lunedì 15 settembre 2014

Cocktail e convegni culturali

del Disagiato

Sono passati poco più di cinquant’anni da quando fu realizzato questo breve documentario (via slowforward, che l'ha proposto prima di me) sull’editoria e l’industria che la contiene e la guida, e tra le dichiarazioni di editori e consulenti ormai resi storici e famosi dal tempo – dopo tante fotografie fa senso vederli sullo schermo così vivi e pensanti - mi sono chiesto se per davvero oggi è peggio di ieri o se le cose, al di fuori da qualsiasi riflessione drammatica sulla salute della nostra letteratura, oggi siano diverse da ieri. Sarà capitato anche a voi, ma mi sono accorto che sostenere che oggi si sta peggio fa bene, o così sembra, alla salute: fa bene cercare un appiglio, poter scrutare indietro per imitare anziché guardare avanti per inventare. O forse, insisto, è giusto voltarsi per cercare l’attenzione e l’esperienza di chi c’è già stato e magari ha già sbagliato. Chissà. Sta di fatto che guardando con lucidità e imparzialità il filmato viene istintivo dire per alcune affermazioni “oggi le cose non stanno così” e, per altre considerazioni, “anche oggi le cose stanno così”. 

Si parla, a proposito di libri, di propaganda persuasiva e penetrante, di tecniche pubblicitarie, di veste editoriale accattivante, si ammette che l’editoria è vicina alle altre imprese di produzione rendendo così un libro (un libro di Cassola, ad esempio) un prodotto fuori dal terreno destinato alla cultura. Valentino Bompiani afferma che l’industria editoriale oggi (cioè ieri come oggi) cambia articolo quasi ogni giorno e che “in una casa editrice come la nostra tra novità e ristampe esce un libro ogni giorno”; Carlo Verde sottolinea che mentre la propaganda per mezzo di inserzioni pubblicitarie, di annunci radiotelevisivi, dell’organizzazione dei cocktails e dei convegni culturali appositamente indetti fa chiasso per vendere “quel libro”, la UTET invece rovescia questo processo con altri approcci e sistemi di vendita; Gian Giacomo Feltrinelli dice che è sbagliato imporre al pubblico, per mezzo della persuasione pubblicitaria, i gusti culturali e poi, facendo un po’ di conti, dice che “noi consideriamo che le spese di pubblicità non debbano superare il 7% del fatturato della casa, perché altrimenti le incidenze di queste spese pubblicitarie graverebbero eccessivamente sul prezzo di copertina e cioè sulle tasche dei nostri” elettori (elettori o lettori, non capisco bene cosa dice). Insomma, ci farebbe bene posare lo sguardo su questo pezzetto di storia anche solo per capire quante vecchie e anacronistiche sono le nostre lamentele, per comprendere, guardando dall'alto, la complessità del labirinto in cui ci troviamo.