lunedì 8 aprile 2013

Stasera

del Disagiato





Non ho trovato una fotografia in cui Cesare Pavese e Italo Calvino siano insieme, nella stessa inquadratura, ma i due sono stati amici, e questo lo possiamo affermare perché lo dice la loro biografia e perché, a parole, lo dice lo stesso Italo Calvino in una breve saggio-intervista del 1984 che s’intitola La mia città è New York: “In un primo momento, comunque, ero un provinciale; vivevo a Sanremo e non avevo una cultura letteraria, visto che ero studente in Agraria. Poi sono diventato amico di Pavese…”. Anzi, altrove ha detto che Pavese per lui oltre ad essere un amico era anche una guida, un maestro, un grande scrittore e lettore di riferimento: “Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere, senza il punto di riferimento di quel lettore ideale”. Infatti non appena il giovane Calvino scriveva qualcosa, andava dal suo amico per sentirsi dire se il racconto era bello oppure no. E per Pavese i racconti di Calvino erano belli. Poi, un giorno, Pavese gli dice: abbiamo capito che sei capace a scrivere racconti, ora è arrivato il momento di scrivere un romanzo. E Calvino, allora, scrive un romanzo sui partigiani che s’intitola Il sentiero dei nidi di ragno, che è un romanzo importante non tanto perché è il suo primo romanzo ma perché è una storia che potremmo dire realista o, meglio, neorealista. E cosa c’era di strano nello scrivere un libro neorealista in un periodo in cui il neorealismo lo "facevano" molti intellettuali? 

Adesso provo a spiegarlo, sperando di non andare fuori dai binari. I sentieri dei nidi di ragno, a guardar bene, non è un romanzo neorealista ma è un romanzo che prende molte altre direzioni, quasi fiabesche, come tutte le altre pagine di Calvino che verranno. I fatti vengono raccontati seguendo il punto di vista di un bambino (“Sono due razze speciali: quanto i tedeschi sono rossicci, carnosi e imberbi, tanto i fascisti sono neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo”) e forse per questo la storia non ha proprio l'umore del neorealismo. Di questo romanzo non bisognerebbe dire che è un romanzo neorealista con un tocco fiabesco ma un romanzo fiabesco con un tocco neorealista e questo tocco esiste anche grazie a Pavese, che Calvino ammira come scrittore. Poi, ad essere precisi, ad influenzare il giovane Calvino fu anche Elio Vittorini, che insieme a Pavese portò un pezzo di letteratura americana in Italia. Ma questa è un’altra storia. Insomma, Calvino è talmente vicino a Pavese - che per lui rappresenta un certo modo di fare letteratura - che scrive un romanzo sui partigiani non secondo le sue regole, non con quelle correnti fantastiche che caratterizzano i racconti di quel periodo (Ultimo viene il corvo, 1949) e di altri periodi.

Calvino arriva – in realtà ritorna – a Torino subito dopo la guerra, si iscrive alla facoltà di lettere e poi, nel 1946, conosce di persona Cesare Pavese. L’uno e l’altro si ritroveranno a lavorare insieme per la casa editrice Einaudi - Calvino comincia vendendo libri a rate - e il sodalizio e l’amicizia dureranno fino al 1950, anno in cui Pavese muore, suicida. Ma prima, come già detto, sono legati da un’importante amicizia nonostante le differenze di carattere e di abitudini. Calvino, per fare un esempio, sostiene che il viaggio e le esperienze servono per una buona scrittura, invece Pavese, gran nemico del viaggiare, ribatte dicendo che la scittura nasce da un germe che ci si porta dietro per anni, magari da sempre; cosa può contare su questa maturazione tanto lenta e segreta l’essere stato qualche giorno di qui o di là? Le differenze, poi, stanno nello stile e nel movimento della scrittura e dello sguardo. “Il fatto è che i nostri modi di lavorare sono sempre stati diversi; io non parto da considerazioni di metodologia poetica: mi butto per strade rischiose, sperando di cavarmela sempre e per forza di natura; Pavese no, non esisteva una natura di poeta, per lui; era tutto rigorosa autocostruzione volontaria, non muoveva un passo se non era sicuro di quel che faceva, in letteratura; così avesse fatto nella vita”, confida a Carlo Bo nel 1960. Ma queste diversità non contano. Italo Calvino ha un importante punto di riferimento. In Eremita a Parigi, scrive: “E posso dire che per me, come per altri che lo conobbero e lo frequentarono, l’insegnamento di Torino ha coinciso in larga parte con l’insegnamento di Pavese. La mia vita di Torino porta tutta il suo segno…” 

