domenica 7 luglio 2013

Cuochi

del Disagiato

Entrai per la prima volta nella libreria nella quale lavoro oggi per fare un colloquio. Ero uno studente fuori corso iscritto alla Facoltà di Lettere di Milano, avevo pochissimi soldi e facevo il cameriere in un ristorante di Brescia. Quando mi telefonarono per dirmi del colloquio, e di una possibilità di lavoro in quella libreria, esultai. Libri. Vendere libri. Stare in mezzo ai libri. A me i libri piacevano tantissimo e starci in mezzo tutto il giorno, pagato… insomma, potete immaginare la gioia. Arrivato in libreria, la responsabile mi portò in un piccolo magazzino, mi fece sedere e dopo una brevissima presentazione mi disse che loro essenzialmente avevano bisogno di una persona seria e con tanta voglia di lavorare. Di voglia ne ho, dissi, ma oltre alla voglia ho pure le conoscenze: "Leggo libri e conosco le case editrici”. “Guarda, questo non ha molta importanza”, mi rispose lei. E me lo disse con il tono di chi è stanca di sentirsi dire una cosa come quella. “Non ha importanza?”, pensai. Lavorare in una libreria significa conoscere gli scrittori e i libri, se non sbaglio. Ma me ne stetti zitto, un po’ impressionato, un po’ spaventato. Poi la responsabile mi disse che serviva la mia disponibilità anche a chiudere il negozio alle dieci di sera, a lavorare di sabato e di domenica, a sollevare pesi, a sporcarmi le mani, a maneggiare soldi, a non perdere troppo tempo con i clienti e a rendermi disponibile a fare qualche ora in più qualora ce ne fosse stato bisogno (già, altri tempi). “Ecco, mi serve una persona disposta a fare tutte queste cose”, chiuse sbrigativamente, Non mi parlò di libri e non mi parlò di letteratura, quindi. Non voleva conoscere me e i miei interessi; serviva una persona che lavorasse a testa bassa, senza perdere troppo tempo con i clienti. Io vacillai. Ripeto, su quella sedia, in magazzino, mi aspettavo che mi si richiedesse un po’ di competenza. Che si valutasse, più che altro, la mia voglia di stare con i clienti per proporre loro libri che conoscevo o che avrei conosciuto. “Questa donna è matta”, pensai allora, tanti anni fa, prima di dirle che sì, che ero disposto a fare quello che mi chiedevano. Ve l’ho già detto che ero senza soldi?

Come racconta in Se questo è un uomo, Primo Levi viene catturato dalla milizia fascista il 13 dicembre 1943. Ha ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza e una decisa propensione a vivere in un suo mondo scarsamente reale. Negli interrogatori che seguono, Levi si dichiara “cittadino italiano di razza ebraica” e come ebreo viene inviato a Fossoli e poi, assieme ad altri come lui, trasferito in Polonia, disperati, disintegrati nel loro essere: “Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli”. Dopo aver varcato un cancello che regge la scritta ARBEIT MACHT FREI, i prigionieri vengono fatti entrare in una "camera vasta e nuda, debolmente riscaldata". Sono tutti spaventati e soprattutto assetati. Questo è l’inferno, pensa Primo Levi. Non si riesce neppure più a pensare oltre che a bere. Gli uomini vengono denudati dopo essere stati disposti in file da cinque da una SS. “Attenti a non farvi rubare le scarpe”, dice quest’ultimo. “Rubare le scarpe?”, si domanda lo scrittore. “Rubare da chi? Perché ci dovrebbero rubare le scarpe? E i nostri documenti, il poco che abbiamo in tasca, gli orologi?”. Tutti quanti vengono tosati e questo li fa sentire come bestie. Nessuno spiega loro cosa sta succedendo, fino a quando un uomo vestito a righe entra nella stanza e a loro, in un brutto italiano, spiega che si trovano a Mònowitz, vicino ad Auschwitz, che sono in un campo di lavoro, che riceveranno scarpe e vestiti, che sono in quella stanza per la doccia e per la disinfestazione, che ci sarà lavoro per tutti e che lui è un medico ungherese che ha studiato in Italia. Lui è lì da quattro anni non perché è ebreo ma perché è un criminale. Dice altre cose, evita di rispondere alle domande dei prigionieri, tanto che Levi pensa che quel medico ungherese tanto cortese è un matto: “Forse è un matto: in Lager si diventa matti”.

L'ungherese continua dicendo che tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio, che lavorando bene si ricevono buoni per comprare sapone e tabacco, e poi dice anche una cosa che Levi non capisce e che comprenderà solo più tardi: chi tira bene di boxe può diventare cuoco. E perché mai chi tira bene i pugni può diventare cuoco? Sì, questo medico ungherese deve proprio essere matto. A tutti loro, dichiarerà in un’intervista lo scrittore (Conversazioni e interviste, Einaudi, 1997, pag. 193) questa cosa del pugile e del cuoco sembrò una cosa assurda e folle. Ma solo dopo capirono che era proprio così: in un campo di lavoro come quello, in quelle condizioni, “per il cuoco è indispensabile saper stendere a pugni, perché deve saper difendere i suoi manufatti”. Lo capirono solo più avanti, quando molti di loro era già uomini annientati, quando l’esperienza era lezione da imparare e tramandare. 

Da poco tempo, anch'io, ho capito che per essere bravi cuochi bisogna tirare bene di boxe. Per sopravvivere oggi in una libreria – il paragone con un campo di lavoro è azzardato, scusate - bisogna esseri seri, disposti a chiudere il negozio alle dieci di sera - cinici e magari silenziosi - e a non perdere troppo tempo con i clienti. Sì, ma conoscere un poco di letteratura, gli autori e le case editrici, serve? Aiuta ma non è indispensabile per difendersi dall'incredibile quantità e dalla scarsa qualità. Anni fa la responsabile mi aveva avvisato che per sopravvivere e per guadagnare sarebbero servite ben altre virtù e predisposizioni. In un campo di lavoro come questo, mi disse lei, il cuoco deve essere bravo a rifilare pugni, più che cucinare. E magari non solo nel mio, ma anche nel vostro campo di lavoro, lettori che siete con me in questa vasta e fredda camera.