martedì 8 febbraio 2011

lavorare stanca (assai)

di lo Scorfano

Se voglio provocare qualcuno, mi chiedi? No che non voglio provocare. E se voglio far nascere le solite discussioni sui fannulloni e le vacanze estive e quelle di Natale e i pomeriggi liberi? No, non voglio provocare nessuno e non voglio nemmeno parlare di tutte quelle altre robe lì, onestamente. Poi, se qualcuno volesse, ne parliamo pure; ma oggi vorrei solo dire una cosa semplice, che mi pare obiettiva e ragionevole. Non una provocazione, insomma; piuttosto un dato di fatto.

E il dato di fatto è che più o meno due anni fa io aprii un blog, che si chiamava come mi chiamo io adesso in rete. Erano tanti anni che silenziosamente leggevo i blog altrui e che a volte, con ligurissima parsimonia, li commentavo pure; finché un giorno, il 27 dicembre del 2008, cedetti alla tentazione e ne aprii uno mio. Fu una bella storia, anche se breve, e conobbi gente che ancora oggi mi piace frequentare. Ma, tra le tante cose che imparai, ce ne fu una che mi stupì davvero tanto. Fu questa:    



Il blog veniva commentato e letto e visitato soprattutto in mia assenza. Durante l’orario di lavoro, insomma. E io spesso non c’ero e poi mi toccava tornare a casa di corsa e, sempre di corsa, mangiare e rispondere ai commenti ricevuti appena dopo pranzo, con la pasta ancora sullo stomaco. Se poi, per caso, un giorno avevo corsi di recupero o una riunione, tornavo a casa alle 18 e tutto era accaduto in mia assenza: commenti, litigi, letture intelligenti e letture distratte. E infine: nel weekend, quando io avrei potuto esserci e tenere botta, non veniva quasi nessuno, la metà delle visite di un normale giorno feriale. Mi dispiacevo e mi avvilivo.

Immagino che i blogger di lungo corso trovino tutto questo assai normale; lo so, anch’io adesso lo trovo normale. Ma all’epoca mi stupii non poco. Anche perché, lo sapevo bene, gli amici che commentavano o polemizzavano sul mio blog lo facevano dal loro luogo di lavoro, mica da casa; erano (alcune “sono”, anche su quest’altro spazio) persone con incarichi di rilievo in aziende, uffici, luoghi di lavoro vari. Insomma, nessun disoccupato, nessun aristocratico che vivesse di rendita (e nemmeno nessun contadino o operaio, questo ogni tanto ce lo dimentichiamo).

La discronia tra me e loro era però inevitabile. Perché capitava anche a me, durante il pomeriggio, di correggere verifiche o preparare lezioni o sbrigare un po’ di lavoro editoriale con un occhio al computer e l’altro al lavoro vero e proprio. Mi capitava di lasciare a metà la frase di un libro in bozza per digitare una battuta su FriendFeed. Si può fare, non è una cosa strana o infernale, in qualche modo aiuta anche a lavorare meglio. Ma si può fare solo se non si fa il mio mestiere.

Perché il mio mestiere consiste invece nello spegnere il cellulare (qualunque cellulare) alle 8 di mattina e riaccenderlo alle 13. E, se ho una riunione o un corso di recupero, riaccenderlo alle 17 o alle 18, il che capita più di una volta alla settimana, sempre. E insomma, senza polemica, ma non è mica una differenza da poco. Io non posso distrarmi mai, durante il mio lavoro; non posso restare on line, perché faccio quel tipo di lavoro; ho sempre domande a cui rispondere e risposte da pretendere e lezioni da spiegare e lavori da organizzare con persone di quattordici o sedici anni; e poi anche facce da osservare e da non dimenticare, e parole da dire che siano chiare, efficaci e pronte e a volte affettuose, altre volte giustamente severe, sempre equilibrate, sempre pertinenti, sempre calibrate. E io passo le mie ore di lavoro sotto osservazione, sessanta minuti su sessanta, tutte le mattine, e se sbaglio qualcosa devo rimediare subito e comunque in tanti se ne accorgono lo stesso. E un occhio allo schermo del computer non posso proprio buttarlo, mai, nemmeno una volta in tutta la mattina.

