Un paio di settimane fa è morta la mia vicina di casa. Aveva settantadue anni e da tempo soffriva di un male che ha un nome che non ricordo più. Questione di cuore, comunque. L’altra sera parcheggio la macchina al solito posto, apro il cancello, percorro il vialetto, entro nel condominio e poi quello che vedo sono tre o quattro persone sconosciute con una faccia da funerale. “Madonna che facce da funerale”, ho pensato proprio in quel momento. E quando dopo sono salito al primo piano e ho visto un’altra mia vicina di casa piangere, ecco, il quel momento ho capito che era successo qualcosa di davvero brutto. Cosa è successo?, ho chiesto allarmato. E allora mi hanno raccontato che siccome la signora la sera prima si sentiva peggio del solito, era stata accompagnata dal marito all’ospedale, dove era rimasta per dei controlli. E poi all’ospedale, sotto gli occhi dei medici, è morta.
Un paio di minuti dopo sono entrato in casa mia, ho chiuso la porta a chiave e poi me ne sono rimasto immobile, al buio, per un minuto buono. Non ricordo a cosa ho pensato, in quel minuto. Forse al fatto che prima ci siamo e poi non ci siamo più. Un paio di sere dopo mi sono fatto forza e sono andato a fare le condoglianze al marito. In occasioni come queste io vorrei mandare bigliettini. I bigliettini sono un’invenzione fantastica: si dice senza guardare in faccia. Volevo dirti che ti amo, ad esempio. Oppure: scusa per l’altra sera amico mio; guardi che facendo manovra le ho rigato la macchina; mi dispiace che sua moglie sia morta. Ma il fatto è che mi hanno insegnato questa sciocchezza dell’essere gentili, sensibili e umani e che certe cose bisogna dirle e non scriverle. Insomma, sono andato davanti alla porta del mio vicino di casa, ho suonato, lui ha aperto e guardandolo dritto nelle palle degli occhi gli ho detto: mi dispiace tantissimo per sua moglie.
Lui allora mi ha fatto entrare, piangendo mi ha biascicato parole che non ho capito bene, io gli ho messo una mano sulla spalla e poi gli ho detto: “Per qualsiasi cosa, io ci sono”. Lui mi ha fatto un sorriso bagnato di lacrime e mi ha ringraziato. E infatti nei giorni seguenti mi ha fermato sulle scale e mi ha fatto entrare in casa sua per farmi vedere una tristissima collezione di portachiavi in ferro fatti da lui in questi ultimi trent’anni, per farmi vedere alcune fotografie fatte a Mosca nel 1994, per farmi vedere alcuni vinili datatati e per farmi vedere un orologio ottagonale stranissimo. In questi giorni mi ha fermato come fanno gli uomini soli e caduti improvvisamente in disgrazia. E io mi sono armato di pazienza e ho ascoltato e ho guardato. Con pazienza.
Da un paio di sere, però, salgo al mio terzo piano in punta di piedi, per non farmi sentire. Piano piano, gradino dopo gradino, entro in casa mia come un ladro, girando la chiave e la maniglia al rallentatore. Entro in casa, mangio, guardo una partita di calcio e poi, prima di andare a letto, dal mio balcone guardo la sua finestra illuminata. Poco fa invece ho visto lui davanti al televisore, con la testa leggermente piegata e alzata. Vederlo così, da dietro, sembrava morto. Ma non è morto. È semplicemente un essere umano seduto in poltrona che non sa cosa fare. Comunque anche domani salirò le scale senza farmi sentire, entrerò nel mio appartamento e poi me ne starò da solo in poltrona a guardarmi un'altra partita di calcio. Ogni tanto dirò qualcosa ad alta voce su un fuorigioco inesistente o su una punizione non concessa.
E' per situazioni come queste che ti fai chiamare "Il Disagiato"?
RispondiEliminaAnch'io non riesco a fare le condoglianze alla gente che ha perso una persona cara... Perchè secondo me è una cosa troppo ovvia dire "Sono dispiaciuto per quello che è successo".
Però ecco, non mi piace fare le condoglianze ma non farei mai le scale di soppiatto, ma ti capisco!
Per questo e per altri due o tre motivi.
RispondiEliminaportagli a casa un paio di libri da leggere
RispondiEliminaBellissimo davvero.
RispondiEliminaE pure io farei le scale di soppiatto.
Ti ringrazio Mr.Tambourine.
Elimina"Chissà con quanta compassione mi ha guardato, ogni giorno, dalla finestra, da quando il bisbiglio del quartiere lo ha informato di cosa era capitato a mia moglie; chissà quanto dolore mi ha indovinato addosso a ogni gesto che facevo, durante le ore che passavo qua davanti senza provare nessun dolore" (capitolo 25).
RispondiEliminaSono d'accordo con plus1gmt, potresti regalargli un libro da leggere. Però forse "Caos calmo" l'ha già letto. Allora fai tu, che saprai scegliere.
Disagiato, non mi sembri disagiato per motivi così: io penso che essere umani (non appena gentili, senisibili, ecc) sia proprio quello che descrivi tu: pensare che un minuto ci sei e un altro potresti non esserlo più. Voler mandare un biglietto mentre sappiamo bene che il biglietto può scaldare come un fiammifero, ma una stretta di mano di più. Dire "ci sono" anche se vorresti scappare, ché il vuoto della vita di un altro non puoi certo riempirlo tu. Ed entrare di soppiatto perché, appunto, non siamo all'altezza di certe situazioni che vorremmo lenire (e neanche capaci di esser coerenti con quel che diciamo).
RispondiElimina(Se questo è il disagio, vuol dire che tutti siamo disagiati così...)
la difficoltà della solitudine, il salvarsi dal dolore (altrui); crea sempre imbarazzo il dolore altrui.
RispondiEliminaTi ringrazio della compassione, sincera o non sincera che sia. Sappi che ti sento quando rientri, anche se passi in punta di piedi o con le scarpe in mano. Vai tranquillo. Non tenderò certo agguati a chi è più infelice di me, pur non avendone apparenti ragioni.
RispondiElimina