giovedì 2 giugno 2011

Quello che pensano i panchinari

del Disagiato

L’anno scorso mia madre ha cambiato lavoro, mio padre invece è andato in pensione. Il lavoro di mia madre consiste nel prendere l’automobile di martedì, mettersi in autostrada e raggiungere una profumeria del nord Italia per vendere fino a sabato i prodotti di una famosa marca di creme e profumi. Situazione strana. Non ho un’idea netta di quali debbano essere i ruoli di una donna e di un uomo, non fraintendente, però continua a farmi un po’ sorridere il fatto che mio padre faccia le pulizie di casa e azioni lavatrici mentre mia madre è in trasferta a darsi da fare. Qualche settimana fa mio padre si lamentava del fatto che mio madre di domenica non lo porta mai fuori per una passeggiata o un aperitivo.

Però l’aperitivo, mio padre, lo beve con me durante la settimana. Infatti capita che mi telefoni per dirmi “Allora?”, “Allora che?”, ribatto io, “Allora stasera cosa facciamo?” e io gli rispondo che va bene, che si può fare e così io e lui andiamo a prenderci un aperitivo a Iseo e a mangiare un boccone in qualche ristorantino o trattoria della zona. Insomma, non so quanto sia bello, però ci comportiamo come due adulti che stanno bene assieme e che si fanno molte confidenze. Inutile dirvi che quello brillante con le cameriere e i baristi è lui, inutile dirvi che quello che ha un sacco di cose da raccontare è lui e inutile dirvi che quello che offre la cena è lui. Sempre. Io parlo del mio blog che tengo con lo Scorfano e lui mi racconta, indicandomi con il dito un punto ben preciso del lago, di quella volta che con il motoscafo lui e una bella olandese e via dicendo; io gli racconto della libreria e lui mi racconta di quando gestiva un bar a Pietra Ligure e che quelli sì che erano bei tempi. Io racconto il presente, lui il presente, il passato e il futuro. Si beve vino, si mangia e, sempre a Iseo, si va al cimitero a far visita a nonni, cioè ai suoi genitori.


L’altro giorno siamo andati davanti alla tomba di nonna e nonno, abbiamo giunto le mani e poi abbiamo finto di pregare. Dopo qualche secondo raccoglimento posticcio mio padre si è distaccato da me per gironzolare per il cimitero. Io lo seguivo con lo sguardo, cercavo una qualche tristezza dettata dalla morte di qualche sua vecchia conoscenza, di qualche amico d’infanzia o di un vicino di casa dei tempi passati. Cercavo in lui una cosa simile allo sconforto e alla consapevolezza che prima o poi, lì in quel cimitero, ci sarebbe finito lui.

A un certo punto però lo sento ridere rumorosamente, tanto da attirare l'attenzione di due persone che gli stavano vicino: “Questo tizio, anni fa, mi ha ordinato della merce che poi non mi ha più pagato” e ride. Io lo guardo imbarazzato per la scena e per la spontaneità non soffocata. “Non mi sembra il caso di ridere, però”, gli dico e lui mi dice un “vabbè” di correzione, tanto per recuperare il contegno. Poi si rimette a camminare e a fermarsi davanti a nomi e cognomi conosciuti e a sorridere ancora o a mormorare un “cazzo, ma l’ho visto qualche mese fa e sembrava in forma”, “guardalo qui il bulletto” e altri commenti che mettevano a disagio me e chi ci stava vicino.

Così osservavo nel sole di maggio mio padre guardare lapidi, nomi, date, fotografie e osservavo la sua testa grigia, la camminata da cane senza guinzaglio, in preda a una curiosità cinica, quasi morbosa, dispettosa. E allora, al suo ennesimo sogghigno, ho pensato che quelle erano tutte sue rivincite. Ho immaginato che quelle persone distese, una volta, dovevano aver avuto una macchina più grossa della sua, che dovevano aver fatto l’amore con una donna alla quale lui teneva tanto e ho pensato a una sua invidia curata e gestita male. Ho pensato a tutte queste cose in un cimitero in riva ad un lago, nel sole di una primavera qualsiasi.

Però poi ho pensato a un’altra cosa. A tutte le volte che durante una partita di calcio (sì, gioco ancora a calcio) mi tocca di stare in panchina e alla mia intima speranza di vedere l'amico centrocampista sbagliare passaggi e l’attaccante spararla alta e il difensore mancare la palla e il portiere prendere gol. Tutti quanti, nutriti di buona educazione, in panchina, speriamo in un gol, anzi due, della squadra avversaria. Confidiamo in una crepa nella corazza, in un segnale ben chiaro di sconfitta per sentirci dire dall’allenatore incazzato: “Dai, scaldati, che tra poco entri”.

4 commenti:

  1. Dai, scaldati, che tra poco entri...

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  2. Post stupendamente umano.

    Mi ricorda un po' "Un calcio in bocca fa miracoli" di Marco Presta :^)

    P.S.: invidio il rapporto con tuo padre.

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  3. Il rapporto con mio padre però è anche un treno che è arrivato in ritardo e carico di silenzi e pensieri tristi.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)