Poi, è vero, io lavoro solo diciotto ore alla settimana, dirà qualcuno (sbagliando, in realtà: perché sono venti, solo di mattina, ma lo racconto un’altra volta). E diciotto ore sembrano pochine, francamente. Ma, mi si permetta questa piccola rivendicazione, visto che ho lavorato per sei mesi anche nella redazione di una casa editrice, tanto tempo fa: sono ore mediamente (sottolineo: mediamente) molto più pesanti di quelle di chi lavora in un ufficio. Sono ore in cui non posso accendere il telefono o il pc, per esempio; e nemmeno andare a prendere un caffè con un collega. Sono ore in cui, se mi distraggo un attimo, un alunno tira il volume di epica sulla testa dell’altro. E poi tutti quanti mi dicono che è compito mio far sì che non succeda. Ed è giusto: è compito mio, ci mancherebbe altro. E infatti nelle mie classi nessun alunno tira nessun volume sulla testa di nessun altro, per fortuna.

Ma, sebbene ovvio, è un dato che si trascura, quando si parla di insegnanti e fannulloni e vacanze di Natale: si parla più volentieri di altro, della missione, della vocazione, della delicatezza del compito, dello stipendio, della necessità di una valutazione; magari si parla anche degli impegni pomeridiani (leggere, correggere, studiare, aggiornarsi). Tutte cose giuste, in realtà; ma non si parla mai della fatica, che invece è tanta e non è quella di un altro lavoro, un lavoro “normale”. E a volte invece sarebbe meglio che se ne parlasse un po’ di più, secondo me, di questa fatica tutta “speciale”.

Ho finito, insomma. Spero vi siate accorti dal tono che non era affatto una provocazione. Se qualcuno invece dovesse prenderla come tale, o è colpa mia, che ho scritto male, o forse è colpa sua, che non vuole capire. E se qualcuno per caso non vuole proprio capire, c’è solo un sistema con cui io potrei fargli cambiare idea: fare lo scambio per un anno, lui al mio posto, io al suo. 
Ma, detto con franchezza, è uno scambio che non farò mai: perché, nonostante il computer così lontano e il cellulare spento e il caffè che non prendo mai con il collega, il mio lavoro a me mi piace ancora molto più del suo. E non glielo do, nemmeno per un anno solo.

14 commenti:

  1. eh, ma quando lavori al pc ti basta un semplice clik per trovare il mondo che c'è la fuori (no, quello che credi essere il mondo la fuori). poi quando finalmente ci vai tu la fuori perchè mai dovresti riaccendere un pc? comunque non ha mai pensato che insegnanti e professori lavorassero poco. anzi, devono trovare le motivazioni per darsi da fare anche al di fuori dell'orario di lavoro. e non mi sembra così facile

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  2. Be', ovviamente essendo fisicamente lontano dal computer per tutto l'orario di lavoro, ti è impossibile essere on-line. Sarebbe lo stesso se facessi il corriere o il muratore :-)

    C'è però una differenza sostanziale con il lavoro d'ufficio: io con un po' di destrezza posso usare internet, ma alla fine della giornata devo rendere conto del lavoro svolto; tu devi essere sempre concentrato, ma non c'è nessuno che controlla quello che fai.

    Diciamo che sono due tipi diversi di pressione: tu devi essere concentraro al 100% per quelle 20 ore, io posso gestirmi le mie 40 fintantoché a fine giornata quello che dovevo fare è stato fatto. In caso contrario posso essere mandato a casa con 4 settimane di preavviso.

    Comunque è assolutamente vero che internet è il più grande fattore di improduttività degli uffici, ci sono molti studi a riguardo ed infatti nei luoghi di lavoro un po' più strutturati è impossibile accedere ai più popolari siti web.

