambiare le persone, vederle crescere, diventare più capaci di affrontare il mondo. Quando la pazienza di saper aspettare viene alla fine premiata proviamo gioia per quell'alunno (o per quel paziente), ma anche ci sentiamo rafforzati nella nostra fiducia nel futuro.
Buon lavoro!
Grazie, Psiche. In realtà questo post era il contraltare di quello, anche nella mia testa. E' nelle contraddizioni (tutte mie) che trovo coraggio.
EliminaCaro Scorfano,
RispondiEliminagrazie per ricordarci una volta di più che davvero i momenti di svolta nella vita di ognuno di noi sono individuali, al tempo giusto, al tempo dovuto, al tempo maturato, al tempo scelto.
Insomma al tempo "kairos" e non al tempo "kronos".
Non potrebbe essere altrimenti. Non saremmo esseri umani, non saremmo liberi di scegliere e di non scegliere, di parlare o di non parlare, di ridere o no, nei momenti giusti e nei momenti sbagliati.
Come fare a riconoscere gli errori? Ma sbagliando, alla grande!
I veri "peccati" di cui dolersi sono stati e sempre saranno soltanto le "omissioni", le inerzie, le indolenze. Dante Alighieri li chiamava gli accidiosi?
Bravissimo nel comunicare pensieri ed emozioni.
Marco
"E c'è dunque che a volte basta aspettare, nient'altro: che i ragazzi non sono tutti uguali, non sono tutti pronti allo stesso momento, e che aspettare, questo verbo così semplice e stupido, diventa il più difficile e intelligente, qualche volta. "
RispondiEliminaEcco vorrei scrivere questo su qualche pagella dei miei alunni, invece di insignificanti e sterili voti. In questo momento dell'anno scolastico avevo proprio bisogno di un post così. Grazie.
Grazie Scorfano!!! sono parole di cui avevo bisogno...aspettare, aspettare, aspettare con pazienza...e anche il mio piccolo bruco diventerà una farfalla meravigliosa.
RispondiEliminabellissimo post, lo propongo subito a mia moglie, sono sicuro piacerà anche a lei.
RispondiEliminaComplimenti, bel post. Sembra preso pari pari da qualche accattivante serie televisiva USA, tipo Glee o roba del genere. Come invidio il fantastico lavoro dell'insegnamento, con tutti questi allievi dalle psicologie così interessanti, queste evoluzioni da ammirare meravigliati, questi fenomeni così rari nel mondo reale...
RispondiEliminaAh il mondo reale... Che cosa struggente la retorica del mondo reale...
Elimina"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia" (a Berto, da W.S.)
EliminaGran bel post!
RispondiEliminagrazie
RispondiEliminaè molto significativo!
Magnifico racconto. Mi sono immedesimata, solo nella prima parte però. Timidissima, talmente tanto che all'orale di maturità non parlato! Più probabile che a me mancasse la stoffa. Ho imparato nel tempo ad amare lo studio e le letture disinteressate.
RispondiEliminaGrazie. Mary
Forse è ancora più probabile che ti sia mancato ancora un po' di tempo, un altro po'. O almeno è questo che il post cercava di dire... ;)
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