venerdì 17 giugno 2011

fine del racconto

di lo Scorfano

Il racconto della realtà funziona finché non si scontra fragorosamente contro la realtà, è normale. Il racconto della realtà deve essere affascinante e incisivo, deve sedurre, concedere speranze, individuare nemici, saper semplificare il presente, lasciare immaginare il futuro. La forza di Berlusconi e dei suoi uomini migliori (quei pochissimi) è stata questa, per quasi vent’anni: hanno saputo raccontare splendidamente la realtà, e avevano gli strumenti per farlo, le televisioni. Mentre gli altri (tutti gli altri) non ne erano più capaci, non avevano gli strumenti; e se li avevano, li usavano male. Per vent’anni.

Il potere nutre e alimenta se stesso finché sa raccontarsi in modo credibile, è la storia. 
Poi, però, a un certo punto, è spuntata la realtà, prepotente: troppo lontana dalla sua narrazione, troppo in contraddizione con il futuro immaginabile, troppo violentemente diversa.          
             È stata la realtà dei ragazzi laureati e specializzati che però non trovano lavoro; di quelli diplomati e fidanzati, e magari anche occupati, che però non possono comprare casa, se non con l’aiuto dei genitori; è stata la realtà dei genitori che vedono i figli senza lavoro o senza possibilità di comprare casa e che devono dare loro del denaro; e pure la realtà dei nonni e delle nonne (quanti ce ne sono in Italia?), che guardano i nipoti senza lavoro e senza casa e si chiedono come sia possibile che.

Le persone, per strada, hanno cominciato ad applaudire gli studenti che manifestavano bloccando il traffico: erano le persone bloccate nel traffico ad applaudire, anche quelle che non sapevano nulla della riforma universitaria. Le persone hanno votato Vecchioni a Sanremo, che cantava una brutta canzone che parlava anche di quei ragazzi. Le mamme e le nonne hanno cominciato a preoccuparsi, a dormire male. Alcuni padri hanno bestemmiato. La realtà diventava molto più dura e crudele della sua narrazione.

Nel frattempo il prezzo della benzina e degli alimentari saliva molto più di prima. Gli immigrati arrivavano ancora, ma non erano più loro a fare paura: era il futuro, che faceva più paura di loro. Nel frattempo la Grecia esplodeva e in tanti si chiedevano se fossimo così lontani dall’essere greci. Nel frattempo le classi delle scuole si affollavano di trenta, trentacinque studenti l’una; i professori lo dicevano ai genitori ai colloqui: «Non si può lavorare così». I genitori, per la prima volta dopo tanto tempo, facevano un cenno di assenso con il capo.

Il capo, appunto. Il capo nel frattempo si occupava di processi (suoi processi), giustizia, magistrati: nessuno dei padri e delle madri e dei nonni aveva grossi problemi con la giustizia (la maggior parte delle persone non ne ha); il racconto del capo si faceva sempre più irreale, lontano, incomprensibile. E poi tutte quelle donne, troppo giovani, forse pagate, senz’altro mantenute, infilate nei consigli regionali, interi condomini di donne, sempre più brutte da vedere e da ascoltare. Le feste notturne con le donne mentre le mamme si preoccupano dei figli senza lavoro e dormono male.

A un certo punto lo scollamento tra la narrazione e la realtà si è fatto sensibile, eccessivo: era troppo. Le mamme i papà i loro figli i loro nonni hanno dato un segnale: due volte hanno dato un segnale. È solo un segnale, dico io. Non è successo ancora niente:governa sempre chi ha saputo raccontare meglio la realtà negli ultimi vent’anni, non è ancora successo niente, è possibile che non succeda ancora per molto tempo. Non sono nemmeno ottimista: chi ha saputo raccontare, chi soprattutto ha in mano tutti gli strumenti per raccontare, impara presto a raccontare anche un’altra storia.

Ma che deve essere un’altra, appunto: questo racconto è finito, questo racconto non basta più. Fine della storia.

Tanto che, nel frattempo, anche il più cattivo dei ministri, da sempre tra i più amati, con la sua logica dei «fannulloni» e dei lavoratori statali che si vergognano di quello che sono, con la violenza delle sue parole, anche il più piccolo e il più cattivo dei ministri ha scoperto di non saper più raccontare. Ha provato per due giorni a rimediare: dichiarazioni contorte, senza nerbo, senza forza di narrazione. Ha scoperto che le sue parole violente non funzionano più, che la rabbia si sta volgendo altrove; è scivolato proprio sul terreno dei precari, giovani arrabbiati, ma anche figli e nipoti di mamme di padri e di nonne. Precari che lui stesso assume soltanto gratis, niente stipendio niente rimborsi spese. Mentre i parlamentari suoi colleghi giocano con i loro tablet sulle sedie del Parlamento: dipendenti pubblici anche loro. La parte migliore del paese, la parte peggiore del paese.

Ed è stato l’altroieri, ieri, oggi. Le narrazioni del reale hanno una grande forza, finché sanno immaginare cos’è il reale. Quando lo perdono di vista, diventano storielle, barzellette, prese in giro. Le persone non se le lasciano raccontare a lungo, le persone forse... Immerse nella realtà, le persone volgono lo sguardo altrove, cercano altre più credibili soluzioni, altri racconti della realtà e del futuro. Che, ci mancherebbe, bisogna ancora trovare, inventare, raccontare.

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