venerdì 1 marzo 2013

La possibilità di un'isola


Il 6 febbraio, su Radio3, durante la puntata del giorno del programma Fahrenheit, il vice presidente vicario dell’”Associazione librai italiani” Paolo Ambrosini ha affermato che le librerie “non devono essere delle isole”. Si parlava della crisi che sta colpendo il settore e di prezzi, e con la sua affermazione intendeva dire, se ho capito bene, che le librerie devono tener conto di quello che capita fuori: perché le librerie ritornino a funzionare, devono, prima di tutto, ascoltare le voci o le richieste di chi sta all'esterno. Ciò dovrebbe accadere per non far morire le librerie e, si spera, chi ci lavora. Qualche giorno fa ho scritto più o meno la stessa cosa e cioè che “il mondo dei libri” - e con questa espressione intendo mettere al centro del discorso anche le case editrici, gli scrittori, le librerie, le biblioteche, i librai e i bibliotecari - si comporta a seconda di come si comporta il mondo intero. Se le librerie si stanno ammalando significa che la società sta andando da un’altra parte, da sola, con obiettivi diversi da quelli precedenti. La cultura, purtroppo, ha la forma dell’acqua e cioè la forma che le viene data, quella del recipiente che lo contiene. Ecco, prima che le librerie chiudano e i librai rimangano a casa senza stipendio, bisogna fare uno sforzo affinché tra il dentro e il fuori continui ad esserci un discorso comune e soprattutto condiviso. Le librerie non devono essere delle isole, appunto. 

Prima di proseguire, chiedo scusa ai bibliotecari per aver messo nel cono di luce loro e me, come se le biblioteche vendessero libri. Chiedo scusa, quindi, però vi assicuro che la mia passione per la carta stampata, e quella di tanti altri librai, non è minore a quella di un bibliotecario. E poi i libri, penso, sono sempre quelli, sia che stiano su uno scaffale di una stanza silenziosa e magari elegante, sia che stiano sul ripiano di un negozio di un centro commerciale. Detto questo, mi chiedo ancora, visto che ne avevo già parlato, cosa sono i libri e a cosa serve leggerli. 


Un amico tempo fa mi ha dato una bellissima risposta: io leggo per nutrire la mia fantasia, prima che muoia. Penso che sia un validissimo motivo: leggere per non far morire la propria immaginazione, che nella vita serve sempre. Mio fratello mi regalava libri dicendomi che la lettura è una buonissima occasione per imparare a scrivere e parlare. Buon movente, davvero. Poi c’è chi mi ha detto di leggere per emozionarsi, per far passare il tempo, per imparare “un sacco di cose”, per conoscere meglio le persone e per condividere esperienze. Anche questi mi sembrano validissimi motivi. Ognuno, a secondo del tempo a disposizione ma anche del proprio carattere, trova il proprio motivo, ovviamente. Io leggo per concentrarmi, ad esempio. Siccome sono una persona distratta, la lettura mi serve per imparare a concentrarmi su una questione sola, e cioè quella che sta nel libro. Il cinema ha la stessa utilità. Due ore in poltrona diventano efficaci strumenti per imparare a fissare una trama, senza distrazioni. Con un po’ di presunzione, devo dire che sono diventato molto bravo a mettere i miei occhi sulle pagine o sulle inquadrature dei film, però vi confesso che ho bisogno di allenamento giornaliero, più o meno duro, più o meno piacevole. Mi bastano pochi giorni senza libri o film per diventare un distratto e un disordinato, per diventare una persona che non sa più dire quello che vorrebbe dire, o che dice una cosa ma ne pensa un’altra. Sono stato fatto così, con parecchi difetti di fabbrica. Cosa posso fare se non curarmi?

Il tempo che passa non è una bella cosa, visto che ci fa invecchiare, però è anche vero che a volte, ma non sempre, ci fa scoprire, belle o brutte che siano, nuove cose su noi stessi. Ad esempio, non troppo tempo fa, ho scoperto un altro motivo che mi spinge alla lettura: imparare ad essere timido. I timidi parlano poco, vero? Ecco, più leggo e meno parlo. Però questo non significa che non ho idee o sentimenti che mi circolano nelle vene. Anzi. Significa che le tengo per me e che le utilizzo nel momento più appropriato, come fossero armi delicate che aspettano il proprio momento per colpire. “La timidezza è bella ma la timidezza può impedirti di fare tutte le cose che ti piacerebbe fare”, canta Morrisey in Ask. È vero, ha ragione lui, il rischio è quello di rimanere immobili per tutta la vita, di non tentare, di non fare, di non dire e di non vivere. Ultima citazione e poi la smetto con questo discorso, giuro: “Il vero poeta è il poeta che non scrive poesie”. L’ha detto Pasolini. E io penso di aver capito cosa intende dire: intende dire che le emozioni, e tutto ciò che fanno una poesia, quando le mettiamo su un foglio si sciupano. La dimensione interiore non dovrebbero essere condivisa. Un’idea parecchio strana, vero? Sì, per me è un’idea strana, in grado, però, di spiegare quello che intendo io per timidezza.

Insomma, la mia idea di libri e di lettura ha più a che fare con l’isolamento che con la partecipazione. Ma le librerie, i libri, le case editrici, i librai, i bibliotecari non dovevano, invece, partecipare, essere una parte del tutto? E la frase di Ambrosini – le librerie non devono essere delle isole - come può conciliarsi con quello che ho appena detto? La mia risposta è questa: non lo so. Quello che penso io, alla fine di questo lungo e noiosissimo discorso, è che la libreria (la biblioteca, la scuola) dovrebbe essere un posto di riparo dal mercato e da altro ancora. Anzi, penso che le librerie, i libri, gli editori, gli scrittori debbano essere nemici di questo mondo che vediamo tutti i giorni, non amici; contestatori, non sostenitori. Questo significa essere delle isole? A volte sì. Significa più che altro che la cultura, perché di cultura sto parlando, dovrebbe, a costo di un lungo e faticoso braccio di ferro, diventare un recipiente e il mondo, perché no, acqua. 

3 commenti:

  1. Mah... non so se vi conviene diventare "contestatori" del mondo. Non ha mai giovato a nessuno.

    Quel che è certo è che librerie smetteranno di essere "negozi dove si vendono libri". Io le vedo più come "agenzie di viaggio della cultura". Uno deve entrare in libreria senza sapere bene cosa acquisterà e leggerà. Deve incontrare gente, partecipare a eventi organizzati dalla libreria, socializzare col libraio. Il libraio cercherà di capire quali sono i gusti del cliente e cercherà di proporgli qualche "viaggio" che gli piacerà.

    Insomma bisogna restaurare il rapporto libraio-cliente. Altrimenti si finisce per contestare il mondo e non proporne uno nuovo.

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  2. Io, leggendo, mi isolo da chi mi sta intorno, visto che difficilmente riesco a condividere il mio interesse.

    A cosa servono le librerie? Oltre a vendere libri, gestire incontri e presentazioni, possono consigliare i lettori, ma forse il rapporto cliente-libraio sembra estraneo a un mondo fatto di forum e social media.

    Che poi si legga poco è un discorso legato, secondo me, a società, famiglia, scuola, televisione e politica.

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