lunedì 21 ottobre 2013

Le energie mentali

del Disagiato


Nella fotografia qui sopra potete vedere ciò che vedevo io da una finestra di una pensione di Bruges, a maggio. Credetemi, la vista era stupenda e suggestiva, e lo dico con la consapevolezza che quando si viaggia con qualche soldo in tasca e il tempo per fare quello che ci pare e piace, il mondo diventa molto più facilmente stupendo e suggestivo, sia che ci troviamo in Belgio, sia che ci troviamo in Norvegia. Brescia è molto bella, bellissima, ma le preoccupazioni, il lavoro (che ora non c’è), l’affitto da pagare e via dicendo, spesso mi rendono cieco, e la bellezza della città si nasconde dietro una cataratta quotidiana difficile da togliere. Bruges si divide in due parti. Una parte è quella più frequentata dai turisti e cioè quella con le “attrazioni” principali, i bar, i locali, i negozi, i ristoranti; l’altra parte è quella che sta duecento metri più in là, ed è la zona dove oltre ai canali, ai ponti, alle piante che si chinano a baciare gli specchi d’acqua e a qualche Kebab e libreria, non c’è nulla (e qui di turisti se ne vedono pochissimi). Ecco, la mia camera stava in quella parte tranquilla della zona storica della città. Ci sono stato per tre giorni, e una settimana o due (e, perché no, per sempre) ci sarei stato ancora. In quella parte della città. Parte poco visitata dai turisti proprio per la mancanza di vere attrattive: ma che belli i canali, ma che bella la mia ombra sui muri di notte. Si stava benissimo proprio per l’assenza di ambizione di quel quartiere, l’ambizione che spesso rende un posto dinamico e “proiettato verso il futuro, che attira persone creative da tutto il mondo” (lo dice Gerhard Mumelter a proposito di Berlino, Internazionale, 15 luglio 2013). Niente futuro, niente dinamismo e soprattutto per questo amavo quella camera, quella finestra, quel quartiere e quel silenzio. “Non cerco la tragedia, ma ne subisco la vocazione”, diceva Giovanni Giudici di se stesso. Non cerco la pigrizia ma ne subisco la vocazione, e devo dire che quei tre giorni, in quel posto, hanno assecondato in modo perfetto questa mia propensione a non far niente, a non desiderare ciò che è dinamico, aperto, internazionale e che attira menti creative. 

Ho ripensato a Bruges e a quella stanza dopo aver letto un articolo di Roberto Calò sulla condizione dei disoccupati. Eccovi un brano importante dell’articolo: 

Qui stiamo trascurando il lato economico per affrontare l’aspetto identificativo che è la sostanza psichica di un individuo. Stare ore e ore al bar seduto ad un tavolino leggendo un giornale, oppure chiacchierare tutta la giornata in più punti di una città o starsene a casa a vedere la televisione, è una condizione umana tollerabile dalla propria coscienza? Semplicemente ci si spersonalizza. Si perde l’integrità psicologica perchè la psicologia di un uomo o di una donna si basa proprio sull’identità. Chi sei? Non basta il nome, manca l’esperienza formativa, quella qualifica perfettibile che ci rende esseri sociali. E’ qui che il titolo di questo scritto deve far riflettere. “Chi non lavora non è normale!” Non è normale perchè non si riconosce in una categoria attiva. La sua energia mentale non si muove. Manca l’azione. 
Io, adesso, sono un disoccupato. La libreria ha chiuso per sempre e le mie preoccupazioni (quelle che non mi permettono di vedere gli angoli poetici di Brescia) si sono moltiplicate. Come farò a pagare l’affitto? Come potrò, in mezzo a questa congiuntura, finire di pagare la macchina? E la pizza con gli amici? E i viaggi in Andalusia? E, soprattutto, come farò a fare la spesa all’Esselunga? Questo per dire che essere disoccupati è una condizione esistenziale quasi terribile e deprimente: vengono un sacco di brutti pensieri. Chi è nella mia situazione, mi può capire. Non vedo l’ora di trovare un lavoro che sappia darmi un pizzico di soddisfazione e di rimettermi in piedi. Però volevo anche dirvi che questi due mesi di inattività – certo, aiutato dal Tfr e dai soldi dell’Inps – mi stanno dicendo che è proprio bello (per il mio temperamento, ci mancherebbe) stare fermi, non lavorare, non avere a che fare con clienti, colleghi e datori di lavoro. Magari mi sbaglio, ma io non mi sto spersonalizzando, come dice Roberto Calò dei disoccupati. E oltretutto non sto subendo una crisi di dignità, e non mi sento mutilato. Insomma, io non lavorerei mai. Me ne starei per sempre come in quei tre giorni in quel piccolo quartiere della città belga: a pensare (a che cosa, non lo so), a leggere, a passeggiare e a fare poco altro. 


A lungo andare, a non lavorare, ci stufa, direte voi. A lungo andare la psiche non cresce “come dovrebbe”. Non so che dirvi. Sarò persona arida, ma io ho sempre lavorato per un unico motivo: ottenere soldi, perché i soldi mi rendono più libero. Per me non è vero che il tempo è denaro, ma semmai è il denaro che è tempo. Il mio tempo. Calò scrive: “ci sono delle categorie esperienziali, ognuna delle quali è composta appunto da esperienze determinate di cui l’uomo è padrone”. Ecco, io della categoria esperienziale ne farei a meno, per sempre. Certo, c’è l’affitto da pagare. E poi ci sono tante altre preoccupazioni.