Entrai per la prima volta nella libreria nella quale lavoro oggi per fare un colloquio. Ero uno studente fuori corso iscritto alla Facoltà di Lettere di Milano, avevo pochissimi soldi e facevo il cameriere in un ristorante di Brescia. Quando mi telefonarono per dirmi del colloquio, e di una possibilità di lavoro in quella libreria, esultai. Libri. Vendere libri. Stare in mezzo ai libri. A me i libri piacevano tantissimo e starci in mezzo tutto il giorno, pagato… insomma, potete immaginare la gioia. Arrivato in libreria, la responsabile mi portò in un piccolo magazzino, mi fece sedere e dopo una brevissima presentazione mi disse che loro essenzialmente avevano bisogno di una persona seria e con tanta voglia di lavorare. Di voglia ne ho, dissi, ma oltre alla voglia ho pure le conoscenze: "Leggo libri e conosco le case editrici”. “Guarda, questo non ha molta importanza”, mi rispose lei. E me lo disse con il tono di chi è stanca di sentirsi dire una cosa come quella. “Non ha importanza?”, pensai. Lavorare in una libreria significa conoscere gli scrittori e i libri, se non sbaglio. Ma me ne stetti zitto, un po’ impressionato, un po’ spaventato. Poi la responsabile mi disse che serviva la mia disponibilità anche a chiudere il negozio alle dieci di sera, a lavorare di sabato e di domenica, a sollevare pesi, a sporcarmi le mani, a maneggiare soldi, a non perdere troppo tempo con i clienti e a rendermi disponibile a fare qualche ora in più qualora ce ne fosse stato bisogno (già, altri tempi). “Ecco, mi serve una persona disposta a fare tutte queste cose”, chiuse sbrigativamente, Non mi parlò di libri e non mi parlò di letteratura, quindi. Non voleva conoscere me e i miei interessi; serviva una persona che lavorasse a testa bassa, senza perdere troppo tempo con i clienti. Io vacillai. Ripeto, su quella sedia, in magazzino, mi aspettavo che mi si richiedesse un po’ di competenza. Che si valutasse, più che altro, la mia voglia di stare con i clienti per proporre loro libri che conoscevo o che avrei conosciuto. “Questa donna è matta”, pensai allora, tanti anni fa, prima di dirle che sì, che ero disposto a fare quello che mi chiedevano. Ve l’ho già detto che ero senza soldi?
Come racconta in Se questo è un uomo, Primo Levi viene catturato dalla milizia fascista il 13 dicembre 1943. Ha ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza e una decisa propensione a vivere in un suo mondo scarsamente reale. Negli interrogatori che seguono, Levi si dichiara “cittadino italiano di razza ebraica” e come ebreo viene inviato a Fossoli e poi, assieme ad altri come lui, trasferito in Polonia, disperati, disintegrati nel loro essere: “Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli”. Dopo aver varcato un cancello che regge la scritta ARBEIT MACHT FREI, i prigionieri vengono fatti entrare in una "camera vasta e nuda, debolmente riscaldata". Sono tutti spaventati e soprattutto assetati. Questo è l’inferno, pensa Primo Levi. Non si riesce neppure più a pensare oltre che a bere. Gli uomini vengono denudati dopo essere stati disposti in file da cinque da una SS. “Attenti a non farvi rubare le scarpe”, dice quest’ultimo. “Rubare le scarpe?”, si domanda lo scrittore. “Rubare da chi? Perché ci dovrebbero rubare le scarpe? E i nostri documenti, il poco che abbiamo in tasca, gli orologi?”. Tutti quanti vengono tosati e questo li fa sentire come bestie. Nessuno spiega loro cosa sta succedendo, fino a quando un uomo vestito a righe entra nella stanza e a loro, in un brutto italiano, spiega che si trovano a Mònowitz, vicino ad Auschwitz, che sono in un campo di lavoro, che riceveranno scarpe e vestiti, che sono in quella stanza per la doccia e per la disinfestazione, che ci sarà lavoro per tutti e che lui è un medico ungherese che ha studiato in Italia. Lui è lì da quattro anni non perché è ebreo ma perché è un criminale. Dice altre cose, evita di rispondere alle domande dei prigionieri, tanto che Levi pensa che quel medico ungherese tanto cortese è un matto: “Forse è un matto: in Lager si diventa matti”.
L'ungherese continua dicendo che tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio, che lavorando bene si ricevono buoni per comprare sapone e tabacco, e poi dice anche una cosa che Levi non capisce e che comprenderà solo più tardi: chi tira bene di boxe può diventare cuoco. E perché mai chi tira bene i pugni può diventare cuoco? Sì, questo medico ungherese deve proprio essere matto. A tutti loro, dichiarerà in un’intervista lo scrittore (Conversazioni e interviste, Einaudi, 1997, pag. 193) questa cosa del pugile e del cuoco sembrò una cosa assurda e folle. Ma solo dopo capirono che era proprio così: in un campo di lavoro come quello, in quelle condizioni, “per il cuoco è indispensabile saper stendere a pugni, perché deve saper difendere i suoi manufatti”. Lo capirono solo più avanti, quando molti di loro era già uomini annientati, quando l’esperienza era lezione da imparare e tramandare.
Da poco tempo, anch'io, ho capito che per essere bravi cuochi bisogna tirare bene di boxe. Per sopravvivere oggi in una libreria – il paragone con un campo di lavoro è azzardato, scusate - bisogna esseri seri, disposti a chiudere il negozio alle dieci di sera - cinici e magari silenziosi - e a non perdere troppo tempo con i clienti. Sì, ma conoscere un poco di letteratura, gli autori e le case editrici, serve? Aiuta ma non è indispensabile per difendersi dall'incredibile quantità e dalla scarsa qualità. Anni fa la responsabile mi aveva avvisato che per sopravvivere e per guadagnare sarebbero servite ben altre virtù e predisposizioni. In un campo di lavoro come questo, mi disse lei, il cuoco deve essere bravo a rifilare pugni, più che cucinare. E magari non solo nel mio, ma anche nel vostro campo di lavoro, lettori che siete con me in questa vasta e fredda camera.