A Torino, il 27 agosto del 1950, in una camera d’albergo, Cesare Pavese si suicida, e a questo punto succede una cosa per me molto curiosa e strana. Calvino, l’uomo che lo ha affiancato negli ultimi suoi cinque anni di vita, scopre che Pavese soffriva di depressione. Lo dice a un giornalista, nel 1959, in un’intervista per Il Giorno (Pavese fu il mio lettore ideale): "Prima che morisse, non sapevo quel che i suoi amici più vecchi avevano sempre saputo: che era un disperato cronico, dalle ripetute crisi suicide. Lo credevo un duro, uno che si fosse costruito una corazza sopra tutte le sue disperazioni e i suoi problemi, e tutta una serie di manie che erano tanti sistemi di difesa, e fosse perciò in una posizione di forza più di chiunque altro”. E Calvino, dice sempre nell’intervista, non sapeva neppure che Pavese tenesse un diario, cosa che scopre qualche tempo prima della morte dell’amico: “Un giorno, non ricordo come, seppi che teneva un diario. La cosa mi stupì perché mi pareva che il suo ideale letterario e umano, tutto concreto e schivo, fosse agli antipodi di quella preoccupazione per la propria interiorità che occorre per tenere un diario”. Calvino, allora, corre da Pavese e gli dice: “Tieni un diario? Ma sei matto?” e Pavese lo rassicura dicendogli che è un diario di riflessioni, di idee, tipo Zibaldone di Leopardi, e che non è uno di quei diari dove si scrive “stasera sono tanto triste”. Invece, scoprirà troppo tardi Calvino, era un diario – diario che verrà pubblicato con il bellissimo titolo Il mestiere di vivere - anche a quella maniera e cioè dove si scrive “stasera sono tanto triste”. “Per me il Pavese vivo resta più importante e presente del Pavese come lo si è visto dopo la morte”, dice per chiudere il discorso. Sarà così, ma a me questo aneddoto del diario ogni tanto mi ritorna in mente quando in libreria guardo le mie colleghe con le quali lavoro da più di cinque anni, tutti i giorni, e che io conosco molto bene: Marta è felice, tra poco si sposa, Sabrina finalmente è riuscita a risolvere alcuni problemi che aveva con la madre e Anna mi ha raccontato che la banca le ha concesso un prestito per acquistare la casa che voleva da anni. 

Loro mi conoscono, non potrebbe essere diversamente. Ad essere sincero, sopraggiunge qualcosa anche quando al telefono parlo con mio padre, mia madre o mio fratello, quando rido per una battuta con un amico. Conosco le loro vite e so che di sera non dicono, non pensano e non scrivono “stasera sono triste”, su un diario o anche solo su un pezzo di carta. Solo che ultimamente non lo so più con certezza. E anche loro farebbero bene ad avere qualche dubbio quando pensano a me, a qualche chilometro di distanza, quando fuori arriva il buio e magari poco prima ci siamo detti: “va tutto bene”, “dai, domani ci rivediamo”.

8 commenti:

  1. Il dolore è incomunicabile, ed è per questo che bisogna guardare le persone bene bene e per tanto tempo e con gli occhi adatti, per provare a vedere cosa c'è dentro. Anzi forse, ora mentre scrivo mi viene da dire che non tutti abbiamo la capacità di vedere che cosa c'è dentro gli altri.

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  2. L'ho ricollegato ad un altro tuo post, scritto anni fa, in cui ci raccontavi di un ragazzo che lavorava come manutentore nel centro in cui lavori, che un giorno si è sparato un colpo in testa. Sorrideva sempre, dicevi.

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  3. Amore, empatia. Si possono ottenere entrambi da una sola persona, se si è abbastanza fortunati da incontrarla.

    La comprensione è la capacità di essere colpiti dalla sofferenza altrui. L'empatia richiede che si arrivi quasi a provarla.

    .....francesca

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  4. Una parola su Calvino, non tanto come scrittore, ma come persona: ho sempre pensato che fosse "superficiale", o almeno una persona chiusa nei propri pregiudizi , nelle proprie convinzioni. E lo dico anche per il suo rifiuto a Morselli riguardo "il comunista" che ho amato molto. (così come ho apprezzato molto anche dissipatio H.G ( !!!!), un dramma borghese , contropassato prossimo ) ..
    Hai mai letto la lettera di stroncatura di Calvino a Morselli ? "gran parte del mio giudizio è basato su questo a-priori "....beh, la dice lunga..
    Leggere di quest'amicizia con Pavese non ha fatto altro che confermare questa mia impressione di calvino come superficiale ..sarò impietosa, però...cavolo !!!!
    Francesca

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    1. Sì, devo averla letta tra le sue corrispondenze. Andrò a rileggerla, grazie.

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  5. E poi perchè si dovrebbe essere matti a tenere un diario?
    Forse perchè non è bene tenere una cronaca dei detriti mentali ? sai.. penso proprio che Pavese non gli abbia detto che tenesse un Diario per il semplice motivo che sapeva che calvino non era capace di proiettarsi nella sofferenza altrui . La famosa empatia.
    So di essere impietosa con calvino, mi scuso con i lettori che amano calvino.
    francesca

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)