Io vendo libri, come sapete. Vendo libri in un centro commerciale, un posto che con la cultura, la didattica e la pedagogia ha poco a che fare. Però, nonostante il mio compito sia quello di fare commercio a qualsiasi costo, io tutte le mattine mi alzo dal letto e mi sento importante: suona la sveglia alle sette e mezza, scaccio il sonno residuo, infilo i piedi nelle ciabatte e tutte le sante mattine sento un brivido velocissimo che parte dalla testa e arriva ai piedi. Ecco, quel brivido significa che non mi sento un mostro, che come l’uomo elefante di David Lynch mi sento ancora essere umano pronto a pettinarsi (anche se di capelli non ne ho poi così tanti), a spruzzarsi un po’ di profumo e pronto a dare un po' di senso alle proprie faccende. Qualche settimana fa, e non ricordo quale fosse il discorso, un conoscente mi ha detto in modo scherzoso ma provocatorio: “Guarda che tu lavori in una libreria di un centro commerciale, quindi non fare tanto il saputello”. Ecco, io a quelle parole ho riso ma dentro, ve lo giuro, sono morto. Ho finto per qualche secondo e poi me ne sono andato. “Te ne vai già?”, mi ha detto il conoscente. “Ho una cosa da fare”, ho detto dandogli un’affettuosa pacca sulla spalla. E guardate che non ero arrabbiato con lui. Ero semplicemente un essere umano umiliato, un essere umano a cui gli hanno appena detto la verità: tu non puoi cambiare le cose.
Perché chi vuole cambiare le cose di professione non fa di certo il commesso in un centro commerciale e di certo non può pretendere di avere un ruolo decisivo vendendo libri di ricette o libri di Alba Parietti. Insomma, io sono un commesso e di me, tutte le mattine, forse penso la cosa sbagliata. Ieri sera ho visto Diario di un maestro, che è un film (uno sceneggiato fatto per la televisione, da non credere) di Vittorio De Seta. Un nuovo maestro (siamo nel 1972) arriva ad insegnare in una scuola elementare di una borgata di Roma. Entra nell’istituto, si presenta a una vicedirettrice o segretaria (“il direttore non c’è, lui non viene quasi mai”) e poi la stessa gli dice che la classe in cui dovrà insegnare è una classe “un po’ particolare”, “con elementi non facili”. “Non li sottovaluti. L’ambiente è quello che è”. “Cioè, come?”, chiede il maestro. “Bé, insomma, lasciamo andare…”, risponde lei.
E in effetti la classe del maestro è una classe difficile e con elementi non facili. L’ambiente è quello che è, insomma: bambini che urlano, che non seguono, che non conoscono la disciplina e il rispetto e soprattutto bambini che non vengono a scuola. Non vengono a scuola perché devono vendere l’aglio al mercato di Piazza Ungheria, oppure devono raccogliere il ferro nelle discariche da rivendere a qualcuno oppure, semplicemente, non si presentano perché la scuola non è cosa importante, per loro e per le famiglie.
A un certo punto il maestro vede in corridoio alcuni genitori che litigano con la vicedirettrice e con alcuni suoi colleghi. Un brutto litigio per questioni che riguardano un asilo che non c’è ma che doveva esserci. Non si arriva alle mani, ma poco ci manca. Poi un maestro dice di aver chiamato la polizia (ma non l’ha chiamata), le mamme se ne vanno e tutti i docenti, impauriti, entrano in un’aula. La vicedirettrice presenta il nuovo maestro ai colleghi e poi dice: “Che cosa le avevo detto ieri? Che l’ambiente è quello che è. Ha visto? Adesso ha toccato con mano”.
E il maestro risponde che lui è appena arrivato, che non può giudicare. E anzi, c’è una cosa più grave che lui vorrebbe segnalare: a lui manca mezza classe, i bambini sono a lavorare. E alla parola “lavorare” i colleghi sorridono, come a dire che non è vero che sono a lavorare ma è vero che sono a spasso. E la vicedirettrice sottolinea che lo aveva avvisato che la sua classe era una classe difficile e poi aggiunge che loro non sono accalappiacani, che non è loro il compito di andare a prendere i bambini e metterli in classe. “Non c’è una vigilatrice, un’assistente sociale?”, chiede il maestro. E tutti, seduti attorno a un tavolo, ridono, si stupiscono di aver sentito le parole “vigilatrice”, “assistente”, “sociale”.
“Io penso che lei debba fare quello che può”, dice la vicedirettrice e il maestro ribatte che non bisogna lasciar perdere, che qualcosa, per questi bambini, bisogna pur fare. “Li vada a cercare lei, se proprio ci tiene”, dice lei. E allora il maestro prende il suo cappotto, saluta addolorato e poi se ne va. E il film è un film sulla scuola pubblica e le sue responsabilità, sul modo di stare con i più piccoli e sul metodo di insegnamento (ai ragazzi non bisogna riempire la testa di date e di nozioni: quello che conta è una scuola aderente alla vita e non una vita aderente alla scuola).
