sabato 30 marzo 2013

Gli altri

del Disagiato

“Ma com'è possibile che lei mi sa solo consigliare cose tristi?” Me l’ha detto qualche giorno fa una cliente, alla quale cercavo di consigliare un libro tra i tanti libri della libreria. I titoli che proponevo erano in effetti “cose tristi”, tristissime, storie di uomini o donne che rimangono soli o muoiono in solitudine. Cosa c’è di peggio al mondo della solitudine e della morte? Altri clienti, in passato, mi hanno fatto notare questa mia criticabile tendenza e la risposta che arriva per respingere la mia idea di letteratura è più o meno: già la vita è triste, se poi leggiamo anche libri tristi ti raccomando. Ai clienti, ovviamente, non dico mai quello che nel profondo temo e cioè che spesso la letteratura - e, già che ci sono, aggiungo il cinema, un altro modo di raccontare storie - ci viene incontro non per, come abbiamo pensato molte volte, insegnare, ma per confermare quello che sappiamo già: la vita è dolore inutile, e non c’è rimedio. 

Martha Nussbaum, nel suo libro Non per profitto (il Mulino 2010), partendo dai sistemi educativi degli Stati Uniti e dell’India riflette su quale ruolo abbia oggi l’insegnamento delle materie umanistiche. È una domanda che serve a far dire all’autrice che oggi, soprattutto nella parte occidentale del mondo, si tende a dare alla cultura umanistica un ruolo marginale. “La spinta al profitto induce molti leader a pensare che la scienza e la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei loro paesi”. Lo studio dell’arte, dei classici, della storia non può, invece, portare ricchezza e per ciò le ore da dedicare a queste materie diminuiscono. L’autrice non nega che esista un collegamento tra scuola e sviluppo economico, ma cerca di stabilire, guardando anche alle esperienze passate e ascoltando la voce di chi questo passato l’ha vissuto, di cosa la scuola si debba nutrire. Tullio De Mauro, nella sua bella introduzione, scrive: “Non si tratta di negare quel collegamento, come fa chi pensa che con la cultura non si mangia. Si tratta di leggerlo nella complessità delle vicende educative e storiche”. Il libro riporta i dati, dati semplificati, riguardanti le relazioni tra sviluppo economico e istruzione tra il 1950 e 2010. Nel 1950 la popolazione mondiale aveva un’istruzione media di 3,2 anni, nel 1980 di 5,3 anni e nel 2010 di 7,8 anni. La scolarizzazione ha portato ricchezza o forse è l’economia che ha dato terreno fertile alla scuola e al sapere, ma è a questo punto che Martha Nussbaum accende la prima scintilla del libro: basta una buona coincidenza tra sviluppo economico e sviluppo scolastico per dare anticorpi a un paese democratico? Il libro esiste per dire no e il sottotitolo sintetizza molto bene l’argomento che abbiamo davanti: Non per profitto – Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica. 

Le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, sintetizzo io, per rendere capaci di critica i cittadini. Sarebbe, questa, una buona lettura per chi la scuola la fa o la frequenta e un po’ meno, lo ammetto, per chi la guarda da distante. Il pericolo, per chi come me la guarda da lontano, è quello di cadere nel moralismo e cioè nel desiderare un mondo secondo criteri intimi e personali o, peggio ancora, nel giudicare la società per come la desidererei. Ma anch’io, come la Nussbaum, mi sono chiesto a cosa serve la cultura umanistica. Anzi, mi sono fatto una domanda (e già molte volte, qui, ho provato a rispondere) meno precisa, dai contorni sfocati: a cosa serve leggere un libro o guardare un film? Nussbaum risponde, o cerca di rispondere, e tra le sette capacità che secondo lei una democrazia “umana” dovrebbe saper sviluppare, ne rubo una che va benissimo per la mia domanda: “La capacità di raffigurarsi la varietà dei problemi della vita umana così come essa si svolge: di pensare l’infanzia, l’adolescenza, i rapporti famigliari, la malattia, la morte e molto altro tenendo in considerazione un ampio spettro di storie personali, e non solo un insieme statico”. Ecco, la letteratura e il cinema servono a comprendere gli altri; a metterci nei panni degli altri. E gli altri la maggior parte delle volte scrivono quando sono, o fingono di essere, in seria difficoltà, in miseria, nella malattia, nella povertà. Questo non esclude il romanzo leggero o il film spiritoso, ma la mia sensazione è che tutti quanti ci commuoviamo di più davanti a una pagina (un verso, una scena di un film, una canzone) che racconta “cose tristi” anziché davanti a una vicenda leggera e spiritosa. Però, direbbe il cliente della libreria, già la vita è triste, poi se leggiamo anche libri tristi non è più finita. 

In un film di Michael Haneke, Amour, l’anziana signora Anne viene colpita da un ictus. Una mattina, mentre sta facendo colazione con il marito, Anne si spegne, sguardo nel vuoto, per qualche minuto, per riprendersi come se non fosse successo nulla. Da qui in poi, il film (triste) racconta il deterioramento di Anne (metà corpo rimane paralizzato) e dell’amore del marito, che la accompagna con delicatezza verso la fine. La regia è lenta, spietata e a volte ossessiva e tutto quello che accade, accade in un appartamento, nelle solite due o tre stanze. Come ho già detto è un film che potrebbe essere definito triste. È uno sguardo non proprio poetico sulla malattia e sulla consapevolezza della morte, che è lì vicina. Poi, a un certo punto del film, capita questo. Mentre stanno pranzando, Anne chiede al marito di prenderle l’album delle fotografie. Lui si alza, va in una stanza accanto, torna e appoggia l’album delle fotografie sul tavolo, davanti alla donna. Lei si mette gli occhiali, apre l’album e poi, piano e con addosso lo sguardo perplesso del marito, comincia a guardare le fotografie: lei quando era solo una bambina, lei quando era adolescente, lei poco più che adolescente e poi lei da adulta. Anne, allora, dice: “È bello”. “Che cosa?”, le chiede il marito. E Anne risponde: “Vivere…così a lungo. Una lunga vita”. Solo dall’alto si vede il punto d’uscita di un labirinto. Ecco, forse leggere un libro o guardare un film ci permette di guardare le cose dall’alto, per trovare l’uscita o anche solo la voglia e la forza per cercarla. “La capacità di raffigurarsi la varietà dei problemi della vita umana così come essa si svolge”, scrive Martha Nussbaum. Non solo per essere cittadini critici e neppure per essere felici - noi non chiediamo così tanto - ma almeno per confidarci, anche a bassa voce, che della vita degli altri, oltre che della nostra, qualcosa, anche solo un poco, abbiamo capito. E poi, chissà, magari anche per dirci che sarebbe bello vivere una lunga vita.

2 commenti:

  1. Potrei quasi scrivere le stesse parole sostituendo cultura umanistica con cultura scientifica. Al massimo dovrei sostituire i riferimenti cine-letterari, ma senza troppa difficoltà.

    La cultura serve perché c'è un mondo là fuori. Un mondo che ci aspetta e non è sempre amichevole.

    Per capire tutto questo, però, non è sempre necessaria la tristezza!

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  2. Ho letto con piacere il saggio di Martha Nussbaum e condivido la sua tesi.
    Ho constatato con amarezza e rassegnazione come il medesimo saggio sia stato scambiato, dagli intellettuali de noantri, compreso l'autore della prefazione, Tullio De Mauro, come un manifesto in difesa del liceo classico, quando nel libro il latino e il greco antico, come discipline di studio, non sono nemmeno nominati.
    Sto dalla parte dei tuoi clienti quando consigli loro libri tristi ;-)

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)