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  3. Bhe, che non si abbia nessuno a cui rendere conto non è poi così ESATTO (e qui seguiranno raffiche di insulti perché io non ho mai fatto il lavoro dello Scorfano, ma la mia mamma sì - all'incirca - quindi un po' di cognizione di causa ce l'ho): se non si fa bene il proprio mestiere la classe può andare allo sfascio, i genitori possono notarlo, il preside può notarlo, gli altri prof possono notarlo. Se non si sta al passo con i programmi la classe non arriva dove deve arrivare e questo è un problema evidente a tutti. Se non interroghi tutti quelli che devi interrogare i ragazzi vedranno che mancano dei voti. Se, in un ordine minore di scuola, non tieni fisicamente a bada i pargoli, non li segui nelle loro funzioni corporee basilari, si rischiano incidenti e querele. Come vedi, di "supervisori" ce ne sono tanti, anche se non c'è un Capo. Poi, che il dipendente nullafacente non possa essere licenziato se non per gravissimi motivi, questa è un'altra storia, che ha a che vedere con il settore pubblico e NON con l'insegnamento, che è quello su cui mi sembra che Scorfano volesse porre l'attenzione.

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  4. Immagino anche che il professore che fa esplodere la scuola in una palla di fuoco lasciando una rivendicazione video su Youtube possa perdere il posto.

    Lasciando da parte le cavallette che escono dai muri e parlando di quello che normalmente e ragionevolmente accade in un posto di lavoro, il preside potrà anche guardare, ma più di quello non succede.

    Non è questione di avere un capo: il problema è che io ho il dittatore, il cliente. Il capo è lì per controllare che il lavoro venga fatto secondo contratto, altrimenti il cliente non paga e si finisce tutti col culo per terra.

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  5. Io credo che anche un professore che fa male il proprio mestiere faccia cadere "tutti col culo per terra", con la differenza che questo tonfo avviene in modo diverso. E, a mio modestissimo avviso, non credo che il saggio scorfano volesse innescare una gara a chi fa il lavoro più stressante o più faticoso, ma semplicemente mostrare che l'insegnante ha tutti i diritti di essere stanco perchè anche lui, come tutti i lavoratori, fa fatica. Con la differenza che sul suo lavoro gravano una serie infinita di pregiudizi e facili ironie (dovute allo scatafascio del settore pubblico in sé, e non alla nobilissima arte dell'insegnamento).

    (Ma forse sono di parte, perchè è il mestiere che ungiorno vorrei fare anche io...)

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  6. Non sono certo stato io a innescare la gara, ho detto che si subiscono due tipi di pressione diversa.

    È stata tinni a contestarmi che non è esatto.

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  7. Sì, sono pressioni molto diverse, è esatto.
    In realtà, quel che mi premeva molto di dire è che le "mitiche" 18 (o 20) ore sono molto intense. Prevedono l'abolizione di tutto ciò che resta fuori dal lavoro e una concentrazione assoluta. Il che le rende di una fatica particolare, il che implica necessariamente che siano 18 e non 40, magari più gestibili.
    Poi sul "controllo" e i "controllori" sarebbe un discorso molto lungo: ma che ce ne sia poco, nella scuola, è purtroppo vero. Ci sono tantissimi modi per lavorare male ed è difficile che qualcuno te lo faccia notare. Su questo mi pare ci sia un ampio dibattito in corso (ne parlerò presto, ne ho voglia).

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  8. @Frank
    Il lavoro che un insegnante fa a casa sua dipende sostanzialmente da lui insegnante. Il quale, poi, se è un po' onesto con se stesso vede la differenza tra una lezione preparata e una improvvisata; tra un'idea didattica che c'è e un'altra che latita o che non c'è.
    Però resta tutto nei limiti della sua discrezione: è un difetto evidente della scuola italiana (ma non soltanto) che abbiamo.