Però, per me, che sono commesso, che lavoro in un centro commerciale, che vendo libri, che non ho responsabilità così importanti, è, questo, un film sulla conquista (e non sulla scuola che deve essere aderente alla vita). “Io penso che lei debba fare quello che può”, dicono al maestro. E il maestro invece fa non quello che può ma quello che deve fare, quello che secondo lui è giusto fare. E io, nel mio vizio di credere che vendere libri sia qualcosina di più che puro commercio, mi sono sentito come questo maestro (e che i maestri non si offendano, per favore)
Però, per me, che sono commesso, che lavoro in un centro commerciale, che vendo libri, che non ho responsabilità così importanti, è, questo, un film sulla conquista (e non sulla scuola che deve essere aderente alla vita). “Io penso che lei debba fare quello che può”, dicono al maestro. E il maestro invece fa non quello che può ma quello che deve fare, quello che secondo lui è giusto fare. E io, nel mio vizio di credere che vendere libri sia qualcosina di più che puro commercio, mi sono sentito come questo maestro (e che i maestri non si offendano, per favore)
Ogni mattina ho il vizio di pensare che entrare in libreria per vendere libri sia fare molto di più di quello che posso. Cioè, a volte, quando la quotidianità avanza sommergendo i minuti e i gesti, penso che vendere libri o scope sia la stessa cosa. Ma quelli sono momenti di sconforto, di abbandono. “Lei deve fare quello che può”, appunto. E invece, appena suona la sveglia e sono lucido, penso che anche il mio mestiere sia bello e importante: vendere libri, che magari (magari, forse) significa anche fare un poco di cultura (magari) con la consapevolezza che la cultura muove le cose del mondo e scansa gli equivoci. Un pensiero che alle sette e mezza di mattina è forte ma che più passano i minuti e più si indebolisce e diventa pallido.
E allora, a volte, finisce che entro in negozio per fare quello che posso. Niente di più, niente di meno. Quando il professore se ne va con il suo cappotto in mano, i colleghi, tutti, dicono: “Vediamo se tra dieci anni sarà ancora così”. Pensa di poter fare scuola con entusiasmo solo perché ha appena cominciato e non ha ancora fatto grandi battaglie. Poi, pensano loro, la stanchezza e le delusioni lo cambieranno.
Non so, io è da sette anni che vendo libri e quello che volevo dire è che ho imparato a non girare a vuoto, a spalmare le energie con criterio e lungimiranza. Perché le energie, arrivati al centro della vita, sono poche e vanno distribuite. Ma ho anche imparato a non accontentarmi mai, a cambiare posizione quando sento il formicolio e a pensare che quello che faccio, tutti i giorni, è molto di più di “quello che posso fare”. Io servo a qualcosa, penso tutte le mattine. Fingo? Mi illudo? Non è bello da dire, ma non lo so. E non lo voglio sapere.
come se permette sto stronzo??
RispondiEliminaTi serve per essere felice, e questo è molto bello.
RispondiEliminaDiffidare di chi crede di poter cambiare il mondo da solo.
RispondiEliminaSono convinto che i veri grandi cambiamenti siano il frutto di tanti piccoli contributi.
Il Disagiato da solo non cambierà il mondo ma quella è l'unica via percorribile, unirsi a lui facendo con dignità e passione quello che in questo momento siamo chiamati a fare.
“Guarda che tu lavori in una libreria di un centro commerciale, quindi non fare tanto il saputello”
RispondiEliminaChe lavoro bisognerebbe fare per poter esprimere la propria opinione?
Ha senso porsi questa domanda?
Ha senso solo se la domanda ti tocca (come tutte le domande). In questo caso per me ha senso, visto che il conoscente reclama una libreria che stia fuori dal centro commerciale. Evidentemente per lui c'è una differenza consistente.
RispondiEliminaO così vuole farti credere.
EliminaMia figlia di 7 anni vuole cambiare il mondo da sola. E io le ho augurato di riuscirci.
RispondiEliminailcomizietto
Ha la mia fiducia e il mio sostegno ;)
RispondiEliminaEhi! Coraggio! Anche uno spazzino della metropolitana può fare qualcosa: http://www.ibs.it/code/9788816573390/seonkyeong-jo/giardino-sottoterra.html
RispondiEliminaScusa se il link è della concorrenza... di seguito una bella recensione: http://ilmondodici.blogspot.it/2012/04/libri-per-coltivare-lottimismo.html
Secondo me, anche un libro della Parietti è un libro. Leggere è comunque leggere. Nei paesi anglosassoni leggono tutti. Quasi sempre libri di consumo, ma comunque leggono. Sei un libraio. Uno comincia con le ricette, da qualche parte si deve cominciare, e poi magari legge qualcos'altro. Già instillare l'abitudine a entrare in libreria, a leggere qualcosa è tantissimo. Ma proprio tanto. Già se fai questo, stai facendo tanto.
RispondiEliminaCredimi, chi legge un libro di Alba Parietti non ha intenzione di andare molto lontano. Ma questo, come hai detto tu, non significa molto. Per il resto io prendo le tue parole preziose e me le tengo ben strette. Grazie ;)
RispondiEliminaE' vero: anni fa ho prestato ad un'amica un libro fesso, mi pare si chiamasse "Le regole", deve telefonare lui, deve offrirti la cena, deve fare l'uomo e tu la donna, tutta una serie di scemenze così. Dopo qualche mese la mia amica mi ha ringraziato perché quel libro le era servito per riprendere a leggere, aveva letto altre cose più interessanti ed era molto contenta di questo.
RispondiEliminaSe con un libro, con una parola strappi un sorriso hai cambiato il mondo. Solo di una persona, è vero. Ma tu non sei contento quando qualcuno ti fa sorridere?
RispondiEliminaSolitamente sì, visto che raramente fingo l'allegria (e spero si sia capito quanto ho detto).
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