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  9. Il lavoro dell'insegnante è tra quelli a più alto tasso di burn-out: tanti finiscono per sbroccare, e può capitare a tutti, perché non esiste professore che non desidererebbe ogni tanto buttare uno studente fuori dalla finestra a solo scopo dimostrativo.

    Si lavora in un ambiente che non ha paralleli: si possono avere colleghi pessimi, ma nessuno in ufficio si troverà investito da emozioni e reazioni forti quanto quelle di un adolescente o di un bambino.

    E la risposta è sempre asimmetrica: se loro ti usano per sfogarsi tutte le loro magagne, tu non puoi fare altrettanto. Tu diventi il loro bersaglio perché si rivalgono in classe di quel che gli capita a casa, e devi avere la pazienza di Giobbe.

    Per evitare di diventare chilometrico (anche sul fatto che 18 ore sett. sono troppo poche), altre cose le dico sul mio di blog.

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  10. io il martedì sono a a scuola dalle 8 alle 16, ho sei ore in sei classi diverse, con un buco a metà mattina e uno per la pausa pranzo. arrivo a casa stra-vol-ta.

    c'è anche da dire che, in un ufficio, o comunque quando si lavora tra dulti, uno - se ha un problema a casa, se no nha dormito la notte o ha mal di denti - può arrivare, far presente la difficoltà e avere un minimo di comprensione e attenzione dai colleghi. questo, con gli adolescenti non è possibile: bisogna essere sempre al 100%, anche al 110%, altrimenti difficilmente si riesce a gestire la classe e il suo lavoro.

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  11. Comunque secondo me c'è un punto fallace di partenza, che è un po' la solita storia degli insegnanti "che non fanno niente" o che sono "fannulloni".

    Infatti tutti gli insegnanti, in queste discussioni, si affrettano a sottolineare che il lavoro è duro, stanca, affatica.

    La questione secondo me è mal posta perché, alla fine, quanta fatica uno fa è del tutto ininfluente rispetto al risultato; anzi - in qualsiasi lavoro - se uno dopo un po' fa un sacco di fatica, probabilmente è perché lavora in maniera poco efficiente.

    È il risultato a contare, se poi uno fa un sacco di fatica e un altro arriva fresco come una rosa, buon per il secondo.

    (che poi è bellissimo vedere che tutti sono sempre convinti che il lavoro degli altri sia meno faticoso. È una di quelle costanti universali che non ci abbandoneranno mai).

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  12. Ah, guarda, i miei studenti (più grandi dei tuoi), se io dico che ho mal di denti, si dimostrano subito solidali: "Non facciamo niente, prof!"

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  13. Io ho smesso di bere, perché se bevo mi scappa la pipì e se mi scappa non ho modo di andare in bagno.
    Comunque che se uno fa un sacco di fatica è perché lavora in modo poco efficiente è vero solo in parte. Fare il chirurgo è oggettivamente faticoso - fisicamente, se devi mantenere una certa posizione per tempi lunghi, per esempio, e poi richiede grande attenzione e concentrazione. Raccogliere pomodori anche è molto faticoso. Fare lezione per cinque o sei ore di fila è faticoso, magari non così tanto come raccogliere la frutta, ma lo è (provare per credere): per fortuna uno non ha cinque ore ininterrotte di lezione tutti i giorni. Ma a me la cosa che pesa di più è quella sensazione - che non mi molla mai - che potrei fare ancora di più, e meglio.

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  14. C'è da dire che insegnare era impegnativo anche prima dell'invenzione di internet.

    Io non sento la necessità di difendere la faticosità del mio mestiere (i mestieri non sono pagati in base alla fatica, ma alle competenze e alle responsabilità), però è un fatto: due ore di lezione in classe ti possono sfiancare.

    Niente di irreparabile, solo la tensione che nasce dal dovere avere tutto sotto controllo, spiegare tutto a tutti, controllare che tutti ti seguano, far sì che nessuno si faccia male.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)